RASSEGNA STAMPA

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venerdì 18 luglio 2014
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Da Redattore Sociale del 16/07/14
Cooperazione internazionale, Arci: “Risorse
certe e massima trasparenza"
Oggi in aula alla camera il ddl di riforma. Positivo il giudizio
dell'associazione: "Le realtà sociali dovranno essere presenti in tutti gli
ambiti politici di programmazione, consultazione e rappresentanza che
la legge prevede"
ROMA - Da oggi è all’esame della Camera il Ddl per la riforma della cooperazione
internazionale, proposto durante il governo Letta e il cui iter è ripreso con l’attuale
governo. “Si sono attesi alcuni decenni per aggiornare contesto, contenuti e strumenti
dell'azione del 'sistema Italia', pubblico e privato, nel quadro globale della solidarietà, del
volontariato, dell'aiuto umanitario e della costruzione di relazioni tra popoli e comunità”, si
legge in una nota dell’Arci. “Finalmente questi obiettivi e pratiche sono riconosciuti come
parte integrante della politica estera, tanto che la denominazione del dicastero della
Farnesina diventerà ‘Ministero degli Esteri e della Cooperazione Internazionale’”.
“Il ddl in discussione – prosegue l’Arci - raccoglie le istanze delle organizzazioni sociali
che lavorano perché tutte le scelte politiche del nostro Paese siano coerentemente
indirizzate a garantire un mondo di pace, giustizia e diritti globali. Il testo, se non subirà
modifiche sostanziali in sede di approvazione definitiva, segnerà un cambio di orizzonte
della mission della cooperazione internazionale, con una inevitabile ridefinizione delle
politiche diplomatiche dell'Italia. Non si potrà infatti non tener conto, al momento del
rinnovo dei trattati commerciali, degli accordi sulla sicurezza e sui flussi migratori con gli
altri Paesi del Mediterraneo, delle scelte compiute con la nuova legge in materia di
relazioni di cooperazione e sostegno alla pace e alla democrazia, pratiche che, oltre ai
governi, impegnano comuni, regioni e il mondo del non profit”.
“C’è bisogno però di risorse certe, e utilizzate nella massima trasparenza, da destinare
alla lotta alla povertà e alle discriminazioni, tenendo finalmente fede agli impegni presi in
sede internazionale per troppi anni non rispettati. L'Arci promuove e pratica la
cooperazione dei territori, con una visione della cooperazione internazionale che mette al
centro le relazioni tra cittadine e cittadini, associazioni e comunità per un'idea di crescita
condivisa, nella convinzione che solidarietà, dialogo, inclusione siano le fondamenta
culturali per sconfiggere gli integralismi e dare forza ai processi democratici. In
quest’ottica, ha appoggiato il processo di ridefinizione proposto dal Ddl, sottolineando
l'esigenza che nel testo fosse chiaro il ruolo degli attori sociali e delle istituzioni locali.
Valuta quindi positivamente il riconoscimento che viene dato alle tante istanze sociali
attive su questi temi: dalle ong, alle onlus e associazioni di promozione sociale e
volontariato, alle comunità di immigrati. L’Arci si impegnerà inoltre perchè venga
mantenuta una relazione stretta tra solidarietà, volontariato internazionale e promozione
dei corpi civili di pace, per legare sempre più le politiche di cooperazione con l'impegno
per la pace e i diritti”.
“Oggi la sfida – conclude l’Arci - é quella di un approccio in cui ogni attore, pubblico e
privato, profit e no profit, sia messo in grado di agire all'interno di una visione e di una
programmazione condivise, nel rispetto delle proprie mission e dei diversi ruoli, all'interno
di un quadro eticamente sostenibile. Le realtà sociali dovranno essere presenti in tutti gli
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ambiti politici di programmazione, consultazione e rappresentanza che la legge prevede,
costruendo alleanze con Enti Locali e Regioni: su questo presidio e questa azione civile si
misurerà nei fatti la forza della riforma e del cambiamento di orizzonte culturale”.
Da il Giornale della Protezione Civile del 17/07/14
LO STATO SOCIALE, SKIANTOS, PIOTTA E
CISCO STASERA IN CONCERTO PER
L'EMILIA
"Ancora in piedi" è il titolo del concerto solidale che si terrà stasera a Crevalcore (BO) a
cui parteciperanno Lo Stato Sociale, Skiantos, Cisco e Piotta. Il ricavato sarà interamente
devoluto per la ricostruzione post sisma in Emilia
Giovedi 17 Luglio 2014 - DAL TERRITORIO
A oltre due anni dal sisma che ha ferito l'Emilia continuano le iniziative solidali per portare
aiuto alla ricostruzione delle zone colpite. Stasera, giovedì 17 luglio, sarà Crevalcore (BO)
ad ospitare un concerto solidale dal nome "Ancora in piedi". L'appuntamento è per le 21 in
Piazza Malpighi e gli ospiti della serata saranno: Lo Stato Sociale, Piotta, Skiantos e
Cisco. L'ingresso è gratuito, ma saranno posizionate delle urne per le offerte libere.
In beneficenza, oltre alle offerte, andrà anche il ricavato del punto bar - escluse le ovvie
spese per i prodotti - che si sommerà a quanto si sta raccogliendo con la vendita on line
del brano che dà il nome al concerto, "Ancora in piedi". Il brano musicale, in distribuzione
dal 3 luglio 2012 nei digital store, è stato prodotto da Arci e AudioCoop e hanno
partecipato artisti come i 99 Posse, Cisco, Dellera (Afterhours), Pierpaolo Capovilla
(Teatro degli Orrori) e molti altri con il coordinamento di Tommaso "Piotta" Zanello.
Tutti i ricavati verranno devoluti interamente per la ricostruzione di edifici distrutti dal sisma
e per le popolazioni colpite.
Il concerto di stasera è promosso da Comune di Crevalcore, Pro Loco di Crevalcore,
Associazione Culturale Venere, Arci Modena, Arci Bologna, Maninalto etichetta
discografica indipendente, AudioCoop coordinamento etichette discografiche indipendenti
italiane.
http://www.ilgiornaledellaprotezionecivile.it/?pg=1&idart=13091&idcat=3
Da il SecoloXIX.it del 18/07/14
Quezzi, la festa del circolo Arci: «Venite tutti a
cantare»
Alice Martinelli
Quezzi, da stasera la festa del circolo Arci
Genova - Si canta sotto le stelle in piazza Santa Maria, per la festa organizzata dal circolo
Rino Barighini di Quezzi alta. Ugole d’oro ma anche semplici dilettanti potranno
partecipare a questa corrida che invita tutto il quartiere ad abbandonare la pigrizia delle
proprie case e a riunirsi insieme, proprio come una volta.
«La festa si chiama “Cantando sotto le stelle” proprio perché saranno tre serate dedicate
alla musica, domani, sabato e domenica, qui nei nostri locali all’aperto, in salita Costa dei
Ratti 2D Rosso - spiega Iolanda Criniti, vicepresidente del circolo Arci - quest’anno è il
nostro 46esimo anniversario e abbiamo deciso di fare le cose in grande. Già in passato
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avevamo organizzato una sorta di “Debuttanti allo sbaraglio” poi per ragioni diverse ci
siamo dovuti fermare. Ora ripartiamo, sperando di avere tanto pubblico e stimoli per la
prossima edizione».
Il circolo è sempre stato un punto di riferimento importante per Quezzi alta. Le sue feste
sono arrivate ad attirare anche 400 persone e negli anni ’70 qui si organizzavano
addirittura le Olimpiadi. «Siamo nati nel 1968 come costola del vecchio partito comunista,
con 100 firme, tante ne servivano all’epoca - ricorda Armando Valerio, uno dei soci
fondatori - poi, mentre il quartiere cresceva, ci siamo trasformati creando una rete con le
realtà presenti sul territorio, la parrocchia, la società di mutuo soccorso Cristoforo
Colombo. Prima eravamo in affitto, poi 15 anni fa abbiamo acquistato i locali grazie al
contributo dei soci: speravamo che in caso dovessimo chiudere, il Comune destinasse
questi locali ad attività sociali».
La festa, che ha il patrocinio gratuito del Municipio, comincerà stasera alle 21.30 e
replicherà domani e domenica con le stesse modalità. Le serate sono aperte a tutti,
tesserati e non che potranno sedersi comodamente negli spazi all’aperto che sovrastano il
mare e il grattacielo di via Dante. «Sul palco si sfideranno 15 cantanti per sera - spiega
Valerio - la domenica ci sarà però spazio anche per giochi di prestigio, barzellette, poesie.
Abbiamo deciso di lasciare una serata libera a chiunque voglia salire sul palco».
Non mancheranno würstel, salsicce, patate e tutto quello che serve per gustarsi lo
spettacolo a stomaco pieno. «Vorremmo che la festa fosse un momento di riscoperta del
quartiere, e speriamo che partecipino tanti giovani: abbiamo bisogno di un ricambio
generazionale, ricordo i tempi in cui questi campetti erano pieni di ragazzi - sospira Valerio
- la serata sarà divertente e abbiamo cercato di organizzare ogni cosa al meglio: ci
saranno degli stand gastronomici aperti già dalle 19, abbiamo sistemato il palco nel campo
da bocce e predisposto i parcheggi: la scuola Ball ci fornirà il piazzale per sistemare le
macchine».
Domenica alle 12.30 si terrà anche il pranzo sociale a cui possono partecipare sia i
tesserati che i non soci prenotandosi allo 010/820264.
E intanto, in attesa della grande partenza i soci fanno un appello agli abitanti: «I
commercianti della zona sono stati disponibilissimi e stasera dal palco rilanceremo:
aiutiamoli, facciamo vivere il nostro quartiere e il suo tessuto sociale! Non abbiamo più
neanche l’edicola qui, dobbiamo riportare i giovani a Quezzi alta, altrimenti siamo destinati
a soccombere».
http://www.ilsecoloxix.it/p/genova/2014/07/18/ARQ06SGB-cantare_circolo_venite.shtml
Da il SecoloXIX.it del 18/07/14
Domani via alla raccolta firme contro il Fiscal
Compact
Genova - Una raccolta firme contro il Fiscal Compact. È quella che lancia, anche a
Genova, un folto comitato promotore composto da Acli, Arci, Federconsumatori, Sunia,
Auser, Silp, Sel, Forum sinistra europea, Comunità San Benedetto e Lista Doria.
L’appuntamento è per domani, a partire dalle 11, in via XX Settembre angolo via San
Vincenzo, per la raccolta firme “Vota sì ai 4 referendum - stop all’austerità” per modificare
alcuni articoli della Legge 243/2012 che ha recepito il Fiscal Compact, ossia l’insieme di
regole che vincolano l’Unione Europea al pareggio di bilancio.
Sempre domani, ma dalle 19 alle 20, si potrà firmare nella appena inaugurata piazza Don
Gallo.
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ESTERI
del 18/07/14, pag. 1/2
Jet malese partito da Amsterdam colpito da un missile, quasi 300 morti.
A bordo olandesi, inglesi e australiani
Scambio d’accuse tra Mosca e Kiev. Telefonata Obama-Putin. Giù le
Borse, la Ue chiude lo spazio aereo
Ucraina, Boeing abbattuto dalla guerra
NICOLA LOMBARDOZZI
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
MOSCA
LA GUERRA d’Ucraina è arrivata fino a diecimila metri di altezza per uccidere 298 ignari
passeggeri di un volo delle vacanze. I loro corpi giacciono su un’area di circa quattro
chilometri in una distesa di miniere di carbone e campi di girasole intorno alla cittadina di
Shaktarsk, nel cuore dei combattimenti tra le milizie filorusse e l’esercito regolare ucraino.
Erano partiti da Amsterdam diretti a Kuala Lumpur su un aereo della Malaysia Airlines.
LA COMPAGNIA maledetta, la stessa del volo scomparso il 24 marzo. Sono stati abbattuti
molto probabilmente da un missile, ma sarà difficile accertare le responsabilità in uno
scambio di accuse reciproche tra Mosca e Kiev e nella inevitabile confusione di notizie
vere e false che si intrecciano sempre in questi casi. L’ultima, la più clamorosa, attribuita a
fonti anonime dalla agenzia russa Interfax, rivela che l’aereo indonesiano potrebbe essere
stato scambiato per quello di Putin che tornava dalla sua visita di Stato nei Caraibi e che
avrebbe incrociato il Boeing proprio circa mezz’ora prima del disastro, sui cieli di Varsavia.
L’aereo presidenziale russo ha gli stessi colori, bianco rosso e blu, della sfortunata
compagnia asiatica. Scenario inquietante e senza alcuna conferma che evoca l’ipotesi di
un attentato a Gheddafi nelle tante irrisolte ricostruzioni della strage di Ustica.
Ma chiunque sia stato, il risultato è una scena terrificante fatta di rottami anneriti, cadaveri
in abiti colorati da turista, molti bambini colti nel sonno, una con un orsacchiotto di peluche
ancora stretto al petto. Tanti avevano sul biglietto la coincidenza per il paradiso di spiagge
di Bali, guide turistiche, e foto di alberghi da sogno. Erano indonesiani, molti europei, tra
questi oltre cento olandesi, sembra una ventina di americani. Forse, ma ci vorrà del tempo
per esserne assolutamente certi, nessun italiano.
Le operazioni di recupero sono infatti lente e complicate. Affidate alle milizia della NovoRossyja, l’autoproclamata federazione delle repubbliche ribelli di Donetsk e Lugansk, che
ha già chiesto un cessate il fuoco di tre giorni per completare le operazioni. Ma anche
annunciato che invierà a Mosca le scatole nere in grado di aiutare a chiarire il mistero.
Scelta che promette di creare nuovi equivoci e sospetti. Il punto è che l’aereo stava
sorvolando una zona ad alto rischio e proprio nel pieno di una battaglia. Le truppe ucraine
stavano attaccando postazioni di ribelli che a loro volta sparavano missili contro gli aerei e
gli elicotteri militari che li sorvolavano. Proprio qualche ora prima i miliziani avevano
rivendicato come un grande successo l’abbattimento di un cargo militare ucraino nella
vicina cittadina di Fedez. Per questo è sembrata subito plausibile la spiegazione
prontamente fornita da Kiev: «I filorussi hanno colpito, forse per errore, l’aereo
indonesiano». Ma non è così semplice. Il Boeing 777 della Malaysia volava infatti a
diecimila metri, un’altezza che non è raggiungibile dai missili utilizzati dai guerriglieri. Per
colpire a quelle distanze ci vogliono, per esempio, i missili terra aria del tipo “Buk”, di
fabbricazione russa e in dotazione all’esercito regolare ucraino.
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Proprio l’altro ieri una colonna di rampe di questi missili era stata avvistata nei pressi di
Shaktarsk sotto scorta di militari ucraini.
Ma neanche questo particolare, ripetuto ossessivamente dalle tv russe, basta a fare
chiarezza. Nessuno sa effettivamente quali siano le armi a disposizione di milizie
volontarie, ufficialmente improvvisate, che però dipendono comunque logisticamente da
strutture militari a stretto contatto con Mosca. I servizi americani, afferma il Wall Street
Journal , non hanno dubbi: è stato un missile . Conferma autorevolmente il vicepresidente
Joe Biden: «Non si è trattato di un incidente... il volo Mh17 è stato spazzato via dai cieli».
E mentre Putin parlava al telefono con Obama di «assoluta estraneità della Russia», e il
presidente ucraino Poroshenko condannava il «vile atto terroristico dei filorussi», i misteri
e gli interrogativi si infittivano. Per l’aviazione civile ucraina, l’ultimo contatto è alle 15,15
(ora italiana). Ma pare che il volo destinato a Kuala Lumpur sia sparito dai radar assai
prima di raggiungere l’area dei combattimenti e che la traccia registrata si interrompa non
appena varcato il confine della Polonia, a quasi tre quarti d’ora di volo da Shaktarsk. Un
black out? Una interruzione tecnica o qualcos’altro? E a rendere tutto ancora più
complicato ci si metteva in serata Igor Strelkov, leader riconosciuto dei ribelli filorussi che
forniva la sua versione dei fatti «ricostruita sulla base di testimonianze raccolte sul
campo». L’aereo, secondo Strelkov, sarebbe comparso sui cieli di Donetsk con in coda
due caccia ucraini che lo seguivano sin da quando era passato su Kiev. Uno di questi
avrebbe sparato raffiche di mitragliatrice contro la carlinga. Ci sarebbero state due piccole
esplosioni e poi una definitiva che avrebbe fatto a pezzi tutta la fusoliera. Nel racconto c’è
anche un particolare piuttosto inverosimile: «Quando è cominciato l’attacco, due persone
si sono lanciate giù con il paracadute ». Alla versione di Strelkov fanno eco decine di
notizie lanciate sul web tra presunte intercettazioni di conversazioni dei ribelli («Abbiamo
abbattuto un aereo civile») e testimonianze fantasiose tutte da verificare.
Storia contorta e difficile che rende poco attendibili tutte le fonti e che testimonia il caos e il
vuoto di potere di quella parte di Ucraina. A cominciare dalla risposta alla domanda più
semplice e naturale: cosa ci faceva un aereo civile sopra a una zona di combattimenti
dove gli aeroporti di Donetsk e Lugansk, e le relative torri di controllo, sono contese ogni
giorno a suon di cannonate? Ufficialmente già l’otto luglio il governo ucraino aveva
dichiarato chiuso quello spazio aereo per motivi di sicurezza. Ma il divieto non pare aver
avuto alcun effetto. Lufthansa, Turkish Airlines, Air France e altre compagnie hanno deciso
solo ieri, dopo il disastro, di evitare di sorvolare le aree di guerra. Alitalia, più
prudentemente, lo faceva già da prima di sua iniziativa. Il pilota della Malaysia pare invece
che avesse ricevuto solo la raccomandazione di «sorvolare la zona alla altitudine massima
possibile». Precauzione inutile per una compagnia che molti turisti avevano forse scelto
anche per un banale calcolo scaramantico: possibile un altro disastro in meno di sei mesi?
Nessuno a bordo, poteva immaginare che tra l’Europa e il mare di Bali ci fosse la guerra di
Ucraina.
del 18/07/14, pag. 2
La rabbia di Mosca per le nuove sanzioni
occidentali
Marco Mongiello
Le norme varate «saranno un boomerang» Washington contro Banche e
aziende russe. Anche i Paesi europei verso nuove restrizioni
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Le sanzioni contro la Russia «saranno un boomerang». Così ha risposto il presidente
russo Vladimir Putin al nuovo round di misure restrittive decise dagli Stati Uniti e
annunciate dall’Unione europea, prima della notizia dell’abbattimento dell’aereo di linea
malese. Dopo mesi di avvertimenti e misure poco più che simboliche questa volta il
presidente statunitense Barack Obama ha deciso di colpire al cuore degli interessi
economici di Mosca annunciando sanzioni contro banche, aziende energetiche e industrie
della difesa. In particolare sono stati presi di mira i quattro colossi del Paese: l’azienda
petrolifera di Stato Rosneft, la banca Gazprombank, l'azienda del gas Novatek e la banca
russa per lo sviluppo economico Vnesheconombank. Sono stati anche congelati i vincoli
finanziari di diversi fabbricanti di armi, tra cui Kalashnikov. In totale sono 15 le aziende
colpite dalle misure americane. Non toccata dalle sanzioni Gazprom, la compagnia
petrolifera numero uno che esporta energia all’Europa. Inoltre, sono state annunciate
misure contro la Repubblica popolare di Lugansk e la Repubblica popolare di Donetsk, e
contro Aleksandr Borodai, primo ministro di Donetsk. Alla lista dei 21 funzionari russi
sanzionati a marzo, ne sono stati aggiunti altri otto. Nell’elenco c’è anche Sergey Besesda,
capo del Servizio del Fsb, i servizi segreti eredi del Kgb. A convincere Washington a fare
questo nuovo passo sono state le notizie arrivate dalle regioni orientali dell’Ucraina dove i
separatisti filorussi continuano a ricevere il sostegno dell’esercito di Mosca. Diversi video
hanno documentato il passaggio di convogli di armamenti russi diretti verso le roccaforti
dei ribelli dell'Ucraina orientale. Il Cremlino però continua a negare ogni coinvolgimento.
Le sanzioni, ha detto Putin ai giornalisti convocati in conferenza stampa, «spingeranno le
relazioni tra Stati Uniti e Russia in un vicolo cieco e sono certo che danneggeranno gli
interessi statunitensi a lungo termine». Le nuove tensioni hanno spinto al ribasso le borse
mondiali, spaventate ulteriormente dalle temute conseguenze dell’abbattimento dell’aereo
di linea malese. A subire le conseguenze più pesanti sui mercati è l’economia russa, a
partire dal crollo del rublo. L’indice della borsa di Mosca ha perso il 2,5%, mentre Rosneft
ha chiuso la giornata con un meno 4,3%. Secondo il premier russo Dmitry Medvedev però
queste sanzioni «non metteranno in ginocchio nessuno».
SI DISCUTE A BRUXELLES
Da parte loro i leader dei 28 Stati membri dell’Ue, riuniti mercoledì sera a Bruxelles, hanno
deciso di varare nuove sanzioni contro la Russia, che però dovranno essere concordate
entro la fine del mese. «Purtroppo non sono stati fatti progressi sull’attuazione delle nostre
richieste – ha spiegato la Cancelliera tedesca Angela Merkel - e per questo faremo nuove
sanzioni perché riteniamo che il contributo della Russia sull’Ucraina non sia ancora
sufficiente». Secondo il presidente uscente del Consiglio Ue, Herman Van Rompuy, «il
flusso di armi e personale sul confine è ininterrotto e la violenza continua». Il Consiglio
europeo ha quindi deciso di stilare una nuova lista di «entità e persone, anche provenienti
dalla Federazione Russa, che stanno materialmente o finanziariamente supportando le
azioni contro l’Ucraina », di sospendere le nuove operazioni finanziarie della Banca
europea per gli investimenti in Russia e di «rivalutare e potenzialmente sospendere»
l’applicazione dei programmi di cooperazione tra Russia e Ue. Si è deciso anche di
restringere gli investimenti in Crimea chiedendo alle istituzioni finanziarie internazionali
di fare lo stesso.
Secondo il ministero degli Esteri russo l’Ue «ha ceduto al ricatto americano e, andando
contro i propri interessi, ha seguito la strada delle sanzioni». Ma per il premier ucraino
Arseny Yatseniuk il coordinamento tra Bruxelles e Washington sul nuovo round di sanzioni
è il segno che «tutti i tentativi della Russia di dividere l’Ue e di impedire un accordo tra Ue
e Usa sono destinati al fallimento ». Soddisfatto anche il presidente russo Petro
Poroshenko, secondo cui «il Consiglio europeo ha fatto un passo importante in sostegno
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della sovranità, della integrità territoriale e dell’indipendenza dell’Ucraina». Ora, ha
concluso Poroshenko, «aspettiamo la risoluzione del Parlamento europeo».
del 18/07/14, pag. 1/7
La mappa dei cieli che fanno paura
ETTORE LIVINI
MILANO
DRIBBLING attorno alle no fly zone . Piccole (ma decisive) deviazioni per sfuggire alle
aree calde del pianeta. La mappa del mondo — vista dai cieli — non è fatta di percorsi in
linea retta. Gli otto milioni di persone che ogni giorno si imbarcano su oltre 100mila aerei
non se ne rendono conto. Il percorso dei loro voli però non è quasi mai lineare. Anzi,
spesso è un viaggio a zigzag disegnato da un algoritmo per evitare le zone a rischio.
MA CHI decide dove e come si può volare? E come mai Eurocontrol, il “vigile” del traffico
aereo europeo (compreso quello di Kiev) ha autorizzato fino alle 17 di ieri — con l’ok delle
autorità dell’aviazione civile locali — decine di voli quotidiani oltre quota 9mila metri
sull’Ucraina? Vediamo.
BIANCO O NERO
Vie di mezzo non ce ne sono. Su un paese o si vola o non si vola. A dare l’autorizzazione
al sorvolo sono sempre gli enti di sicurezza nazionali. L’Icao, l’agenzia del settore
dell’Onu, le affianca con un’energica opera di moral suasion quando ci sono rischi evidenti
per la sicurezza dei passeggeri. Oggi le no flyzone globali sono poche. Buona parte dei
cieli dell’Afghanistan sono ancora considerati off-limits. Come qualche angolo dell’Africa.
Su Iraq e Siria si transita — malgrado tutto — con paletti e “corridoi” limitati e rigidi. In
Israele, dopo le tensioni delle ultime settimane, chi vuole atterrare a Tel Aviv è obbligato a
seguire un unico percorso con approccio da nord a 8mila piedi d’altezza, allungando di
trenta minuti il viaggio. La sola via area dove è garantita la copertura.
La sicurezza dei cieli dell’Ucraina, fino a poco tempo fa, non era stata messa in
discussione. L’8 luglio Kiev ha bloccato i voli sotto level 3-20 ( 9mila metri). Ma non a
quella cui viaggiava l’Mh17. L’Icao ha invitato le compagnie alla prudenza. Ma niente di
più. L’unico spazio aereo chiuso totalmente è quello della Crimea. Sigillato dopo che i
ribelli russi hanno preso il controllo dell’aeroporto di Sinferopoli.
I DRIBBLING ALLE GUERRE
Le rotte degli aerei sono disegnate per evitare le zone dove non si può volare. A inserire le
aree a rischio sono ogni giorno gli esperti a terra nei piani per il cosiddetto “ flight dispatch
”. Il risiko delle tensioni e delle guerre mondiali viene incrociato dall’algoritmo
di un computer con le condizioni meteo, il traffico e i rischi di “conflitto” con altri velivoli. E il
risultato dell’elaborazione è il percorso definitivo. Uno per ogni volo. Il pilota può cambiarlo
in corso d’opera solo con l’ok delle singole autorità nazionali.
Le variabili geopolitiche cambiano spesso la mappa planetaria dei cieli sicuri, un puzzle
complicatissimo dove si incrociano ogni ora — Ucraina compresa — decine di voli. I jet
turchi, per dire, non sono autorizzati a sorvolare Israele. Durante la guerra del Kosovo del
‘99 l’Europa è stata divisa in due dalla no-fly zone sui Balcani. Nei giorni del conflitto libico
del 2011 la Nato autorizzava il sorvolo solo in orari, corridoi e altezze ben definite. Dopo
l’11 settembre nessun velivolo può passare sopra la Casa Bianca e lo stesso valeva per i
cieli sopra gli stadi del Mondiale di calcio in Brasile.
LA VARIABILE ECONOMICA
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Le compagnie aeree (come pure molti stati, Ucraina compresa) fanno fatica a far quadrare
i loro conti. E la rotta dei voli non è una variabile economicamente neutra. Meno si vola,
meno si consuma. E più passeggeri su possono trasportare nell’arco di una giornata, più
soldi entrano in cassa. Ovvio quindi che il settore non veda di buonissimo occhio le no-fly
zone. Stesso discorso vale per i singoli paesi: ogni volta che un jet entra nel tuo spazio
aereo, paga una tassa di sorvolo. Quattrini, centinaia di milioni ogni anno. Un rubinetto
difficile da chiudere anche quando al suolo, come a Kiev, non regna proprio l’armonia
sociale.
Per lo stesso motivo sono pochissime le realtà dell’aviazione dotate di strumenti di difesa
contro un attacco missilistico. Gli aerei israeliani di El Al hanno sofisticate (e costosissime)
apparecchiature che mandano in tilt i sistemi di puntamento. Lo stesso vale per l’Air Force
One e l’aereo di Stato di Francois Hollande. Quelli del governo italiano invece (non quelli
di linea, come ovvio) sono difesi dalla cosidetta “cappa”, un ombrello di sicurezza fatto di
no-fly zone limitate in spazio e tempo e dalla scorta di intercettori.
del 18/07/14, pag. 8
In trappola sotto le bombe
Israele invade Gaza i carri armati nelle strade
Uccisi altri 5 bambini: un neonato la prima vittima dell’offensiva “È
un’operazione anti-terrorismo”. Hamas: “La pagherete cara”
DAL NOSTRO INVIATO
FABIO SCUTO
GAZA
ALLE undici di sera il cameriere bussa violentemente alla porta e urla: abbiamo solo dieci
minuti per evacuare l’albergo, è iniziato l’attacco di terra. Nella notte dell’undicesimo
giorno di bombardamenti, Benjamin Netanyahu ha ordinato dunque l’invasione di Gaza. I
lampi delle cannonate nel nord della Striscia si vedono dal centro della città, avvolta nel
buio dopo l’interruzione della corrente. Ci raccontano che il porto è stato preso di mira
subito. E poi le notizie dei tank penetrati in profondità in molte zone. La gente di Gaza è in
trappola sotto le bombe. Tra le prime vittime c’è anche un neonato.
Per tutto il pomeriggio la Striscia è stata bombardata dal cielo, da terra e dal mare. In
risposta gli artiglieri islamici hanno lanciato oltre cento razzi contro Israele. Poi è
cominciata quella che i portavoce militari definiscono «una nuova fase dell’operazione
“Margine protettivo”». «L’obiettivo dell’offensiva non è abbattere il governo di Hamas»,
recita un comunicato di Tsahal, ma «infliggere un colpo significativo alle infrastrutture
terroristiche», i tunnel in primo luogo. Le Brigate Ezzedin al-Qassam, braccio militare
dell’organizzazione islamica, hanno già risposto sprezzanti: «Aspettavamo con ansia
questa operazione di terra, per dare una lezione agli israeliani».
La mattinata di ieri, con la tregua umanitaria mediata dalle Nazioni Unite, aveva concesso
una boccata d’ossigeno dopo dieci giorni di bombardamenti. I fornai si erano messi a
panificare nella notte, i supermarket avevano aperto per qualche ora, così come il mercato
delle verdure. L’aroma del pane cotto di fresco aveva invaso le strade di Gaza City, quasi
fosse in competizione con il lezzo che si alzava dai mucchi di immondizia abbandonati da
dieci giorni lungo il marciapiede. Davanti al forno centinaia di persone aspettavano con
pazienza il proprio turno. Tutti guardavano nervosamente l’orologio, le lancette correvano
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veloci, troppo veloci, e alle tre del pomeriggio scadeva il cessate-il-fuoco con Israele. In
molti speravano che potesse prolungarsi, ma pochi ci credevano veramente.
In mattinata una dozzina di giovanissimi miliziani di Hamas aveva cercato di entrare in
Israele attraverso un tunnel, ma era stata respinta, e il tunnel fatto crollare.
Allo scadere della tregua le strade si sono svuotate di colpo e Gaza è ripiombata nel suo
incubo: il primo dei cento razzi sparati ieri da Hamas e dalla Jihad islamica è partito
descrivendo un arco bianco sul cielo azzurro di Gaza City, diretto verso Ashkelon, un
minuto dopo le 3 del pomeriggio. Israele ha risposto con otto attacchi aerei, uno ha
centrato in pieno una palazzina di tre piani nel quartiere Sabra di Gaza City. Ne resta solo
un cratere largo una decina di metri, pieno di detriti, mobili, materassi bruciati, un sandalo
bagnato di sangue e l’odore della morte che è appena passata di qui portandosi via due
bambini di 10 anni, Jihad e Wissam, e la cuginetta Fulla (un’altra bambina è rimasta
uccisa a Khan Yunis). Il volto del nonno Markuk Shahaibar è rigato dalle lacrime mentre
sta seduto sui gradini della morgue dell’ospedale Al Shifa. Non impreca e non maledice
nessuno, infagottato nella jallabya grigia, sporca di polvere e di sangue, forse maledice se
stesso. È stato lui a dire ai nipotini, che scalpitavano insofferenti dentro casa dopo una
settimana, che potevano salire in terrazzo per dare da mangiare ai piccioni nella voliera.
Allo Shifa Hospital, uno dei più grandi centri ospedalieri della Striscia, si lavora tutto il
giorno ad affrontare un’emergenza senza fine, il flusso dei feriti a ondate, la farmacia che
si svuota di medicinali a velocità impressionante. Il bilancio delle vittime aumenta di ora in
ora e i team medici lavorano con turni massacranti, al giorno 11 di questa mini-guerra
anche la loro tenuta psicologica è a rischio. Il dottor Ashraf al Qidrah, portavoce del
Ministero della Salute, spiega: «Il personale medico ha a che fare con i corpi fusi o
mutilati, con ustioni di secondo e terzo grado, queste nuove bombe arrivano ed esplodono
prima di toccare il suolo e tagliano in due tutto quello che trovano. Non abbiamo mai
amputato tante gambe come ora. I medici sono anche uomini, fatti di carne e sentimenti,
ne risente la loro tenuta psicologica e scende la loro capacità di gestire lo stress».
Hassan Kalaf, direttore sanitario dell’ospedale, sciorina numeri da brividi. «Il settore
sanitario è in seria difficoltà, abbiamo bisogno di medicine e materiali di consumo,
specialmente per le emergenze e la terapia intensiva. L’ospedale ha energia solo per 8
ore al giorno, per il resto dobbiamo andare avanti con i generatori, la terapia intensiva è
piena, ma non abbiamo solo feriti, abbiamo anche dializzati, emofiliaci e altre patologie
gravi, pazienti che vivono solo grazie alle macchine. Spesso non siamo in grado di inviare
un’ambulanza. E l’ospedale può diventare un obiettivo in ogni minuto». All’Al-Wafa, un
centro di riabilitazione per anziani già bombardato tre volte, una manciata di medici e
infermieri continua a chiedersi come proteggere i pazienti dai raid israeliani. I pazienti, la
maggior parte paralizzata o in coma, sono costretti a letto nel salone dell’ospedale dopo
che un missile ha colpito il 4° piano, distruggendo l’impianto di purificazione dell’acqua,
che a Gaza è infiltrata dalla salsedine e dagli scarichi a cielo aperto. La zona dove si trova,
Shajaya, dista dalla linea di confine meno di un chilometro, e da ciò che rimane del 4°
piano si vedono nettamente le case e le fattorie sul lato israeliano. L’ospedale ha chiesto
la protezione delle agenzie umanitarie internazionali e il direttore Basman Alashi ci
assicura che questo presidio medico è noto all’esercito israeliano, ma ciò non gli ha
impedito di essere bombardato. L’esercito israeliano ha contattato l’ospedale per tre volte,
chiedendo al personale di abbandonare l’impianto. Ma 14 pazienti non
possono essere spostati. E non c’è nessun posto dove portarli. «Non c’è posto sicuro a
Gaza! Se un ospedale non è più sicuro che ospedale è?», si lamenta: «I nostri pazienti
non sono autosufficienti, non possono muoversi, camminare, o mangiare da soli». Mentre
parla le finestre dell’ospedale vibrano per le esplosioni dei bombardamenti. Vicino, sempre
più vicino, e alla fine un colpo di cannone centra il secondo piano ferendo alcuni infermieri.
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«Durante la notte, molti pazienti piangono e ci stringono le mani per la paura». Per fornire
assistenza, il personale lavora 24 ore per turno, lotta contro la stanchezza, ma non solo.
«Siamo esseri umani, naturalmente abbiamo paura», dice il dottor Hassan Sarsour. «Non
sappiamo che cosa dobbiamo fare per proteggere i nostri pazienti. Abbiamo svuotato tutti i
piani tranne la ricezione».
Scende la notte e la città è al buio, almeno in superficie. Sotto, nei tunnel-rifugio scavati
per la dirigenza di Hamas c’è luce, c’è internet, c’è persino la tv, perché è indispensabile
tenersi aggiornati. Ma invece dell’Iftar, la cena che rompe il digiuno di questo Ramadan di
sangue, arriva un diluvio di fuoco dal cielo, dalla terra e dalle
navi da guerra che incrociano al largo, ma non troppo, perché la fiammata dei cannoni si
distingue nettamente dalla spiaggia.
Del 18/07/2014, pag. 1-7
Dopo la breve tregua Israele invade la Striscia
di Gaza
Gaza sotto attacco. Attorno alle 21.30 i tank iniziano le operazioni di
terra. Anche ieri morti 5 bambini sotto le bombe
Michele Giorgio
torno alle ore 21.40 le forze armate israeliane annunciano con un semplice tweet che la
grande operazione di terra nella striscia di Gaza è cominciata. Proprio mentre andiamo in
stampa, i carri armati di Tel Aviv sono penetrati nella zona Nord Est della Striscia, che da
qualche ora è senza corrente e completamente isolata. Bombardamenti pesanti, anche
vicino agli edifici occupati dai giornalisti, martellano le case da qualche ora.
Eppure la giornata era iniziata con una pallida speranza.
Alle 8 di mattina settanta-ottanta persone erano già lì, ferme all’ingresso delle banche. Alle
9.30, mezz’ora prima dell’inizio della tregua «umanitaria», sono centinaia e centinaia quelli
in fila davanti agli sportelli bancomat della Bank of Palestine di via Omar al Mukhtar.
Maher, un insegnante, si asciuga la fronte, il caldo è insopportabile.
«Sono arrivato alle 8.30, speravo di trovare meno gente e invece…», commenta continuando a passarsi un fazzoletto di carta sulla faccia e il collo.Le cinque ore della “tregua
umanitaria” strappata dall’Onu a Israele e Hamas, Maher, un dipendente dell’Autorità
nazionale palestinese, le trascorre sotto il sole, in fila, per riscuotere lo stipendio in arrivo
da Ramallah. Sopportando la sete. Perché è Ramadan e non si mangia e non si beve
dall’alba al tramonto. Scelta obbligata, con Gaza sotto gli attacchi aerei israeliani. Avere
un po’ di soldi a disposizione è vitale. Il nostro insegnante alla fine è riuscito a inserire la
sua carta di credito nella fessura magica e a ricevere le tanto attese banconote. Una gioia
che ieri hanno provato tante altre migliaia di dipendenti dell’Anp ma non i 40 mila impiegati
dei ministeri del disciolto governo di Hamas. Davvero paradossale se si tiene conto che
coloro che ieri hanno percepito lo stipendio non lavorano dal 2007, da quando le autorità
di Ramallah li ammonirono dal cooperare con Hamas, in alcun modo.
Chi ha lavorato invece si è ritrovato senza reddito e un lavoro da un giorno all’altro, grazie
proprio alla nascita del “governo di consenso nazionale” a inizio giugno. Il presidente Abu
Mazen, il premier Rami Hamdallah, i dirigenti di Hamas, dopo la “riconciliazione” non
hanno pensato a come unire le strutture amministrative di Gaza e Cisgiordania e a dove
reperire i fondi per garantire lo stipendio a tutti gli impiegati palestinesi, senza eccezioni.
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Anche questo, unito alle catene dell’assedio israelo-egiziano che soffocano Gaza, ha contribuito ad aggravare la rabbia di chi non può e non vuole più vivere in queste condizioni.
Questi 40 mila “esodati” non erano ieri nei mercati a comprare generi di prima necessità.
Non erano assieme agli altri palestinesi che hanno approfittato della breve pausa nei bombardamenti aerei israeliani per fare provvista in una città passata nella stessa giornata dal
silenzio alla vita e ancora al silenzio rotto solo dalle esplosioni delle bombe. Molti negozi
sono rimasti chiusi. Ha aperto invece il supermarket “Metro”, quello dove spendono i palestinesi benestanti, una frazione minima della popolazione che può permettersi di comprare
generi alimentari di qualità, importati. Eppure anche un palestinese ricco è un prigioniero
come quelli più poveri, non può concedersi il lusso più importante: la libertà.
In giro per Gaza, per lavoro e per comprare qualcosa da portare a casa, incontriamo Sami
Abu Omar, di Bani Suheila ed ex studente universitario a Pisa. «Queste ore di tranquillità
sono per tutti noi uno spiraglio, ci danno un po’ di respiro», ci dice. Abu Omar tuttavia si
rende conto che questa “protezione” una tantum non è destinata a sfociare subito in un
accordo di tregua permanente. «Non creiamoci illusioni – avverte — la distanza tra le parti
è enorme. Magari domani (oggi) verrà fuori qualcosa di concreto dall’incontro al Cairo tra
Abu Mazen e (il leader di Hamas) Khaled Meshaal ma dovranno lavorare tanto». E’ il cambiamento sostanziale della situazione a Gaza il vero obiettivo della trattativa in Egitto. Un
cessate il fuoco che non metterebbe fine alla condizione di questo martoriato e assediato
fazzoletto di terra palestinese non basta più alla gente di Gaza. Poco importa chi sia a portare avanti il negoziato a distanza con Israele, Hamas o Fatah, Meshaal o Abu Mazen,
i palestinesi della Striscia non possono più aspettare. «Abbiamo bisogno di tutto – spiega
Sami Abu Omar – questa terra ha subito sei guerre negli ultimi cinque anni.
Se Gaza resta sotto assedio di Israele, con il valico di Rafah chiuso (dall’Egitto) non si
potrà nemmeno creare lavoro. Il 45% della nostra gente non ha un’occupazione, il 40%
vive sotto il livello di povertà. E sono solo alcuni dei problemi che la mancanza di libertà ci
sta provocando. Ecco perchè non ci basta più solo la tregua».
Avremmo dovuto ascoltare bene le parole di Sami Abu Omar e invece anche noi ci siamo
fatti prendere dall’entusiasmo quando ieri, intorno alle 13, sono cominciate a circolare voci
insistenti, diffuse inizialmente dalla Bbc, di un accordo tra Hamas e Israele ormai fatto e di
una tregua che sarebbe entrata in vigore già questa mattina.
A rallegrarsene erano più gli stranieri. Naturalmente anche i civili palestinesi desiderano la
fine delle ostilità. Con troppe vite umane, molto spesso di donne e bambini, hanno pagato
la violenza degli attacchi aerei israeliani, circa 2000 in soli dieci giorni, che hanno causato
quasi 240 vittime.
Anche ieri sono morti ben cinque bambini palestinesi in vari attacchi aerei e le sirene di
allarme hanno risuonato in numerose città israeliane. Tel Aviv ha comunicato
l’abbattimento di un altro drone partito da Gaza. Così quando prima Hamas e poi anche
Israele hanno smentito il raggiungimento dell’accordo, i palestinesi non hanno fatto una
piega, o quasi. Sanno che in Egitto si sta giocando una partita che potrebbe decidere il
futuro di Gaza nei prossimi anni. «Lo stesso Hamas è sulla graticola – ci spiega in condizioni di anonimato S.A., un giornalista di Gaza – sta giocando la partita dello scontro militare aperto con Israele e ora deve raggiungere dei risultati concreti, non può accontentarsi
di ottenere un cessate il fuoco con qualche piccola concessione di Israele. Ha promesso il
cambiamento radicale della condizione di Gaza e deve ottenerlo, altrimenti perderà consensi». Inutile rimarcare, ci dice, che l’attacco con razzi a Israele gode di un forte appoggio
a Gaza così come la brutalità dell’offensiva aerea contro la Striscia raccoglie larghissimo
consenso tra gli israeliani, nonostante l’alta percentuale di vittime civili palestinesi.
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E’ stato minacciato di morte Gideon Levy, noto giornalista di Haaretz, che nei giorni scorsi
aveva scritto un duro articolo di condanna dei piloti israeliani impegnati a bombardare
Gaza. Ora Levy si muove solo con la scorta.
Hamas non solo vuole ma deve spezzare l’assedio imposto a Gaza da Israele e dall’Egitto
se vuole conservare il sostegno della popolazione palestinese e per questo si affida alla
mediazione del Qatar e della Turchia, rimasti gli unici sponsor nella regione della Fratellanza Islamica dopo il sanguinoso colpo di stato militare che ha rovesciato il presidente
islamista Mohammed Morsi. Hamas chiede che il valico di Rafah diventi un posto di transito internazionale – magari coinvolgendo dopo ben sette anni gli osservatori dell’Eubam
rimasti parcheggiati ad Ashqelon a spese del contribuente europeo -, che sia riattivato
l’aeroporto di Rafah e che a Gaza City sia costruito un porto commerciale. Il movimento
islamico inoltre non intende rinunciare al suo arsenale bellico e chiede la liberazione di
centinaia di suoi militanti arrestati il mese scorso in Cisgiordania. Infine vuole che Israele
non ostacoli le attività dell’esecutivo palestinese di unità nazionale.
E’ arduo credere che il governo Netanyahu, composto da formazioni di estrema destra che
invocano in questi giorni la rioccupazione militare di Gaza, possa accettare tali richieste.
Israele vuole in realtà assestare un duro colpo a Hamas e ai suoi apparati militari e crede
che la tregua dovrà necessariamente includere la distruzione delle armi del movimento
islamico. Israele è disposto ad astenersi, ma solo su una rigida base di reciprocità,
dall’aprire il fuoco verso Gaza. Di fatto Netanyahu non si oppone soltanto alla riapertura
del transito di Rafah sotto un controllo congiunto da parte di Egitto e dell’Anp di Abu
Mazen. Intanto ieri le Nazioni unite hanno protestato con forza dopo la scoperta in una
scuola dell’Unrwa di una ventina di razzi palestinesi. «Questo incidente, che è il primo del
suo genere a Gaza – denuncia l’Onu — mette in pericolo i civili e il nostro staff e pone un
rischio per la missione dell’Unrwa che è quello di assistere e proteggere i profughi
palestinesi».
Del 18/07/2014, pag. 7
La nuova strategia militare di Hamas e Jihad
che Israele non controlla
Gaza. In due anni l'arsenale è cresciuto in quantità e qualità, grazie al
training iraniano e siriano. Brigate Al Qassam e Al Quds coordinano la
resistenza.
Chiara Cruciati
C’è chi la chiama resistenza e chi terrorismo. Per la maggioranza del popolo palestinese,
che viva a Gaza o in Cisgiordania, ad Haifa o a Gerusalemme, quella di Hamas e Jihad
Islamica è oggi considerabile l’unica forma di contrapposizione all’occupazione da parte
delle fazioni politiche palestinesi. Mentre il consenso verso l’Autorità Palestinese va
a picco e di riflesso Fatah – ormai partito fantoccio nelle mani del presidente Abbas –
perde colpi, e mentre la sinistra palestinese tenta con difficoltà di risalire la china cambiando la leadership (è il caso del Fronte Popolare, impegnato da mesi in un congresso
che dovrebbe ridefinire la segreteria), a mostrarsi in attività sono le due fazioni islamiste.
Hamas, dicono gli analisti, sta perdendo lentamente il controllo di Gaza, l’enclave che
amministra dal 2007, a favore di gruppi minoritari. La crisi economica che gli impedisce di
retribuire con regolarità i salari dei dipendenti pubblici e la trasformazione dello stile di vita
gazawi (prima della presa del potere da parte del movimento islamista molto più libero) ha
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fatto calare il consenso. Quando questo accade, in genere, a risollevare le sorti di Hamas
sono le azioni della sua resistenza armata.
Dall’operazione israeliana “Colonna di Difesa” del novembre 2012, Hamas ha saputo ricostruire un arsenale consistente e decisamente più efficace. Se nel 2001, in piena Seconda
Intifada, i razzi non superavano la città israeliana di Sderot, al confine con Gaza, oggi arrivano ad Haifa, a 150 km di distanza. Un arsenale collezionato in meno di due anni, gran
parte del quale costruito dagli stessi miliziani dopo addestramenti specifici in Iran e Siria.
Ad oggi le Brigate Al Qassam, braccio armato di Hamas, godrebbero di un deposito di
oltre 10mila razzi. Accanto ai mortai Qassam e Katyusha fatti in casa e ai missili iraniani
Grad, che coprono distanze di 20 km, sono comparsi i razzi Weishi (design cinese, raggio
di copertura di 40 km, montabili su un camion e attivabili via computer), i temibili Fajr
5 probabilmente contrabbandanti dall’Egitto (sei metri di lunghezza per 130 kg di peso, un
potenziale di caduta a 80 km di distanza), e il nuovo M-75 (122 mm, più piccolo ma dalla
forma allungata e ripieno di polvere da sparo).
Secondo l’esercito israeliano, meno di un terzo dell’arsenale di Hamas e Jihad Islamica
sarebbe stato intaccato durante l’attuale offensiva. Ovvero, la resistenza palestinese può
proseguire in un confronto ben più lungo di quello in corso. Perché, come spiega Hamza
Abu Shanab, esperto di gruppi islamisti, «Israele non può fermare i missili di Hamas: sono
i miliziani stessi a costruirli. Israele non conosce neppure l’esatta quantità di razzi posseduta perché ogni gruppo li prepara da solo: ogni missile abbattuto, sono altri 10 missili
pronti ad essere lanciati». E se oggi Hamas ha perso il sostegno economico della Siria e il
contrabbando con l’Egitto, ci sono ancora molti paese arabi che riforniscono il movimento
di denaro.
A ciò si aggiunge una rinnovata alleanza strategica con le Brigate Al Quds, braccio armato
della Jihad Islamica. Impossibile, durante un’operazione militare in corso, un incontro tra le
due leadership: a coordinarsi è la base con contatti indiretti. Mentre i due gruppi principali
(Al Quds e Al Qassam) si occupano di lanciare razzi a lunga e media distanza verso
Israele, altri gruppi minori fanno da copertura con missili a più breve distanza all’interno
del perimetro di Gaza. Uno lancia, l’altro protegge.
Allo stesso tempo, unità speciali di miliziani sono responsabili della vigilanza, ha spiegato
un comandante delle Brigate Al Qassam al sito arabo Al Akhbar: «Unità di sorveglianza
sono dispiegate lungo i confini di Gaza, equipaggiate con visori notturni e telecamere per
tenere sotto controllo i commando in mare e sulla terra, in particolare a Shujaiya a est e a
Beit Hanoun, a nord». Se l’unità non si trova sul tavolo politico, è facile da archiviare su
quello militare. Ma a migliorare in tal senso è l’intera strategia delle due Brigate, che hanno
imparato a muoversi in risposta alle modalità di attacco israeliane. Secondo il comandante
di Hamas, una delle principali novità sono i tunnel: «Il lanciarazzi viene riempito di missili
in ogni diversa operazione di lancio e vengono sparati tutti, si svuota. In questo modo i raid
israeliani contro la postazione in questione diventano inutili una volta completata la missione». Inoltre, prosegue il comandante, per evitare perdite tra i miliziani ogni lanciarazzi
ha un timer, «così che i guerriglieri non debbano restargli accanto».
I progressi in termini di tecnologia, preparazione militare e tattica sono visibili agli occhi di
tutti, palestinesi e esercito israeliano. Lontani i tempi in cui – ricorda il comandante di
Hamas – il movimento aveva solo un lanciarazzi e qualche fucile Ak-47. Era il 1996,
quando il generale Ahmed Jaabari prese in mano le redini della resistenza islamista e la
trasformò in una milizia professionista. Capo delle operazioni militari di Hamas dal 2002,
Jaabari fu l’uomo che riconsegnò il soldato Shalit dopo il rilascio e iniziò a discutere con
Israele di un possibile cessate il fuoco. Fu ucciso il 14 novembre 2012 da un missile israeliano che centrò la sua auto a Gaza. Il giorno dopo scoppiò l’operazione “Colonna di
Difesa”, quasi 200 gazawi uccisi, decine di centinaia di feriti.
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del 18/07/14, pag. 8
Il mare unico sogno possibile nell’inferno
della Striscia
U. D. G.
Sognavano la normalità Su quella spiaggia erano simili ai loro coetanei
italiani. La psichiatra: qui tutti i diritti dell’infanzia sono negati
Rincorrevano un pallone, Ahmed, Zakaria, Mohammed. Sognavano che quella spiaggia
fosse un campo di calcio, come quelli visti ai mondiali. Ismail, il più intrepido dei quattro
cuginetti, era impegnato a raccogliere conchiglie. Basta rincorrere il pallone, Mohammed,
giochiamo a nascondino... Su quella spiaggia, erano simili ai loro coetanei italiani, bambini
il cui sguardo si perde nell’orizzonte del mare. Sognavano la normalità. Ahmed,
Zakaria,Mohammed, Ismail.Mala normalità non esiste nell’inferno di Gaza, neanche se sei
un bambino innocente. Un missile cancella quelle giovani vite. La spiaggia si tinge di
sangue. Così si muore a Gaza. Ora, affranto, il presidente d’Israele, Shimon Peres porge
le sue scuse, si dice affranto. C’è da credergli. Il comando militare di Tsahal annuncia
l’apertura di una inchiesta, gli israeliani li avrebbero scambiati per combattenti. Ma erano
solo dei bambini che giocavano a palla. «Erano andati al mare - racconta Khamis Bakr, un
parente dei quattro cuginetti - per giocare e allontanarsi da Shari, dove vivono. È a nord,
verso i confini con Israele, i bombardamenti da quelle parti sono incessanti ».
Per chi ha avuto modo, anche solo una volta nella vita, di visitare la Striscia di Gaza, sa
cosa significhi il mare per una popolazione imprigionata. Il mare è libertà. Fino al 2005,
una libertà irraggiungibile.
LE SPERANZE DOPO IL RITIRO
Nell’agosto del 2005, chi scrive era a Gaza per raccontare il ritiro di Tsahal dalla Striscia
voluto dall’allora premier Ariel Sharon, un ritiro contestato dall’attuale primo ministro
d’Israele, Benjamin Netanyahu. La cosa che più mi colpì fu la scoperta del mare per i
bambini nati e cresciuti nell’occupazione israeliana della Striscia. Vivevano a qualche
centinaia di metri da quella spiaggia, vedevano il mare, ma non potevano raggiungerlo
perché c’era lo sbarramento dei soldati israeliani messi a protezione degli insediamenti
della Striscia. Alcuni di quei bambini mi raccontarono di soldati che sbarravano loro la
strada: di qui, non si passa, è zona militare... Non si passa neanche se sei un bambino
che vuole solo bagnarsi in quelle acque.
Il giorno del ritiro dell’ultimo soldato di Tsahal, fu un giorno di festa per i bambini di Gaza.
Una festa in acqua. Ricordo gli aquiloni fatti volare sulla spiaggia, i falò notturni. Ora quel
mare è un mare insanguinato. Lo sanno bene i bambini di Gaza, e ancor di più i pescatori
che si avventurano in mare. I pescatori di Gaza denunciano che non possono allontanarsi
di oltre 2,5 km senza correre il rischio di essere bersaglio degli spari israeliani, di vedere
distrutte le loro reti e le loro barche, mentre le pattuglie israeliane li costringono a rientrare
a riva: una situazione che va avanti sin dal 2003 e che si è aggravata negli ultimi anni con
addirittura razzi ed elicotteri israeliani impiegati contro i pescatori. Le navi militari israeliane
secondo il Sindacato dei pescatori di Rafah, nel sud della Striscia, pattugliano il mare 24
ore al giorno, sette giorni su sette, con il pretesto della sicurezza e del contrasto al traffico
di armi. «I bambini stanno pagando il prezzo della spirale di violenza a Gaza e in Israele,
che ha visto almeno 33 di loro perdere la vita a Gaza nei giorni scorsi, e centinaia di altri
rimanere feriti. Nessun bambino dovrebbe soffrire l’impatto terrificante di una simile
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violenza. Le ostilità in corso producono danni all’infanzia, sia sul piano fisico che
psicologico, e hanno conseguenze allarmanti per le future possibilità di pace, stabilità e
dialogo. Troppo spesso i bambini che oggi sono testimoni di simili violenze e si abituano a
considerarle “normali”, saranno inclini a riprodurle quando diventeranno adulti», annota il
Direttore Generale Unicef Anthony Lake.
Mariagiulia Agnoletto, psichiatra e coordinatrice dell’Associazione Salaam Ragazzi
dell’Olivo Milano-Onlus, dal 2001 collabora con l’associazione palestinese socio-educativa
Remedial Educatioon Center con progetti di affido a distanza dei bambini/e dei villaggi e
del campo profughi del nord della striscia di Gaza.Questa la sua testimonianza: «A Gaza
tutti i diritti del’infanzia sono negati quotidianamente: alla vita, alla libertà, alla salute fisica
e psichica, alla casa, all’istruzione, al gioco, alla libertà di movimento. I bambini appaiono
passivi, ritirati o più spesso tesi, con atteggiamenti di sfida, rabbia, che nascondono
dolore, paura, frustrazione. Infatti “i bambini delle pietre non sono di pietra, soffrono,
hanno paura”, come diceva un amico psichiatra palestinese... Ho visto le maestre
accogliere i bambini terrorizzati (come loro stesse), dopo una notte sotto le bombe,
proponendo una narrazione singola e collettiva, come valore terapeutico della
testimonianza e condivisione... Ho visto costruire con i bambini le lanterne e gli aquiloni,
con scritti e disegnati sopra messaggi di pace, giustizia, desideri, speranze … da far
navigare in mare o volare in cielo, oltre l’isolamento di Gaza. Anche Ahmed, Zakaria,
Mohammed e Ismail sognavano di far volare quegli acquiloni. Un missile ha infranto i loro
sogni. E la loro vita.
del 18/07/14, pag. 7
L’ebrea che traduce i nomi dei morti
«Gli arabi uccisi non sono solo numeri»
L’opera di Michal: ignorata dai media, in Rete ha tanti seguaci
DAL NOSTRO INVIATO BET SHEMESH — Un cognome che si ripete ancora e ancora,
un bambino, un altro, l’età di un adulto, adesso un vecchio, una donna. È una famiglia. La
storia emerge dalle lettere in arabo, come leggere le foglie del té: il destino questa volta è
già deciso, non c’è un futuro ad aspettare. La lista di Michal non smette di allungarsi. La
ragazza israeliana passa le giornate a scavare nel sito del ministero palestinese della
Sanità, a raccogliere le informazioni dei volontari a Gaza. Per dare un nome ai morti che
spesso sui giornali restano un numero.
Michal Rotem, 27 anni, in questi giorni ha lasciato Beersheba, la casa dove vive non ha un
rifugio, troppo pericoloso con i missili sparati dalla Striscia per bersagliare quella che è
considerata la capitale del deserto del Negev. Sta da un amico a Bet Shemesh, tra le
colline a ovest di Gerusalemme. Le sirene d’allarme suonano anche qui, almeno nel
palazzo c’è la stanza protetta dove scappare. «Al mattino cerco le vittime palestinesi della
notte di attacchi da parte del nostro esercito — racconta —, traduco dall’arabo all’ebraico,
scrivo l’età, aggiungo all’elenco, so che non tutti sono civili, qualcuno di loro potrebbe aver
provato ad ammazzarmi».
La lista — ieri sera i morti erano 235 — viene pubblicata dal sito Siha Mekomit (Chiamata
locale), molto popolare. «Non mi illudo che in tanti la leggano o che i giornali israeliani più
venduti la riprendano. Con altri attivisti della sinistra pacifista abbiamo pensato fosse
necessario. La maggior parte dei quotidiani non ha neppure citato i nomi dei quattro
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bambini uccisi mercoledì sulla spiaggia. Gli unici caduti che vengono identificati sono i
comandanti di Hamas, obiettivi militari da sfoggiare».
A Beersheba, nelle notti di guerra, qualcuno ha cominciato a scrivere sui muri con lo spray
i nomi che Michal ha raccolto, quasi una provocazione nel sud di Israele sotto
bombardamento dove i sindaci invocano di occupare Gaza e farla finita con i
fondamentalisti. «Posso immaginare chi sia, il nostro gruppo in città non è grande. È un
gesto, una sfida e almeno in posti come Tel Aviv i giovani ne stanno parlando. Mi impongo
di credere, forse per disperazione, che la mia lista potrà avere un impatto, spingerà la
gente a voler fermare questo conflitto».
Qualche volta incontra un cognome che riconosce. Ha dedicato la tesi di dottorato ai
villaggi beduini dichiarati illegali dal governo israeliano, conosce i capi clan, le famiglie che
hanno legami con quelle dall’altra parte della barriera. In una sorta di introduzione al suo
lavoro di questi giorni invita i lettori «a pronunciare i nomi ad alta voce uno dopo l’altro.
Non importa quale sia la vostra ideologia politica o che cosa pensiate di Gaza. Potete
anche solo scegliere quelli dei bambini».
Davide Frattini
Del 18/07/2014, pag. 6
Obama: «Sul nucleare, Tehran è stata di
parola
Iran. Verso lo slittamento dell'accordo
Giuseppe Acconcia
L’accordo sul programma nucleare iraniano non è dietro l’angolo. Lo ha confermato ieri il
presidente degli Stati uniti, Barack Obama, secondo il quale, si andrebbe ad uno slittamento di sei mesi per la stesura finale dell’intesa, prevista per il 20 luglio, dopo l’accordo
preliminare siglato a Ginevra il 24 novembre 2013. «L’Iran ha mantenuto le promesse sul
programma nucleare», ha assicurato Obama, echeggiando le parole dell’Agenzia internazionale per l’Energia atomica (Aiea) che lo scorso aprile aveva confermato lo sforzo di trasparenza di Tehran. Eppure nel Congresso, le voci di Repubblicani (e molti Democratici)
sono ben più critiche. 344 parlamentari Usa hanno firmato una lettera per Obama chiedendo di essere ascoltati in tema di nucleare iraniano. Il Senato Usa è pronto poi ad
approvare una delle leggi più dure contro l’Iran degli ultimi anni, inasprendo le attuali sanzioni contro il programma nucleare e mettendo sotto controllo gli introiti iraniani sulla vendita del petrolio. Il tentativo è non solo di impedire un’estensione dei colloqui ma di farli fallire del tutto. La scorsa settimana, pur assicurando il suo sostegno per i negoziatori iraniani, l’ayatollah Ali Khamenei aveva chiesto 190mila centrifughe per il programma
nucleare, ben al di sopra delle 10mila concesse, secondo i colloqui di Vienna. L’Iran non
vorrebbe cedere neppure sullo sviluppo di centrifughe di nuova generazione (IR-2m).
E vorrebbe mantenere attivo il reattore ad acqua pesante di Arak per la produzione di
radio isotopi per ricerca in campo medico e agricolo.
Neppure la crisi irachena ha avvicinato l’accordo sul nucleare. Khamenei aveva tuonato
contro ogni cooperazione tra Stati uniti e Repubblica islamica. Gli Usa hanno «manipolato
le divisioni settarie in Iraq per trasformare il paese in uno stato fantoccio», ha detto Khamenei. Mentre hanno pesato sui colloqui la crisi in Ucraina e gli ingenti accordi energetici
siglati tra Mosca e Tehran. Secondo il docente di Etica dell’Università di Toronto, Ramin
Jahanbegloo, la difficoltà nello sciogliere i nodi centrali per mettere fine alle sanzioni con17
tro l’Iran favorisce l’asse Mosca-Tehran. «Da una parte, l’Iran cerca di trovare un nuovo
alleato forte nella Russia di Putin, dall’altra, Tehran è pronta a sostenere Mosca con i suoi
alleati islamici nella regione. Dal canto suo, la Russia assicurerà un pieno sostegno politico all’Iran», ha aggiunto il docente al manifesto.
E così, prosegue il braccio di ferro tra moderati, del presidente Hassan Rohani, e radicali,
vicini a Mahmoud Ahmadinejad. Con l’avvento del presidente tecnocrate, ormai più di un
anno fa, il sistema giudiziario e l’intelligence militare hanno iniziato una campagna contro
la società civile iraniana che ha colpito stampa, università, social network, rallentando le
promesse di aperture avanzate da Rohani alla vigilia della sua elezione. A conferma dei
limiti imposti ai tecnocrati, la Guida suprema, Ali Khamenei ha riattivato il Consiglio strategico, che include personalità politiche e intellettuali, nominando uomini del suo entourage.
Secondo il giurista ultra conservatore Ghorbanali Najafabadi, Khamenei ha l’intenzione di
impedire ad altre correnti politiche, anche moderate, l’ingresso all’interno dell’Assemblea
degli Esperti, che avrà il compito problematico di nominare la nuova Guida suprema, dopo
la sua scomparsa.
Infine, la nota giornalista iraniana Marzieh Rasouli è stata condannata a due anni di pri
gione e cinquanta frustate per diffusione di notizie contrarie all’«ordine pubblico» e «propaganda anti-regime». Rasouli, giornalista riformista dei quotidiani Sharqh prima e Etemad poi, per anni corrispondente dagli Stati Uniti, venne arrestata già nel 2012 con
l’accusa di aver lavorato per Bbc Persian e i servizi di intelligence britannica. A insorgere
contro l’arresto di Rasouli è stato anche il filosofo statunitense Noam Chomsky che ha
chiesto il rilascio immediato della giornalista.
Chomsky, dalle colonne de The Guardian, ha parlato di «arresto inaccettabile» chiedendo
che siano rivisti i casi di altre due giornaliste in prigione: Saba Azarpeik e Reyhaneh Tabatabaei. Secondo Reporters Without Borders, sono 64 i giornalisti e i blogger detenuti arbitrariamente nelle carceri iraniane.
Del 18/07/2014, pag. 6
La Cina verso l’altra America
Brasile. Al VI vertice dei Brics, storico incontro tra Pechino e i
rappresentanti della Celac
Geraldina Colotti
La Cina verso l’altra America. Al VI vertice dei Brics (Brasile, Russia, Cina, India e Sudafrica), in corso a Brasilia, Pechino ha incontrato i presidenti della Comunità degli stati latinoamericani e caraibici (Celac), che riunisce tutti i paesi americani, tranne Usa e Canada.
Un incontro «storico», secondo la Cina, che per l’occasione ha lanciato il Forum della Cooperazione con la Celac, approvato nel II vertice dell’organismo latinoamericano svoltosi
a Cuba a gennaio. Il Forum proseguirà le attività in una prossima tappa, che si terrà in
Cina nell’ultimo trimestre dell’anno.
Prima della riunione, il presidente Xi Jinping si è riunito con la sua omologa brasiliana
Dilma Rousseff, anfitriona del vertice. Nel 2013, il commercio bilaterale tra i due paesi ha
raggiunto i 90.200 milioni di dollari (66.200 milioni di euro): la Cina è il primo partner commerciale del Brasile. Riferendosi al tema del summit – Crescita inclusiva: soluzioni sostenibili – Xi ha detto che la Cina è il principale socio commerciale di 128 paesi, e sostiene una
cooperazione basata sul guadagno reciproco come stimolo a un miglior governo
dell’economia mondiale. Per l’occasione, anche il Sudafrica e l’India hanno stretto accordi
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bilaterali con il Brasile. L’India, grande sostenitrice della Banca per lo sviluppo, approvata
a Fortaleza, ha portato il tema della lotta alla povertà e della sicurezza alimentare. Il primo
ministro indiano, Narendra Modi, ha anche sottolineato che i Brics non devono essere
un’istituzione centralizzata, ma far spazio al locale e includere i giovani. Al riguardo, Modi
ha proposto la creazione di un Forum dei giovani scienziati e un’università dei Brics tecnologicamente innovativa e basata su uno scambio continuo fra gli studenti dei cinque paesi.
Anche il presidente sudafricano Jacob Zuma ha insistito sull’urgenza di uno sviluppo
«inclusivo e dinamico» per il Sud, mentre il suo omologo russo, Vladimir Putin, ha proposto ai Brics di istituire un’Associazione per l’energia, con una relativa banca di riserva di
combustibili che garantisca la sicurezza energetica ai suoi membri.
Con la creazione di una banca per lo sviluppo e di un Fondo di riserve in divise per aiutare
i paesi a rischio di insolvenza, a Fortaleza i Brics hanno disegnato il quadro di una nuova
architettura finanziaria alternativa al Fondo Monetario internazionale e alla Banca Mondiale. Nuovi rapporti Sud-Sud fuori dagli schemi ideologici, economici e politici, messi in
campo in base al consenso di Washington e al ciclo di guerre innescato dall’occupazione
dell’Afghanistan e dell’Iraq. Quella annunciata dai Brics a Fortaleza, pur modulata dai
diversi interessi e visioni, è l’ipotesi di una nuova configurazione geopolitica multipolare,
basata «sull’inclusione, il dialogo e la ricerca di soluzioni politiche ai conflitti in base al
rispetto della sovranità nazionale». Il tema del governo delle risorse e della sovranità
è stato al centro degli incontri dei Brics con i rappresentanti della Unasur. La presidente
argentina Cristina de Kirchner ha cercato appoggio contro le pretese dei «fondi avvoltoi»:
i creditori che non hanno voluto rinegoziare il debito dopo il default del 2001–2002 e che
ora rischiano di mandare nuovamente in bancarotta Buenos aires, forti della sentenza
favorevole emessa da un giudice statunitense. Il 22 vi sarà un altro incontro di mediazione
che potrebbe risultare decisivo per l’Argentina. Putin, grande protagonista del vertice, ha
messo sul piatto i risultati del viaggio compiuto in America latina prima del summit: la possibilità di stringere un importante accordo sullo sfruttamento di petrolio e gas non convenzionale nella regione argentina di Vacca Morta; la cancellazione del 90% del debito contratto da Cuba con l’Unione sovietica; l’apertura di una linea di credito con il Venezuela di
Nicolas Maduro; accordi energetiti con la Bolivia di Evo Morales ( che ha esaltato lo spirito
«anticapitalista») del vertice. E anche l’aperto sostegno al processo di dialogo in corso
all’Avana tra il presidente colombiano Manuel Santos e la guerriglia marxista delle Farc,
per portare a soluzione il cinquantennale conflitto armato. Santos e Maduro hanno anche
discusso nuovi accordi bilaterali nella lotta al narcotraffico e al contrabbando tra frontiere,
che alimenta la «guerra economica» contro il paese bolivariano. Maduro, parte attiva nel
progetto dell’Alleanza bolivariana per il popoli della nostra America (Alba) che già sperimentano una nuova moneta (il Sucre) e nuove relazioni solidali, ha proposto «un’alleanza
operativa tra la Banca del Sud e quella dei Brics». E ha annunciato che i temi comuni
emersi nel VI summit di Brasilia e Fortaleza verranno discussi in quello della Unasur, che
si celebra ad agosto nella capitale uruguayana, Montevideo: «Questo è un vertice storico
— ha detto Maduro — che segna il nuovo tempo del secolo XXI».
Del 18/07/2014, pag. 4
Falsa partenza per Juncker e Renzi
Consiglio europeo . Nessuna decisione sulle nomine a Bruxelles, tutto è rimandato
a fine agosto. La scivolata di Hollande sulla donna-immagine alla Pesc. L'Italia
subisce anche la sospensione del progetto Southstream, la pipeline per il gas
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russo. Il democristiano Juncker, padre dell'austerità che oggi fa promesse a
sinistra, parte handicappato per riformare la Commissione rendendola più efficiente
con il sistema dei clusters
Anna Maria Merlo
La presidenza Juncker e la presidenza semestrale italiana sono cominciate male. I 28
capi di stato e di governo e i leader delle istituzioni europee mercoledi’ notte non sono riusciti a trovare un accordo neppure sulla sola nomina a cui era stata alla fine ristretta la
scelta per il vertice del 16 luglio: la successione di Catherine Ashton alla testa della Pesc.
L’unica cosa che sembra decisa è che sarà una donna (e, molto probabilmente, di sinistra). La spiegazione data da Hollande su questo punto ha di che lasciare perplessi: una
donna, “per forza, tenuto conto di cio’ che dobbiamo offrire come immagine dell’Europa”.
Al di là della donna-immagine, Mrs Pesc è un tassello di un pacchetto molto complesso,
che sarà sul tavolo del prossimo Consiglio il 30 agosto, dove devono conciliarsi equilibri
tra stati (grandi e piccoli, nord-sud-est), tra appartenenza politica e di genere.
Matteo Renzi, nel suo esordio della presidenza semestrale, è stato troppo sbrigativo nelle
ovattate sale di Bruxelles, dove si negozia a lungo nei corridoi. Non solo non ha incassato
la nomina di Federica Mogherini, sospettata di incompetenza e contestata soprattutto dai
paesi dell’est per le posizioni troppo filo-russe dell’Italia. Ma l’Italia deve digerire un’altra
sconfitta: il progetto Southstream, la pipelinea sud per il trasporto di gas russo all’Europa
senza passare per l’Ucraina, è stato sospeso, nell’ambito delle sanzioni rafforzate a un
livello due e mezzo (non ancora la fase tre, ma un po’ di più della fase due), in attesa di
una soluzione politica tra Ue e Russia sulla crisi ucraina.
Juncker passerà l’estate a cercare di mettere assieme una Commissione di 28 membri,
cioè troppo affollata, un esercito con troppi generali, che genera troppa burocrazia in settori marginali. La scelta di dare un commissario ad ogni stato membro è una delle tante
sconfitte del progetto europeo degli ultimi anni. La Commissione, che dovrebbe rappresentare l’interesse generale, si è trasformata in un’altra istanza, a fianco del Consiglio (dove il
voto è ponderato per peso specifico dei singoli paesi), dove vengono di fatto difesi gli interessi nazionali. Cosi’ la scelta di volere a tutti i costi il posto di Mrs.Pesc si rivela un po’
avventata da parte dell’Italia: si tratta di un posto di prestigio (non a caso i governanti sono
scaduti nella “donna-immagine”), ma che nei fatti si traduce in poco potere, perché l’Alta
rappresentante è spesso in viaggio, quindi assente dalle riunioni dei commissari e quindi
con poca voce in capitolo. Per ottenere questo posto, all’Italia resta la strada di consolidare l’asse con la Francia, che vuole gli Affari economici e monetari per Pierre Moscovici.
La Germania si oppone a un ex ministro giudicato responsabile della deriva dei conti francesi e che dovrà eventualmente infliggere la multa a Parigi per “deficit eccessivo”.
Per rendere la Commissione più efficiente, i grandi paesi riflettono sull’introduzione dei cluster, cioè sulla nomina di super-commissari (affari economici, Pesc, energia, mercato
interno), attorno ai quali dovrebbero “agglomerarsi” dei sotto-commissari con incarichi
specifici. Juncker, benché eletto con un’ampia maggioranza, non ha pero’ fatto il pieno dei
voti del “blocco” della grande coalizione Ppe-Pse-Liberali. Parte quindi con un handicap,
che complica l’eventuale svolta dei cluster, che permetterebbe di avere una Commissione
più efficiente e più adatta ad affrontare la sfida del “ventinovesimo stato”, quello dei 30
milioni di disoccupati. Inoltre, Juncker, da buon democristiano, nel discorso di investitura
ha fatto promesse a tutti, a destra ma soprattutto a sinistra, per cercare di far dimenticare
che è stato alla testa dell’Eurogruppo dal 2005 al 2013, cioè nel periodo in cui sono state
decise le politiche di austerità.
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del 18/07/14, pag. 14
Il nostro ministro resta in campo ma il rinvio a fine agosto complica le
cose Il tedesco Brock: “Tutti sapevano che Letta aveva buone
possibilità”
La sfida di Renzi sulle nomine “Senza
accordo su Mr. Pesc non indico né Mogherini
né altri”
ALBERTO D’ARGENIO
ROMA .
«Noi indicheremo il commissario solo quando avremo la certezza del ruolo». Quando
Renzi racconta ai suoi collaboratori i retroscena del vertice europeo dell’altro ieri a
Bruxelles, tutti capiscono che da qui in avanti ci vorranno nervi saldi. Scherzando il
premier la mette così: «Abbiamo pareggiato fuori casa, l’Italia è in campo per l’Alto
rappresentante e l’Unione deve dotarsi presto di una squadra competitiva in cui siamo
presenti freschezza ed esperienza». Ma l’altra notte a Bruxelles le cose non sono andate
bene. Renzi puntava a piazzare Federica Mogherini a capo della diplomazia europea, ma
un blocco di paesi dell’Est ne ha stoppato la nomina.
Quando era chiaro che il summit si sarebbe rivelato un fiasco la Mogherini non aveva la
maggioranza dei leader dalla sua - tutto è stato rinviato al 30 agosto. Scelta velenosa per
l’Italia, che ora deve decidere se indicare - come chiesto a tutti i governi dal neopresidente
della Commissione Juncker - il proprio commissario entro fine luglio. Senza sapere se
sarà Alto rappresentante. L’altra notte nel chiuso della riunione di Bruxelles la Merkel e
Hollande hanno promesso a Renzi il sostegno nella partita sulla Mogherini - «fidati di noi»,
hanno ripetuto - ma il premier ha risposto così: «Non indico la Mogherini subito se non ho
la certezza che diventerà Lady Pesc, non smonto il governo se poi le danno un portafoglio
di serie B». Un finale di riunione burrascoso, era già l’una di notte, durante il quale si è
anche registrato un botta e risposta ad alto volume tra Renzi e Van Rompuy, presidente
uscente del Consiglio europeo e mediatore nella partita sulle nomine.
Ieri Elmar Brock, luogotenente della Merkel a Bruxelles, ha confermato che «da settimane
tutti sapevano che Letta avrebbe avuto buone possibilità se Renzi lo avesse proposto»
alla guida del Consiglio europeo. Un modo per superare l’impasse tra candidati baltici, il
polacco Tusk e la danese Thorning-Schmidt alla successione di Van Rompuy. A quel
punto gli esteri sarebbero andati a un rappresentante dell’ex blocco sovietico, la bulgara
Georgieva.
Il sottosegretario Gozi ha ribadito che il nome di Letta (ieri l’ex premier era a Montecitorio
per votare il ddl sulla Cooperazione approvato dal suo governo) non è stato messo sul
tavolo del summit. Un gioco delle parti tra Renzi, che vuole mandare a Bruxelles la
Mogherini e non vuol sentir parlare del suo predecessore a Chigi, e gli altri, che fanno
circolare il nome di Letta per costringere il premier italiano ad accettarlo. E anche se a
Bruxelles in molti pensano che alla fine cederà, a Roma non la pensano così. «Mai»,
ripetono a Palazzo Chigi.
Ora si pone il problema: Renzi indicherà la Mogherini aspettando poi di negoziare la sua
carica a fine agosto? «La partita è ancora in corso», dicono i nostri sherpa lasciando
intendere che il capo della Farnesina non è bruciato. Come conferma il capogruppo a del
Pse a Strasburgo Gianni Pittella: «La candidatura di Federica va avanti». L’arma è questa:
anche se ieri tramite canali riservati Juncker e Van Rompuy hanno garantito che si
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spenderanno per la Mogherini, Renzi non indicherà il nome del commissario fino a quando
non avrà la garanzia sul suo ruolo. Bloccando il lavoro di Juncker in vista dell’audizione di
fronte all’Europarlamento in calendario a ottobre. Ma c’è il rischio di farsi mettere
nell’angolo, con il neopresidente che a quel punto potrebbe assegnare agli altri paesi le
poltrone migliori penalizzando l’Italia. Intanto Prodi lancia l’allarme: «Il rinvio alla fine di
agosto è pesante, il semestre italiano potrà contare solo sull'ultima parte ».
del 18/07/14, pag. 44
Il ritorno di Telemaco a mani vuote
Antonio Polito
Telemaco è tornato a mani vuote, procellosa la sua navigazione nelle acque sconosciute
dell’Europa. Per quanto sia lecito sperare in un ripensamento, la candidatura di Federica
Mogherini a ministro degli Esteri dell’Unione sembra irrimediabilmente indebolita
dall’ampio fronte contrario che ha cementato, soprattutto dopo l’abbattimento del Boeing e
il drammatico aggravarsi della crisi ucraina. Non è la prima volta che una proposta italiana
viene accolta con scetticismo: abbiamo impostato il nostro semestre sulla richiesta di più
flessibilità e abbiamo ottenuto solo la generica promessa di un «buon uso» di quella
esistente. Il peso politico ed elettorale di Renzi non sembra insomma tradursi in un
maggior peso specifico dell’Italia. Perché? Come rimediare?
Sarebbe facile ora — ma lo era anche due settimane fa — individuare gli errori tattici. In
Europa non basta annunciare qualcosa per ottenerla. I fatidici pugni sul tavolo non si
sbattono certo prima ancora di cominciare il negoziato. Né è consigliabile entrarci con una
proposta non negoziabile, su un candidato non irresistibile, minacciando un voto a
maggioranza senza averne una. Mr. Pesc rappresenta 28 Paesi, Roma non ha dunque
alcun diritto a scegliere l’italiano che vuole, deve piacere anche agli altri. E chiedere
«rispetto per un Paese fondatore» è il modo migliore per irritare ulteriormente i 22 Paesi
non fondatori, che hanno aderito all’Unione proprio sulla base del «rispetto reciproco».
Ma ci sono due incomprensioni più di fondo rivelate da questa vicenda: un peso eccessivo
della politica interna e una fiducia eccessiva nella politica europea.
Non è infatti un mistero a Bruxelles ciò che ieri ha dichiarato un consigliere della Merkel:
«Letta aveva buone chance , ma Renzi non lo ha proposto». Il punto cruciale del
negoziato è infatti il posto di presidente del Consiglio. Carica pesante, per la quale è
richiesto un premier o ex premier, possibilmente della zona euro, meglio ancora se parla
inglese. Letta ha consenso, il profilo giusto, e in più è disoccupato, a differenza del leader
polacco o di quello irlandese, che dovrebbero invece lasciare la politica nazionale. È
comprensibile che Renzi non voglia rilanciare al governo dell’Europa un avversario politico
che ha cacciato dal governo dell’Italia. Ma è anche giustificabile? Quella poltrona si
aggiungerebbe al posto da commissario che ci spetta comunque, e che potrebbe andare
alla Mogherini. Se c’è davvero anche una sola chance di provarci, ne vale la pena.
La seconda questione riguarda la politica europea. Si sopravvaluta in queste ore la svolta
che sarebbe avvenuta con le elezioni, e il ruolo decisivo che avrebbe assunto la dialettica
tra i partiti (in realtà sono agglomerati spuri, tant’è che vengono pudicamente definite
«famiglie»). Mentre il caso Mogherini ci ha ricordato la sostanza dei rapporti di forza geopolitici, basati sull’interesse nazionale. Nell’Europa di oggi i gasdotti contano ancora di più
dei partiti, e l’appoggio della famiglia socialista (peraltro al governo in una minoranza di
nazioni) vale meno dell’opposizione di molti Paesi al South Stream. E se è vero che tutti i
governi sono rimasti colpiti dal 40,8% di Renzi, è pur vero che ognuno pensa ai voti suoi.
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Al prossimo vertice di fine agosto, del semestre italiano saranno rimasti solo quattro mesi.
Conviene riflettere bene, se si vuole usarli al meglio.
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INTERNI
Del 18/07/2014, pag. 10
Senato, il governo vuole il sì dell’Aula in 15
giorni
«Ragionevolmente in 15 giorni si chiude sulle riforme costituzionali al Senato. Poi ci sarà
la legge elettorale». Il presidente del Consiglio Matteo Renzi prevede un rapido via libera
per la riforma costituzionale al Senato, entro luglio, e l’incardinamento della legge
elettorale a Palazzo Madama già i primi giorni di agosto. Il premier fa pressing sulle
riforme cercando di schivare le resistenze, a partire dai 7.850 emendamenti presentati,
quasi tutti dalle opposizioni, che impegneranno l’Aula a partire da lunedì. Nella conferenza
dei capigruppo del Senato, la maggioranza, con il contributo di Forza Italia, aveva dato
priorità al disegno di legge Boschi (la riforma del Senato) anche rispetto ai decreti
dell’esecutivo che stanno per scadere, in particolare il decreto legge Cultura e turismo
Franceschini e quello sulla competitività. L’aula di Palazzo Madama sarà impegnata, da
lunedì a giovedì sera, con sedute fino alle 22, sulla riforma costituzionale e solo da venerdì
comincerà ad esaminare il decreto competitività. Inutile la protesta delle opposizioni, Sel,
Lega e M5S, che hanno cercato di far passare un calendario alternativo in Aula. Il timore
dei 5 Stelle è che la valanga di emendamenti possa essere arginata attraverso il
contingentamento dei tempi (la famigerata «ghigliottina»), strumento previsto dal
regolamento del Senato. Dal Pd, però, si assicura che la parola «contingentamento » non
è stata «nemmeno pronunciata». Ma lo strumento può essere adottato anche a lavori in
corso. Dubbi sui tempi limitati lasciati alla discussione sono arrivati anche da sostenitori
della riforma, come il co-relatore leghista Roberto Calderoli e il senatore di Forza Italia,
Donato Bruno, che hanno chiesto al presidente del Senato, Pietro Grasso, di allungare di
qualche ora i tempi per l’inizio delle votazioni, per avere modo di vagliare gli emendamenti:
«Non posso valutare ciò che non conosco», ha spiegato Calderoli. Gli emendamenti
potrebbero dover essere modificati prima dell’arrivo in Aula. I cambiamenti più probabili
potrebbero riguardare il referendum, quorum e introduzione del propositivo su iniziativa del
Pd, e l’elezione del presidente della Repubblica. La necessità di modificare ancora il testo
uscito dalla commissione è ben presente anche tra i sostenitori della riforma: «Il testo ha
bisogno di miglioramenti», ha spiegato Bruno in Aula. Fuori dal Palazzo invece arriva la
bocciatura dell’Anci: «È inadeguato il numero dei sindaci previsto nel nuovo Senato delle
Regioni e non è corretto il metodo di elezione che passa attraverso i Consigli regionali »,
ha detto Piero Fassino, secondo il quale 21 sindaci sono troppo pochi «rispetto a più di 8
mila Comuni rappresentati ». Le maggiori insidie per il governo si nascondono negli
emendamenti sull’elettività dei senatori e sull’indennità ai parlamentari, ma anche sui
bilanci dello Stato. Poi c’è il tema della riduzione dei deputati e quello delle immunità. Sul
quale è tornato Renzi, incalzato dai rappresentanti del Movimento 5 Stelle: «Il tema
dell’immunità con noi non funziona, su questo non accettiamo lezioni. Se c’è uno che non
ha l’immunità e campa benissimo qui, sono io». Data una disponibilità di massima del Pd
sul tema, sarà però difficile che si trovi un’intesa con gli altri partiti: «Però se c’è l’accordo
con tutte le forze di maggioranza siamo disposti a ragionarne». Da Forza Italia, Giovanni
Toti è ottimista sull’iter dei provvedimenti: «Ci sono opinioni discordanti, ma troveremo un
punto di caduta». Poi ricorda che «le riforme sono importanti, ma c’è anche altro da fare in
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Italia: il nostro Paese ha bisogno di sburocratizzare la macchina amministrativa e ha
bisogno di una riforma del mercato del lavoro».
del 18/07/14, pag. 10
Regge il tavolo tra i democratici e i grillini. Nuovo incontro a fine luglio I
pentastellati insistono sulle preferenze per rompere l’asse premierBerlusconi
La linea del dialogo Pd-M5S Renzi: “Ma resta
il patto con FI” Di Maio: “Insieme
maggioranza”
SEBASTIANO MESSINA
ROMA .
Il forno dei Cinquestelle mette a sorpresa il suo pane nella vetrina dello streaming. E il
profumo di quel pane piace a Matteo Renzi, che però non è ancora pronto a comprarlo.
Prima, dice, devo sentire gli altri. «Deve chiedere il permesso ad Arcore?» lo punzecchia il
grillino Luigi Di Maio, facendo perdere la calma al premier. Che ribatte puntuto: «Finché
non riuscirete a distinguere tra noi e un altro partito, non capirete perché il vostro
“vinciamo noi” è diventato “vinciamo poi”. Noi dobbiamo sentire anche gli altri partiti,
perché questa è la bellezza e la fatica di essere democratici...».
Al secondo appuntamento non più nell’auletta della commissione Esteri ma nella sala del
Cavaliere, già teatro del turbolento incontro tra Renzi e Grillo - la trattativa tra Pd e M5S
prende quota, nonostante lo streaming che come al solito reclama e ottiene la sua razione
di battute, frecciatine e pistolotti destinati «a chi ci guarda da casa». Ed è Di Maio, che si
conferma il vero plenipotenziario del Movimento sul terreno delle riforme, a mettere sul
tavolo un astuto “ do ut des”. I grillini sono disposti a rinunciare al Democratellum (o
Toninellum, o Complicatellum) accettando il doppio turno e il premio di maggioranza,
ovvero il cuore del vituperato Italicum, se i democratici sono disponibili all’introduzione
delle preferenze e all’abolizione dell’immunità parlamentare. Offre persino un asse
parlamentare inedito, Pd-M5S, per convincere il presidente del Consiglio a tradire il patto
del Nazareno: «Con i nostri e i vostri voti possiamo trasformare queste cose in legge»
ripete per tre volte Di Maio.
E mette in difficoltà Renzi, combattuto tra la tentazione di tendergli la mano dicendo «ci
sto!» e il timore di mandare all’aria il patto con Berlusconi, proprio nel momento in cui ha
assolutamente bisogno dei suoi voti per far passare la riforma del Senato. Anche il premier
si rende conto che l’offerta è seria. «Tra la vostra proposta e la nostra - ammette - non c’è
il Rio delle Amazzoni. C’è un ruscello, che non so se riusciremo a colmare ». E sembra
pure pensarci su, quando aggiunge, con un sorriso: «Io sarò pure il pericoloso bradipo
autoritario, ma vedo che non siamo così distanti. Potete diventare autoritari come noi, se vi
sforzate soltanto un pimpirimpillino...».
Ma alla fine se ne esce nell’unico modo possibile: guadagnando tempo. I grillini avranno
una risposta dopo che il Senato avrà approvato la riforma della Costituzione («Quindici
giorni» è la sua previsione) e prima che a Palazzo Madama cominci la discussione
sull’Italicum. Da qui ad allora lui consulterà gli altri partiti, compresa Forza Italia, si
capisce. «Il punto vero - spiega a Di Maio - è capire se sulle preferenze riusciamo a
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trovare un punto di caduta o meno. Ma non blocchiamo la riforma perché voi, dopo essere
montati sui tetti, ora dite: abbiamo cambiato idea».
La presenza di Renzi è stata una novità dell’ultima ora, dopo che il Pd l’aveva data per
improbabile. E quando è cominciato lo streaming (penosamente disturbato da problemi di
linea) il premier si è seduto in un posto defilato, all’angolo del tavolo. Sembrava quasi che
fosse venuto solo per sentire gli altri, perché s’è tolto la giacca, l’ha appoggiata sulla
spalliera ed è rimasto in jeans e maniche di camicia, scivolando pure un po’ sulla sedia,
con le gambe accavallate. Uno spettatore, pareva, accanto a Debora Serracchiani,
Roberto Speranza, Alessandra Moretti e la new entry Gianclaudio Bressa nel ruolo di
esperto.
Di fronte, la solita formazione grillina, con i due capigruppo più Di Maio e Toninelli. Il quale
ha elencato subito le cinque nuove richieste dei Cinquestelle: voto di preferenza,
incandidabilità dei condannati, stop alle candidature in più collegi, abolizione dello
sbarramento e doppio turno tra le due liste (e non tra le due coalizioni) più votate. A
rendere l’offerta più chiara ci ha pensato Di Maio: siamo disposti a cedere sul doppio turno
se il Pd cede sulle preferenze. Ascoltandolo, Renzi s’è rimesso la giacca. «Insomma - ha
chiesto esplicitamente il vicepresidente della Camera - è possibile una scambio tra
governabilità e preferenze? ». La Serracchiani ha reagito d’istinto: «Non possiamo fare un
mercimonio della riforma...». Di Maio non s’è scoraggiato. «E lo stop alle candidature
multiple?». La Moretti, irritata: «Non potete pretendere che tutto il lavoro svolto finora
venga stravolto...». «Ho capito - l’ha interrotta Toninelli - comanda Berlusconi».
Renzi non poteva lasciargliela passare. «Vede, Toninelli - gli ha risposto - questa è una
battuta simpatica e divertente. Alla quale potrei rispondere che comanda chi ha i voti. Noi
ne abbiamo presi undici milioni. Quando ci arriva lei, mi fa un fischio». E però il premier
aveva altro da dire, ai grillini. Per esempio che l’idea del premio di maggioranza a un solo
partito a lui non dispiacerebbe «e forse neanche a Berlusconi, conoscendolo ». O che il
premio andrebbe un po’ rimpolpato, per sottrarre il governo ai ricatti dei piccoli gruppi.
O ancora che ha ragione Speranza, «se trattate con noi sarebbe simpatico che poi non ci
insultaste dicendo che siamo la P2, perché se il nostro disegno è P2, il vostro è P3, siamo
lì». Quindi, nella palese speranza di trovare se non un alleato in più almeno un avversario
in meno, ha chiesto a Di Maio quali fossero i loro punti irrinunciabili, sulla riforma della
Costituzione.
E il grillino, prontissimo, ha battuto subito altri tre chiodi. L’abolizione dell’immunità
parlamentare. La riduzione del numero dei deputati. La sottrazione alle Regioni della
gestione della Sanità. Il terzo punto ha molto incuriosito il premier («Fatemi avere il vostro
emendamento»), il primo lo ha dribblato e il secondo lo ha liquidato con un proverbio: «E’
meglio l’uovo oggi della riduzione dei parlamentari con indennità da 945 a 630 che la
presunta, ipotetica gallina di domani...».
del 18/07/14, pag. 12
La grande paura dell’ex Cavaliere in vista della sentenza d’appello per il
processo Ruby Per l’ex premier il patto del Nazareno è l’unico modo per
difendersi anche dai processi
Berlusconi: “Non mollo le riforme anche se
oggi mi condannano”
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CARMELO LOPAPA
ROMA .
L’ora e mezza di incontro in streaming tra Renzi e i Cinque stelle se l’è risparmiata. Troppa
tensione per restare lì davanti a un computer in questa ennesima, angosciata vigilia di
sentenza.
Silvio Berlusconi getta uno sguardo poco dopo ai lanci delle agenzie, per nulla stupito
dell’esito, raccontano. «Con Matteo il patto regge e ha fatto bene a ribadirlo a quelli lì,
siamo noi i partner delle riforme e dobbiamo restarlo qualunque cosa mi accada nelle
prossime ore» dice a un altrettanto soddisfatto Denis Verdini, appena rientrato assieme a
Sestino Giacomomi dall’incontro con i coordinatori regionali di Forza Italia sulla campagna
di tesseramento che partirà a breve. Il leader non ha dubbi, pur nell’angoscia di queste
ore: gli converrà restare aggrappato a quel tavolo concesso dal presidente del Consiglio.
Anche nell’ipotesi per lui sciagurata di una condanna Ruby confermata o di una riduzione
non consistente della pena. L’unico passaggio della riunione in streaming che lo ha
infastidito è l’apertura di Renzi sulle preferenze. Berlusconi lo ripete a scanso di equivoci,
«il patto del Nazareno deve reggere per intero, sul Senato come sulla legge elettorale,
oppure salta tutto».
Dunque, nella sede di San Lorenzo in Lucina l’ex Cavaliere non ha avuto alcuna voglia di
farsi vedere, non era giornata, meglio delegare. Del resto, è di un altro incontro che il capo
ha voluto una relazione dettagliata. Quello che il pontiere fiorentino delle riforme ha avuto
nel pomeriggio con Raffaele Fitto, ormai capofila dei dissidenti. Un faccia a faccia
«chiarificatore» dopo la telefonata dai toni rudi del giorno prima tra i due. Anche ieri, negli
uffici del partito, non è che le distanze si siano ridotte. L’eurodeputato pugliese gli ha
confermato che non farà un passo indietro, né lui né i senatori (e i deputati) che si
riconoscono nella linea del «no all’appiattimento su Renzi», ma allo stesso tempo ha
avvertito l’amico Denis: «Sappiate che non lascerò mai il partito ». Il muro contro muro
continua, insomma, e una soluzione andrà trovata prima dell’inizio delle votazioni di
lunedì. «Perché noi gli emendamenti alla riforma li abbiamo presentati e ora certo non è
che li possiamo rinnegare» racconta il senatore Augusto Minzolini in trasferta nel
Transatlantico di Montecitorio. A farsi strada è tuttavia l’ipotesi di un abbandono dell’aula
da parte dei dissidenti. Ogni decisione è sospesa.
E lo stand by è dettato da un’altra scadenza, il pronunciamento dei giudici di appello di
Milano sulla condanna a sette anni in primo grado il processo Ruby. Il volto di Berlusconi è
tetro quando intorno alle 18 con Maria Rosaria Rossi sale i gradini dell’aereo privato per
lasciare Roma. Annullata la partecipazione al sit-in pro Israele. Gli avvocati per tutto il
giorno lo hanno rincuorato, rassicurato, soprattutto Franco Coppi, reduce da una
requisitoria a suo giudizio riuscita. Il fatto è che qualsiasi riduzione eventuale che
mantenesse una pena superiore ai due anni sarebbe comunque ininfluente rispetto al
rischio di revoca dei servizi sociali. Tutti a incoraggiarlo, Berlusconi resta per terra:
«Ricordatevi che abbiamo a che fare coi giudici di Milano».
Del 18/07/2014, pag. 2
Stefano Rodotà: «Una sinistra fuori dagli
schemi è necessaria»
Lista Tsipras. Il giurista si prende la scena alla conferenza stampa con Tsipras: «Per
non disperdere le energie serve una nuova cultura politica». «Questa lista è un
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patrimonio da non disperdere e non può essere intrappolata nelle vecchie logiche.
Oggi c’è tutto un mondo da valorizzare». Tra le proposte: apertura generazionale e
una legge di iniziativa popolare anti-austerità
Roberto Ciccarelli
<<Se servo, alla mia venerabile età, ci sarò». Sala delle bandiere nella rappresentanza del
parlamento europeo a Roma. Conferenza stampa di presentazione del tour romano del
leader di Syriza Alexis Tsipras con le eurodeputate dell’«Altra Europa» Barbara Spinelli
e Eleonora Forenza. Stefano Rodotà ieri si è preso la scena e ha passato al setaccio la
non invidiabile situazione della sinistra italiana dopo le europee di maggio. «Avverto il
rischio che le energie accumulate dalla lista Tsipras finiscano intrappolate nelle vecchie
logiche della sinistra – ha detto Rodotà – Non dev’essere così, queste energie devono
essere recuperate e valorizzate». I non detti, gli imbarazzi, la melina che, per il momento,
hanno trasformato gli incontri della lista in una riflessione metodologica
sull’organizzazione, invece che sulle pratiche politiche, sono stati spazzati via dal giurista:
«Dico cose dirette che non sempre vengono apprezzate – ha precisato Rodotà – ho il
timore che, una volta in più, l’unità a sinistra diventi un discorso sulle quote da dare a Sel
o a Rifondazione, ma se scegliamo questa strada non andremo verso l’unità ma verso la
riproposizione di vecchi conflitti. Bisogna invece ricreare le condizioni di una nuova cultura
politica per sbaragliare questo tipo di impostazione». Per un soggetto che, in queste ore,
sta discutendo se essere un partito, una federazione oppure un coordinamento leggero tra
reti e campagne, Rodotà vede due strade: quella generazionale e un’iniziativa politica che
faccia rientrare in gioco la sinistra. «La campagna elettorale per le europee ha attratto infinite persone giovani che non hanno visto in Tsipras il cavaliere bianco, ma il simbolo
dell’esperienza di Syriza che ha sviluppato una cultura politica che poi è diventata un dato
sociale. In Italia, noi siamo solo all’inizio. Questa lista è un patrimonio che non può essere
disperso».
Sul «che fare», Rodotà ha proposto una legge di iniziativa popolare per modificare
l’articolo 81 della Costituzione che sancisce il vincolo di bilancio. Una proposta che sta
facendo discutere la sinistra, insieme a quella inaugurata dalla raccolta firme per i quattro
quesiti del referendum «Stop austerità, sì alla crescita» che durerà fino alla fine di settembre. Sono in molti a pensare che questi strumenti, diversi per modalità e finalità, possano
essere affiancati e procedere parallelamente. Rodotà propone alla lista Tsipras la prima
e dice di volerla agire in prima persona. Insieme ad una manifestazione autunnale contro
l’austerity, nell’agenda esposta da Spinelli e da Forenza il Gue, il gruppo della sinistra
europea a cui ha afferito la lista Tsipras, farà da sponda alla campagna nazionale e internazionale contro il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti (Ttip). Si comincerà dal semestre italiano alla guida del Consiglio europeo: «Non ci sono informazioni sul
contenuto delle trattative segrete tra Ue e Usa – ha detto Rodotà – Ma questo trattato
comporta gravi rischi, tra cui la privatizzazione delle risoluzioni delle controversie tra stati
e mercati. Saranno i grandi investitori a portare in tribunale gli stati facendo saltare i diritti
costituzionali e quelli sociali». L’altro tema che la sinistra vuole mettere al centro del semestre europeo in corso è l’immigrazione. Su questo verrà presto lanciata una petizione per
l’apertura di corridoi umanitari nel Mediterraneo. «Il Consiglio europeo, e il ministro tedesco delle finanze Schäuble non solo hanno confermato che le politiche dell’austerità continueranno, ma verrà inasprito anche Frontex – ha detto Eleonora Forenza – Al di là delle
retoriche di Renzi sulla generazione Telemaco, che resta la più precaria d’Europa, il lavoro
del Gue nella nuova legislatura sarà quello di rimettere in discussione i trattati e promuovere un «New Deal» europeo fatto di investimenti pubblici per rilanciare l’occupazione».
«L’immondo balletto sulle poltrone in Europa» ha confermato in Barbara Spinelli la convinzione che il messaggio delle elezioni non sia giunto alle tecnocrazie e ai governi. «Anzi –
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ha detto la giornalista – hanno rafforzato le politiche di larghissime intese: oltre ai popolari
e ai socialisti, oggi ci sono anche i liberali. Insieme vogliono continuare le politiche di
austerità che hanno provocato la crisi. Stiamo assistendo ad uno svuotamento della democrazia sia dal punto di vista formale che da quello materiale. In queste ore Renzi si sta battendo per la poltrona da ministro degli esteri, ma la candidata Mogherini non ha detto nulla
sulla sua idea di politica estera. È un gioco delle parti dove le minoranze continueranno ad
avere uno spazio ridotto di azione». È il ritratto di un’Europa amputata dei diritti e della
democrazia. L’Italia renziana ne ha incorporato più di altri lo spirito da quando ha deciso di
«stravolgere la Costituzione e di approvare una legge elettorale liberticida» ha detto
Tsipras.
Del 18/07/2014, pag. 3
Tsipras: «Renzi un interlocutore in Europa. In
Italia no»
Intervista. Il leader di Syriza possibilista sul dialogo con il Pd: «Il vostro premier
parla di cambiamento, lo valuteremo». Le divisioni della sinistra italiana? «Un lusso
che non ci si può permettere. Ma non ho una ricetta: serve una dose massiccia di
originalità»
Daniela Preziosi
Torna in Italia per la prima volta dalle europee. A casa sua, la Grecia, è impegnato nella
preparazione della futura corsa da primo ministro. Nonostante questo, Alexis Tsipras,
quarant’anni fra dieci giorni, presidente della greca Syriza (26,55 per cento alle europee,
primo partito del paese) non ha mai smesso di partecipare alle vicende della lista che da
noi porta il suo nome. Da molto vicino. A volte anche schierando tutto il peso della sua
autorevolezza per dirimere le vicende non poco ingarbugliate della sinistra nostrana.
Tsipras è da ieri a Roma per tre giorni. «Alexis non è il nostro cavaliere bianco, abbiamo
solo voluto raccogliere l’esempio greco», ha detto ieri il giurista Rodotà nel dargli il benvenuto. In Italia con un’agenda zeppa di impegni. Ieri ha incontrato il leader della Fiom Maurizio Landini, poi la conferenza stampa alla sede dell’Unione europea (con Rodotà, e le
eurodeputate Barbara Spinelli e Eleonora Forenza). Nel pomeriggio ha inaugurato la
nuova sede di Rifondazione comunista con Paolo Ferrero. E la sera cenato con Nichi Vendola e i suoi alla festa nazionale di Sel. Tra gli impegni anche l’intervista al manifesto e un
colloquio con Antonio Ingroia e la pattuglia di Azione Civile, pronti anche loro a esprimere
i propri dubbi sul «ritorno alle liturgie dei partiti». Tsipras ha ascoltato tutti. Oggi sarà al
Teatro Valle e poi a un comizio a Piazza Farnese. Domani presiederà la prima riunione
della lista, delicatissimo appuntamento che segnerà la futura — fin qui incerta — direzione
di marcia di questo pezzo della sinistra italiana. In ballo — ma su questo vigila un riserbo
blindato — c’è un incontro con il presidente Renzi. Nessuna conferma ufficiale, fin qui.
Enrico Letta, il nome che oggi i popolari lanciano alla presidenza del Consiglio europeo,
a febbraio, gli aveva aperto Palazzo Chigi. Ma era il governo scorso; un po’ come dire il
secolo scorso.
Presidente Tsipras, dopo il 4 per cento delle europee, la partenza della lista italiana
non è stata facile. È venuto a portare un ramoscello di pace fra tutti, e a proporre un
modello organizzativo?
In Grecia c’è un detto: per te che cammini, la strada non c’è, la trovi camminando. Intendo
dire che non ho, anzi non c’è una ricetta da prendere in prestito, né dalla storia recente di
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Syriza né dalla tradizione della sinistra italiana. Le condizioni sono diverse, non si può trasportare un modello da un paese a un altro, da un tempo a un altro. Da noi abbiamo fatto
tentativi insistenti per unire una coalizione della sinistra. Abbiamo fatto il possibile per
avere con noi i comunisti del Kke, che però non hanno mai accettato la nostra proposta.
Siamo riusciti comunque a costruire un’alleanza fra Synaspismos e altri partiti, e molti indipendenti di sinistra. Così abbiamo creato un modello in cui siamo tutti alla pari, anche se
diversi. In Italia la strada potrebbe essere diversa. La sinistra italiana dovrà trovare una
ricetta, magari con qualcosa di Syriza, qualcosa dello spagnolo Podemos, ma soprattutto
una dose massiccia di originalità italiana.
Eppure fin qui la ricetta della sinistra italiana contiene tante contraddizioni e divisioni. Basta pensare alle polemiche sulla composizione della pattuglia degli eletti
all’europarlamento. Presto ci saranno le elezioni regionali, e anche quella sarà una
prova di unità.
Le divisioni sono un lusso che non possiamo permetterci. Alle europee sono stato contento del 27 per cento di Syriza, ma contentissimo del 4 italiano, in condizioni così difficili.
La sinistra ci mette alla prova, le amarezze sono nuove prove che ci chiede di affrontare.
Come giudica i primi passi di Matteo Renzi da presidente di turno dell’Unione? La
sinistra europea, di cui lei è vicepresidente, interloquirà con lui?
Noi vogliamo che la Grecia, quando domani sarà governata da Syriza, abbia interlocutori
nei governi del Sud d’Europa. Questo non significa che dovremo accettare la strategia di
Renzi. A tutti proporremo una piattaforma in tre punti: investimenti pubblici, taglio del
debito e diritti e democrazia, anche nei luoghi di lavoro. E credo che il popolo greco
e quello italiano abbiamo molte cose in comune. Dobbiamo cercare una strada per affrontarle insieme.
Sta dicendo che considera interessanti le proposte europee di Renzi, quelle del
discorso d’avvio del semestre?
Dal discorso di Renzi ho colto elementi utili. Certo, in Europa le larghe intese tra conservatori, socialisti, liberali e parte dei verdi hanno assunto il controllo della commissione e del
parlamento per continuare l’austerità e imporre rigidamente il trattato. L’Italia deve avere
un ruolo decisivo contro la mania dei parametri economici per rilanciare invece lo sviluppo
e l’occupazione. Vedo che Renzi chiede l’allentamento delle patto di stabilità, non la sua
cancellazione. E per averlo, di fatto accetta la politica neoliberista, una camicia di forza
destinata comunque all’insuccesso, perché rischia di rompere l’Unione. In ogni caso
segnalo positivamente quello che dice Renzi è molto diverso da quello che dice il presidente Samaras in Grecia (primo ministro, leader della conservatrice Nuova Democrazia)
che invece non vuole neanche allentare il patto.
Quali sono i temi di possibile interlocuzione con Renzi?
Renzi usa un’interessante retorica sul cambiamento. Il semestre di presidenza italiana
potrebbe servire a cambiare rotta. Misureremo il suo discorso su tre questioni: il Ttip (trattato trans-atlantico per il commercio e gli investimenti, negoziato segretamente, ndr);
l’immigrazione, dove abbiamo sentito qualche proposta e siamo pronti a valutarla; e il
debito.
Ma sul debito, e anche sulla sua proposta di new deal europeo restate lontani
dal Pse.
Dalle richieste che fa Renzi sullo scorporo degli investimenti, è chiaro che anche loro
sanno che senza investimenti pubblici non si esce dalla crisi. Ripeto, la camicia di forza
dei trattati è assurda. E su queste posizioni costruiremo un’alleanza maggioritaria che faccia pressione sui governi.
Come valuta i nomi dei commissari che circolano, e in particolare quello dell’italiana
Mogherini a Lady Pesc?
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Intanto vedo che sulle politiche economiche siamo in perfetta continuità con il passato,
purtroppo. Quanto a Mogherini, potremo condividere o meno la sua nomina, ma ricordo
a Renzi che per raccogliere successi deve cercare alleanze.
In questo momento in Italia Renzi porta avanti riforme costituzionali contro le quali
la sinistra presente in parlamento, ovvero Sel, fa ostruzionismo.
Il Renzi italiano e quello europeo sono diversi. In Italia il suo governo propone lo stravolgimento della Costituzione e l’approvazione di una legge elettorale liberticida. Accettare il
restringimento della democrazia significa accettare l’idea del nostro avversario. È ovvio
che la sinistra si opponga con tutti i mezzi.
Quindi Renzi è un interlocutore possibile in Europa ma non in Italia?
La direi assolutamente così.
Del 18/07/2014, pag. 3
Il padre di Magherini: «Il Comune intervenga
sulla morte di Riccardo»
Caso Magherini. L'ex calciatore della Fiorentina morto dopo essere
stato fermato dai carabinieri
Un’interrogazione sulla morte di Riccardo Magherini, l’ex calciatore della Fiorentina morto
il 3 marzo scorso dopo essere stato fermato da due pattuglie dei carabinieri, è stata presentata ieri al consiglio comunale di Firenze dal consigliere di Sel Tommaso Grassi. «A
Nardella chiedo di prendere posizione, che dica qualcosa su Riccardo», ha detto il padre
di Riccardo, Guido Magherini. «Non vogliamo che il sindaco dica che Riccardo ha ragione,
ma che verifichi la situazione e poi dica le cose che deve dire. Non che stia zitto. Pertanto
aspettiamo che il governo di Firenze scenda in campo per capire la gravità di quello che
è successoi». In serata la risposta di Nardella. «Ripeto quello che ho detto ad alcuni componenti della famiglia Magherini: come tutti i cittadini la famiglia ha diritto ad avere giustizia
e conoscere la verità», ha detto il sindaco. «È un diritto sacrosanto — ha aggiunto — così
come se vi sono delle responsabilità individuali è bene che queste emergano. Noi
abbiamo fiducia nel lavoro della magistratura e allo stesso modo voglio ricordare che
sarebbe un fatto sbagliato confondere il ruolo dell’Arma con le responsabilità eventuali di
singole persone».
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 18/07/14, pag. 17
L’ex pg di Cassazione Ciani depone in aula: “Irrituale la lettera di
Mancino girata dal Colle”
Stato-mafia la Procura insiste “Sia ascoltato
Napolitano”
SALVO PALAZZOLO
PALERMO .
Sette mesi fa, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano aveva inviato una lettera
ai giudici che stanno cercando dentro i misteri della trattativa mafia-Stato, per ribadire:
«Non ho da riferire alcuna conoscenza utile al processo». Ma la procura di Palermo insiste
per la citazione del capo dello Stato, ritiene che dalla sua deposizione possano arrivare
elementi rilevanti su una lettera che gli fu inviata da Loris D’Ambrosio, morto nel 2012:
l’allora consigliere giuridico del Colle esprimeva il timore «di essere stato considerato un
ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi, fra il 1989 e il
1993». Quali erano gli «indicibili accordi»? Napolitano ha spiegato
di non aver ricevuto da D’Ambrosio «ragguagli o specificazioni ». Alla procura non basta.
Ieri, il procuratore aggiunto Vittorio Teresi ha chiesto al presidente della Corte d’assise
Alfredo Montalto di attivare «tutte le procedure» per la citazione di Napolitano, che dovrà
essere ascoltato al Quirinale. Ma non è ancora detto che l’audizione avvenga. Il giudice ha
ricordato che l’Avvocatura dello Stato ha chiesto di revocare la citazione, perché
«superflua»: «La corte si riserva di decidere». Il nodo potrebbe
essere sciolto all’udienza del 25 settembre.
Fra la procura di Palermo e il Quirinale tornano ad esserci toni accesi, che il procuratore
Messineo non nasconde. Quando apprende che il segretario generale del Colle, Donato
Marra, ha inviato alcuni documenti ritrovati in archivio sbotta: «Sono più che perplesso sul
comportamento di un teste che dopo aver deposto e detto di non sapere invia una lettera
correttiva». Marra ha inviato due lettere con cui nel 2012 la procura generale della
Cassazione rispondeva al Quirinale sulle frizioni fra le procure che si occupavano della
trattativa, questione posta dal senatore Nicola Mancino, oggi imputato del processo. Il
segretario generale del Colle ribadisce: «Non vi sono state in alcuna forma né da me né
da altro ufficio del Quirinale ulteriori interventi né tanto meno pressioni nei confronti della
procura generale».
È il cuore dell’udienza, la nota con cui il Quirinale girava la lettere di lamentele di Mancino
alla procura generale. «Mi fu anticipata da una telefonata di D’Ambrosio», dice il pg
Gianfranco Ciani. «La ritenni una cosa routinaria, anche se non era routinaria una lettera
di quel genere da parte del Quirinale». Ciani ha un tono molto più deciso per smentire una
frase di D’Ambrosio intercettata durante una telefonata con Mancino: «Non fui io a
sollecitare quella lettera — dice il pg — e al procuratore nazionale Grasso non ho mai fatto
alcuna richiesta di avocazione dell’inchiesta». Aggiunge: «La lettera con le lamentele di
Mancino era irrituale e per certi versi irricevibile». Il pm Di Matteo gli chiede: «E perché
non fu rappresentato alla presidenza della Repubblica?». Ciani risponde: «Avrei
commesso uno sgarbo istituzionale».
Anche il predecessore di Ciani, Vitaliano Esposito, dice di essersi trovato a disagio davanti
alla nota del Colle: «Fu un fulmine a ciel sereno, mi ritenni offeso perché ritenevo la lettera
di Marra come una sorta di ripresa di inerzia per l’ufficio che dirigevo, sul tema del
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coordinamento ». Ma il vero imbarazzo fu per l’ennesima telefonata di Mancino: «Io non
parlo mai delle cose d’ufficio agli estranei», taglia corto Esposito.
del 18/07/14, pag. 17
Il pizzo per girare Gomorra nella villa che era
del boss
Chiesti soldi non dovuti alla produzione. Tre arresti
NAPOLI — I tantissimi spettatori della recente fiction Gomorra ricorderanno bene lo sfarzo
pacchiano della casa di don Pietro e di donna Imma Savastano. Il rosa dei muri, gli
stucchi, gli affreschi, lo scintillio dei cristalli e delle cornici dorate intorno a improbabili
ritratti di famiglia. L’enorme vasca con idromassaggio. In quella location gli scenografi
hanno dovuto lavorare poco, perché la casa apparteneva veramente a un boss, Francesco
Gallo, di Torre Annunziata, e i suoi gusti nell’arredamento erano perfetti per la finzione
cinematografica.
Per affittare quella casa la società di produzione della fiction, la Cattleya, nel marzo 2013
si accordò con il proprietario, pattuendo un canone di trentamila euro da versare in cinque
rate da seimila. Però poi le cose sono cambiate, il boss è finito in carcere, la sua casa è
stata sequestrata e, continuando a indagare sulle attività del clan di Torre Annunziata, la
Direzione distrettuale antimafia di Napoli, ha scoperto che chi durante le riprese della
fiction rappresentava la produzione, sarebbe finito vittima di estorsione da parte dei Gallo.
E avrebbe pagato senza denunciare, mentendo anche agli inquirenti.
La lavorazione di Gomorra si intreccia con l’indagine condotta dai carabinieri di Torre
Annunziata, guidati dal maggiore Alessandro Amadei, e coordinata dal procuratore
aggiunto Filippo Beatrice e dal sostituto Pierpaolo Filippelli, dopo l’arresto di Francesco
Gallo (4 aprile 2013) e il sequestro della sua sontuosa abitazione. Da quel momento le
rate dell’affitto Cattleya doveva versarle non più a Gallo ma a un amministratore
giudiziario.
Ed è qui che scatta l’estorsione. Perché Gallo non ci sta a perdere tutti quei soldi, e dal
carcere lo fa sapere al padre, Raffaele, e alla madre, Annunziata De Simone. I carabinieri
lo vengono a sapere intercettando un colloquio nel parlatorio di Secondigliano, e perciò
mettono sotto controllo il telefono di Raffaele Gallo. I riscontri non tardano ad arrivare. Per
esempio dalla conversazione tra il padre del boss e Gennaro Aquino, location manager
della società di produzione, a parte il tono molto confidenziale che emerge (Aquino si
rivolge a Gallo chiamandolo zi’ Filù ), sembra evidente che la produzione non ha smesso
di pagare i Gallo: «Lunedì pomeriggio ci vediamo... e vi porto quello che vi devo portare»,
dice Aquino. Che poi viene a sua volta intercettato poco prima di recarsi all’appuntamento.
Si prepara il discorso da fare a Raffaele Gallo per giustificare evidentemente un ritardo nel
pagamento: «Quello che gli devo dire oggi quando ci vado... zi’ Filuccio non vi
preoccupate, noi in qualche modo i soldi ve li diamo.. abbiate pazienza... stiamo pagando
anche gli altri trentamila euro dall’altra parte».
Eppure, interrogati durante le indagini, sia Aquino che altri della produzione, gli
organizzatori generali di Cattleya Gianluca Arcopinto e Matteo De Laurentiis (dai quali sia
la società di produzione che Sky prendono nettamente le distanze), hanno decisamente
negato di essere stati costretti dai Gallo a continuare a pagare il fitto. Addirittura De
Laurentiis ha anche riferito tutto a Raffaele Gallo: «Mi hanno tenuto tre ore e mezzo... mi
chiedevano se abbiamo subito pressioni da lei per un ulteriore pagamento oltre a quello
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dell’amministrazione giudiziaria», gli riferisce in una conversazione intercettata. Per
Aquino, Arcopinto e De Laurentiis, indagati per favoreggiamento aggravato, la Procura
aveva chiesto misure cautelari, il gip però le ha negate, accogliendo solo le richieste
d’arresto per Francesco e Raffaele Gallo e per Annunziata De Simone.
Fulvio Bufi
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 18/07/14, pag. 9
Gli scomparsi nel Mediterraneo sono i
moderni desaparecidos
La«provocazione»
Lanciata da Enrico Calamai vice console di Buenos Aires ai tempi della
dittatura. Non rivendicò mai i suoi meriti
Giovanni Maria Bellu
La copertina di questo numero di left è dedicata a una “ovvia provocazione”. Il concetto
può apparire un ossimoro solo se si dimentica che i diritti umani sono diritti assoluti e non
esiste alcun Paese, e nemmeno alcuna Unione di Paesi, che ne abbia la titolarità. La
difesa dei diritti umani, in altre parole, non si compie includendoli in un trattato
internazionale o in una Costituzione democratica. È una pratica continua, che va
sottoposta a continue verifiche. Ed è questo che tenta di fare il gruppo di intellettuali e di
politici che ha aderito alla “ovvia provocazione” lanciata da Enrico Calamai. La figura di
Calamai è molto meno conosciuta di quanto meriterebbe. Left prova a colmare la lacuna
con un'ampia intervista nella quale l'ex vice console italiano a Buenos Aires all'epoca dei
desaparecidos spiega perché gli scomparsi nel Mediterraneo sono molto simili, quasi
uguali, ai trentamila giovani che scomparvero perché assassinati dalla giunta militare
argentina. È analogo il sistema dello sterminio, spiega Calamai: gestito in modo tale da
impedire ai cittadini di accorgersene (se non molto tempo dopo, a cose fatte) e anche di
consentire a molti di poter dire in seguito «ma chi poteva immaginarlo?». L'idea di Calamai
è chiedere al Tribunale dei Popoli – l'ex Tribunale Russell che nacque per denunciare i
crimini di guerra americani nel Vietnam – di aprire un'istruttoria sulle morti nel
Mediterraneo per verificare se ci sono specifiche responsabilità degli Stati. Gli indizi non
mancano. È stato già accertato, per esempio, che al tempo dei 'respingimenti' in Libia (una
trovata del duo Berlusconi- Maroni) l'Italia rimise nelle mani dei loro carnefici numerosi
cittadini africani che si erano diretti verso l'Europa nell' illusione di trovare asilo. Poi
abbiamo avuto le 'distrazioni' di comandanti di navi che – prima dell'operazione Mare
Nostrum – non è che proprio si precipitassero per dare soccorso ai naufraghi. Nelle
prossime settimane il Tribunale dei popoli deciderà se aprire l'istruttoria e, chissà, se
unificarla con quella già aperta sulle morti di migliaia di messicani che tentano di
raggiungere gli Stati Uniti. Diverse le zone del mondo, identico lo schema: un Paese
democratico (là gli Usa, qua l'Italia e la Ue) e masse di disperati che chiedono di essere
protetti. Perché credono, forse più di molti di noi, all'effettività dei nostri principi
democratici. Su questo ragiona, in un editoriale, Adriano Prosperi. Enrico Calamai, da vice
console, salvò centinaia di persone fornendo documenti che consentirono loro di
espatriare. Lo fece da solo, senza alcun mandato e alcuna copertura. Non rivendicò mai i
suoi meriti. Li scoprirono i sopravvissuti dopo molti anni.
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SOCIETA’
del 18/07/14, pag. 21
I supremi giudici: no alla nullità dopo tre anni di convivenza Per i
coniugi restano il diritto e il dovere al mantenimento
Nozze e Sacra Rota alt della Cassazione
all’annullamento facile
VERA SCHIAVAZZI
SE UNA coppia è stata sposata per tre anni o più, il matrimonio non può essere annullato,
perché convivere è «vivere insieme, non solo formalmente, anche agli occhi del mondo ».
O, meglio, il matrimonio può essere comunque dichiarato nullo ai fini strettamente religiosi,
attraverso le sentenze dei Tribunali ecclesiastici regionali e della Sacra Rota, ma non lo
sarà per la legge italiana, che non vuole più accettare le «nullità facili».
Lo hanno stabilito ieri le sezioni unite civili della Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso
di una ex moglie che si opponeva alla sentenza di delibazione di una causa religiosa da
parte della Corte d’Appello di Venezia. È una sentenza importante, che pur non piacendo
agli ambienti cattolici né ai tribunali ecclesiastici, afferma un principio: gli effetti, anche
economici, del matrimonio non possono essere cancellati per sempre da un coniuge che
non vuole passare attraverso una causa di divorzio. La convivenza va interpretata, dice la
Cassazione, «agli effetti della Costituzione e della Carte dei diritti europea». E non
ammette cancellazioni. Come quella che invece porta con sé la «delibazione », l’atto (che
deve essere richiesto dopo la sentenza di nullità) con il quale la Corte d’Appello ammette,
anche agli effetti civili, la sentenza di un tribunale religioso.
Non si tratta di un passaggio facile né scontato: chi richiede la delibazione, di solito, lo fa
per ragioni economiche, in particolare per non pagare gli assegni di mantenimento. Le
2.500 coppie che ogni anno ottengono la nullità davanti alla Sacra Rota (cioè il terzo e
definitivo grado del giudizio ecclesiastico) possono comunque risposarsi in chiesa: se il
matrimonio è stato dichiarato nullo agli effetti religiosi, significa che non è mai esistito. Ma
la legge italiana resta, e la moglie (o il marito, in una piccola minoranza di casi)
economicamente più deboli possono ottenere un assegno di mantenimento dal Tribunale
civile che si occupa di separazione e divorzi. La delibazione è un atto diverso, una terza
procedura che serve proprio a cancellare a ogni effetto civile quel matrimonio, e chi la
richiede, di solito, lo fa per ragioni economiche, per annullare ogni “debito” verso il suo ex.
Spiega Ilaria Zuanazzi, docente di diritto canonico e ecclesiastico all’Università di Torino,
prima donna a essere nominata giudice nel Tribunale ecclesiastico del Piemonte:
«L’esigenza di dare adeguata tutela giuridica anche sotto il profilo economico al coniuge
“più debole” mi sembra comprensibile. Il problema è che la giurisprudenza si è voluta
sostituire all’inerzia del legislatore. In Parlamento giacciono disegni di legge che
propongono di estendere alla delibazione delle sentenze canoniche di nullità la disciplina
dei rapporti patrimoniali tra coniugi prevista dalla normativa sul divorzio, come un
eventuale assegno di mantenimento. Precludere la delibazione per non danneggiare uno
dei coniugi pregiudica il diritto dell’altro di ottenere un provvedimento di giustizia previsto
dal concordato con la Chiesa». E ancora: «Nei tribunali ecclesiastici regionali non ci
occupiamo degli aspetti economici. La decisione di chiedere la delibazione agli effetti civili
della sentenza canonica rientra nella responsabilità di ciascuna delle parti. La Chiesa,
peraltro, raccomanda sempre ai coniugi di osservare comunque i doveri di giustizia sia
verso l’altro coniuge, sia verso i figli».
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CULTURA E SCUOLA
del 18/07/14, pag. 13
Lettera aperta a Franceschini
Ministro, non mischi beni culturali e turismo
Vittorio Emiliani
●GENTILE MINISTRO FRANCESCHINI, LA SUA IDEA DI RIDURRE IL POTERE DELLE
DIREZIONI GENERALI REGIONALI per i Beni culturali va certo nella giusta direzione:
semplificare la catena di comando e il rapporto diretto centro-soprintendenze. Mi lasciano
invece perplesso altre idee, soprattutto una: quella di una più stretta integrazione fra
turismo e beni culturali e paesaggistici. Il primo sembra, da quanto si è letto, prevalere sui
secondi assoggettandoli a naturali, ovvie logiche economico- promozionali. Ciò discende
dalla convinzione - da lei ribadita nei giorni scorsi - che i nostri grandi musei siano
«miniere d’oro» non sfruttate a dovere, cioè potenziali «macchine da soldi». Non so da
dove si tragga questa convinzione, tutta italiana. Non dalle maggiori esperienze straniere:
il Louvre infatti, coi suoi 180.000mqdi superfici espositive e coi suoi quasi 9 milioni di
ingressi è passivo al50%(ci pensa lo Stato) e analoga è la situazione del Metropolitan di
New York. I grandi musei inglesi, come lei ben sa, sono gratuiti (tranne le mostre) e
contano proprio così di attrarre più turisti. Il che è vero secondo le loro statistiche ufficiali:
+ 50% di turisti a Londra. Ecco uno dei punti nodali: i beni culturali e paesaggistici sono,
oggettivamente, la «materia prima », il patrimonio da tutelare, da conservare, in sé e per
sé, maggiore o minore che sia, mentre il turismo è un suo «indotto economico» che può
ben essere potenziato se ben organizzato. E purtroppo in Italia esso è più disorganizzato
e più caro che nel resto d’Europa. Nonché spesso di qualità più scadente.
Nel suo progetto (per quel che se ne sa) si prevede, in una visione che privilegia
l’economia, il profitto rispetto alla tutela complessiva del patrimonio, di separare i grandi
musei dal territorio, dalle città,dal contesto storico in cui sono nati –da donazioni multiple di
grandi famiglie, da chiusure di chiese e conventi, da collezioni o gallerie patrizie - cioè
dalle Soprintendenze. Popolate secondo la vulgata corrente o di studiosi troppo raffinati o
di ottusi burocrati. Essi verrebbero affidati in completa autonomia a direttori anche
stranieri, comunque non provenienti dai Beni Culturali. Un bello schiaffo alle nuove leve
degli storici dell’arte italiani, dopo quello dell’accorpamento (deciso in astratto, sulla carta)
delle Soprintendenze ai Beni Artistici e storici a quella per i Beni architettonici. Con in più
qualche pericolo «politico». Chi nominerà quei venti mega-direttori e con quali criteri, il
ministro? Prevarranno criteri «politici» o meritocratici? Essi potranno essere anche
stranieri. Lei osserva che se vi sono italiani (per lo più, mi lasci dire, storici dell’arte)
chiamati a dirigere musei vecchi e nuovi all’estero, vi potranno ben essere stranieri validi…
Per l’arte contemporanea è molto probabile. Per quella antica e per l’archeologia i dubbi
non Sono pochi. Nei maggiori teatri lirici nazionali non è che i Sovrintendenti stranieri
abbiano dato prova strepitosa di sé. In ogni caso si è già visto con Mario Resca come
inserire manager nel corpo di un ministero «di patrimonio» abbia creato solo una gran
confusione, per esempio per il «vitello d’oro» tutto o quasi privato delle società di servizi
museali aggiuntivi. Ancora da sbrogliare, se non erro. Queste mega-direzioni
esternalizzate sono un primo passo per privatizzare (vecchio progetto- Urbani) i maggiori
musei? Retrospettivamente, anche ridurre in passato il Mibac alla canna del gas aveva
probabilmente questo fine ultimo. La polpa ai privati, l’osso allo Stato. E come la si mette
coi musei civici che spesso, nel Centro-Nord, sono i più grandi e prestigiosi di quelli
statali? A Brescia o a Pavia, per esempio, è tutto civico. Accenno al paesaggio italiano. Un
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giorno stavo assistendo alla telecronaca del Giro d’Italia e mi stupii nel vedere ripresi
dall’elicottero paesaggi intatti, verdi, coltivi ordinati, nessuna periferia cenciosa. Corsi a
vedere dove stessero correndo: purtroppo il Giro era sconfinato in Austria… Tutto questo
avviene da noi per colpa delle Soprintendenze? Al contrario, per colpa di una sottocultura
molto italiana - alla quale il berlusconismo ha dato un propellente formidabile -che intende
il paesaggio come qualcosa di privato, in cui «ciascuno è padrone a casa sua». Lei ha
costituito un precedente pericoloso con la creazione di una commissione per il ricorso
contro i pareri emessi dalla Soprintendenze ai beni architettonici. Lei sa meglio di meche
gli organici di quelle Soprintendenze sono ancor più carenti degli altri a fronte di una
marea di richieste di concessioni edilizie, di autorizzazioni a costruire ovunque, a
ristrutturare in fretta e furia. Per cui ogni architetto dovrebbe affrontare in ogni giorno
lavorativo almeno 4-5 pratiche edilizie e urbanistiche ognuna delle quali richiede spesso
anche una quarantina di giorni di istruttoria. Come si rimedia? Col potenziamento degli
organici, ovvio. No,col richiedere, di fatto, un silenzio/assenso, sapendo che silenzio sarà,
vista la incredibile mole di lavoro e la non meno incredibile pochezza di mezzi e di uomini.
Le Soprintendenze vengono accusate di essere «organi monocratici». È difficile pensare
che non lo sia un organo tecnico-scientifico: non si decide a maggioranza come fare un
restauro o, in campo medico,un’operazione a cuore aperto. Prima dello sciagurato Titolo V
esisteva un ufficio centrale ben dotato che, nel 1998,compì oltre 135.000 istruttorie
progettuali annullando 3.092 progetti, neanche tanti, però maxi-progetti, «mostri», in tempi
rapidi, mediamente 42 giorni. Ma quell’utilissimo Ufficio centrale era stato dotato di mezzi
e di personale tecnico adeguato. Noi ci auguravamo che accadesse per la copianificazione Regioni-Ministero prevista dal Codice per il Paesaggio. Dov’è finita invece,
Toscana a parte? In conclusione mi sembra, signor ministro, che mescolare la materia
prima «patrimonio» e l’indotto «turismo» anteponendo per giunta il primo al secondo,oltre
a smontare, di fatto, una tradizione, centenaria ormai, di buona tutela (nonostante gli
italiani), rischi di non giovare per primo al turismo che avrebbe bisogno, quello sì, di
manager, di specialisti, di promoter e di obiettivi adeguati ai 48.738.575 stranieri che sono
arrivati da noi nel 2012. Oggi la politica turistica la fanno i tour operator, come più
conviene loro. E sul paesaggio comandano speculatori, abusivi, padroni e padroncini.
Sinceri saluti
del 18/07/14, pag. 17
Pompei, corsa contro il tempo
Firmato il Grande Progetto per il sito: ma i soldi
dell’Europa mai usati rischiano di andare persi
VALERIA TRIGO
UNA SFIDA PER POMPEI: RIMBOCCARE LE MANICHE, ACCELERAREI
LAVORI,NONPERDERETEMPONÉ, SOPRATTUTTO, SOLDI. PERCHÉ DI TEMPO SE
N’È PERSO PARECCHIO, E MENTRE I FONDI EUROPEI NON VENIVANO USATI, C’È
STATO IL TEMPO DOLOROSO PER VEDERE FRANARE PEZZI DEL SITO
ARCHEOLOGICO PIÙ IMPORTANTE DEL MONDO. IERI A POMPEI IL COMMISSARIO
EUROPEO PER LA POLITICA REGIONALE JOHANNES HAHN HA FIRMATO CON IL
MINISTRO DELLA CULTURA DARIO FRANCESCHINI E IL SOTTOSEGRETARIO ALLA
PRESIDENZA DEL CONSIGLIO GRAZIANO DEL RIO UN PIANO CONGIUNTO UNIONE
EUROPEA - ITALIA PER IL GRANDE PROGETTO POMPEI. E, nell’occasione, ha
approfittato per fare il punto della situazione degli scavi nel sito campano. Fino ad oggi, ha
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sottolineato il commissario europeo, solamente il 25% dei fondi europei è stato impegnato.
Nel 2015, quindi, «ciò che non è stato impiegato del finanziamento di 105 milioni di euro
andrà perso», ha avvertito Hahn, che però ha aperto uno spiraglio: «se non saremo in
grado di spendere i fondi, questi andranno persi. Ma prevediamo per Pompei altri fondi per
il futuro». E, per incentivare l'impegno di tutti, ha aggiunto: «Ogni 4 mesi verificheremo gli
stati di avanzamento e li pubblicheremo, per creare una pressione sociale su questo
percorso. Ribadisco: è il momento di lavorare per ottenere frutti. Il tutto per garantire che i
fondi siano utilizzati appieno entro fine 2015». «La sfida di Pompei è la sfida del Paese, è
la sfida dell'Europa», è stato il commento di Dario Franceschini, secondo cui «vincere la
sfida di Pompei significa dare un segnale al mondo interno, dimostrare che il nostro Paese
vuole investire sul suo patrimonio culturale». E Graziano Delrio, dopo aver denunciato i
«colpevoli ritardi » di questi anni, a nome del governo «accetta la sfida» a «recuperare il
tempo perso rilanciando l'impegno sul sito archeologico». Intanto i responsabili del Cnr
hanno illustrato a Hahn il contributo ulteriore che la ricerca italiana intende offrire al
Grande Progetto Pompei. App e realtà virtuali per consentire una «visita » on site degli
edifici nel sito archeologico di Pompei. «La ricerca sul patrimonio culturale è una priorità
europea non solo nazionale» è stato detto e, a tal proposito è stato dimostrato come
l’innovazione si inserisce nell’incremento della divulgazione della cultura, mediante
l’adozione di nuove App già create per il sito di Siracusa.
del 18/07/14, pag. 28
E PER L’ONU LA PRIVACY DIGITALE
DIVENTA UN DIRITTO DELL’UOMO
FABIO CHIUSI
IL RISCHIO che tutte le comunicazioni degli italiani siano intercettate per la scarsa
sicurezza degli Internet exchange point, i luoghi in cui avviene lo scambio del traffico tra i
diversi operatori web che vi sono connessi, è il fulcro del rapporto segreto degli ispettori
del Garante della privacy rivelato ieri da Repubblica. Ma la soluzione non può risiedere
unicamente in una risposta — pur necessaria — allo specifico problema entro i nostri
confini. Scrive infatti in uno studio appena pubblicato l’ufficio di Navi Pillay, Alto
commissario per i diritti umani delle Nazioni unite: la sorveglianza digitale è divenuta in
tutto il mondo «una pericolosa abitudine più che una misura straordinaria». Come si
evince dall’analisi intitolata “Il diritto alla privacy nell’era digitale”, in gioco c’è niente meno
che il rispetto del più ampio ventaglio dei diritti umani: la libertà di espressione e
associazione, la tutela dell’intimità familiare ma anche il diritto di rimanere anonimi se ritenuto indispensabile per
comunicare informazioni sensibili riguardo alla propria salute. Ciò che va riaffermato è la
base stessa di quei diritti, così da renderli effettivi anche nell’era del Datagate. Grazie alle
attuali tecnologie a disposizione dei governi in tutto il mondo, sorvegliare la cittadinanza
costa infatti sempre meno, non conosce più limiti di estensione e durata e, si legge, «la
capacità di condurre sorveglianza simultanea, invasiva, mirata e su larga scala non è mai
stata così grande». È la conferma dell’incubo di controllo totale della statunitense National
security agency rivelato dall’archivio di Edward Snowden, ma anche una sua inquietante
contestualizzazione che costringe a spingersi al di là delle operazioni degli Stati Uniti e dei
suoi alleati.
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Il testo dell’Alto commissariato dell’Onu va molto oltre la semplice condanna, peraltro già
contenuta in un documento approvato lo scorso dicembre che stabiliva, senza troppi giri di
parole, che i diritti tutelati offline devono essere protetti anche online. E stila un vero e
proprio profilo giuridico dei limiti che il diritto internazionale fornisce a qualunque progetto
di controllo digitale. In un mondo in cui ci sono «indicazioni credibili» che le informazioni
ricavate dai programmi di sorveglianza di massa abbiano «condotto a torture e
maltrattamenti», e perfino costituito la base per attacchi letali tramite droni, servono
maggiori garanzie per sottrarre i cittadini a intrusioni «arbitrarie o illegali» nelle loro vite.
Ciò non significa, precisa il rapporto, che ovunque ci sia una legge il problema sia risolto.
Anzi, procedure opache — o peggio, come nel caso della sorveglianza Nsa, segrete —
non bastano a legittimare il monitoraggio dei nostri dati. Al contrario, le norme devono
essere «sufficientemente accessibili, chiare e precise, così che chiunque possa
consultarle e sapere chi è autorizzato al controllo e in quali circostanze». E vanno rispettati
i principi di «necessità» e «proporzionalità», nella consapevolezza dunque che sia
sorvegliato solo lo stretto indispensabile, che ciò porti a risultati concreti (spetta al governo
dimostrarli), e soprattutto che «ogni limitazione al diritto alla privacy non debba rendere
insignificante l’essenza di quel diritto»: una conclusione che troppo spesso affiora alle
labbra di chiunque abbia letto le rivelazioni prodotte da Snowden nell’ultimo anno.
L’Ufficio di Pillay si spinge poi ancora oltre, affermando che «la mera esistenza di un
programma di sorveglianza crea una intromissione nella privacy», ed è per questo che i
limiti alle ingerenze dei governi devono essere stringenti. Coinvolgendo, è l’oggetto della
parte finale del resoconto, anche i soggetti privati dei quali sempre più si servono per
attingere ai nostri dati. La collaborazione, in altre parole, non deve diventare complicità.
Per evitarlo, le aziende che li detengono devono prevedere procedure per identificare,
valutare, prevenire, contrastare e porre rimedio a eventuali abusi. E devono alzare la voce
con le autorità, pretendendo un mandato giudiziario a giustificazione delle loro richieste e
fornendo la massima trasparenza agli utenti. Senza strutture sicure, tuttavia, difficile possa
bastare a ridare fiducia ai cittadini in rete.
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ECONOMIA E LAVORO
del 18/07/14, pag. 14
Per il 2015 rischio manovra da 23 miliardi. “Ma gli 80 euro in busta paga
resteranno”
Allarme Padoan: la ripresa stenta
ROBERTO PETRINI
ROMA .
Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan lancia l’allarme: i «recenti dati macroecomici
indicano che il ritorno alla crescita è in ritardo». Il segnale arriva alla Camera dove il
responsabile del Tesoro ha riferito ieri sulla situazione italiana nel quadro delle
raccomandazioni di Bruxelles sui conti pubblici. Padoan ha parlato con preoccupazione di
«crescita ancora debole e incerta» e di «disoccupazione elevata». Problemi italiani, ha
detto, ma anche europei. Certamente la questione del Pil esiste: negli ultimi giorni più di
un centro di ricerca ha sfornato le proiezioni fresche su quest’anno collocando la crescita
tra lo 0 e il mezzo punto percentuale, contro già il risicato 0,8 sul quale conta ancora il
governo.
La conseguenza è che ci sono «margini più stretti per il governo» ma non, almeno per ora,
la necessità di una manovra riguardo alla quale il ministro del Tesoro si è trincerato dietro
un «no comment ». La conseguenza del nuovo difficile passaggio dell’economia è che
dovremo accontentarci per il ritorno alla crescita di una «visione a lungo termine» e che
non dobbiamo contare su «scorciatoie ». Le ricette restano quelle tradizionali, i «tre
pilastri» indicati dal ministro dell’Economia: apertura del mercato, riforme strutturali, più
investimenti.
Nonostante il quadro grigio il governo cammina dritto per la sua strada anche perché il
rilancio dei consumi sembra ormai una condizione obbligata anche se non sufficiente: così
Padoan, ha confermato che il bonus-Irpef da 80 euro in busta- paga per i redditi più bassi,
sarà confermato anche per il prossimo anno e diventerà «strutturale» dando maggiore
certezza ai cittadini. Il costo, come è noto, è di circa 7 miliardi che dovranno essere
recuperati nel prossimo anno.
La questione conduce in via diretta ai conti pubblici che già sono sotto la lente di Bruxelles
per aver spostato al 2016 il pareggio di bilancio (misura sulla quale si attende il via libera
del Consiglio europeo) e un vago richiamo a alla necessità di ulteriori interventi. «Una
manovra da 23 miliardi, come quella prospettata da Padoan, è insostenibile», ha detto
Stefano Fassina del Pd. Si tratta naturalmente della legge di Stabilità 2015, visto che la
manovrina non è stata messa all’ordine del giorno: alla cifra si arriva aggiungendo ai 7
miliardi del nuovo bonus 2015, i 7-8 che serviranno per avvicinare il pareggio di bilancio
già dal prossimo anno, i 4 miliardi lasciati in eredità da Letta di spending review a valere
sul 2015 e che andranno coperti, e 4 miliardi di spese inderogabili. A fronte ci sono per ora
14 miliardi sulla carta di spending review 2015 (gli 8 di privatizzazioni serviranno per
ridurre il debito). La riduzione della crescita del Pil dallo 0,8 previsto a stime almeno di
mezzo punto in meno rende necessaria la ricerca di circa 4 miliardi che tuttavia potrebbero
essere compensati con il calo degli spread e della conseguente spesa per interessi.
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del 18/07/14, pag. 24
Alitalia, sindacati divisi sì di Cgil e Cisl, no di
Uil a contratto e costo lavoro
Del Torchio: “La compagnia sta morendo” Ed è braccio di ferro sul
ruolo delle Poste
ROMA .
Prima il no della Cgil agli esuberi. E ieri è piombato sul tavolo della trattativa tra Alitalia e
sindacati anche il dietrofront di Uil, Ugl e associazioni professionali alla firma del contratto
del trasporto aereo e del taglio dei costi del personale per 31 milioni. Le sigle si
presentano oggi spaccate al loro interno e questo apre un nuovo ostacolo al negoziato con
Etihad che prevede, se non l’unanimità, quanto meno la maggioranza dei lavoratori
favorevoli. La Uil, in particolare, che rappresenta il maggior numero di dipendenti iscritti
della compagnia (in particolare sono piloti e assistenti di volo), non ha accettato
l’impostazione del nuovo contratto che non affronterebbe le specificità del lavoro di queste
categorie. Per questo ora la palla torna nelle mani dell’azienda che rischia di trovarsi con
un patto firmato da meno del 50% dei dipendenti visto che il via libera è giunto solo da Cgil
e Cisl.
L’Ugl, con il segretario generale Giovanni Centrella, che pur era favorevole
all’impostazione del documento, non
ha firmato proprio per l’assenza dell’unità sindacale. Per la Uil ha parlato il numero uno
Luigi Angeletti: «Il testo viola molti diritti delle persone che lavorano in Alitalia e questo non
c’entra nulla con l’operazione Etihad: visto che gli arabi non hanno mai chiesto di fare un
contratto nazionale». «Mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata. Alitalia sta
morendo». Così ha stigmatizzato lo scontro interno ai sindacati l’ad di Alitalia, Gabriele Del
Torchio.
Resta invece aperta la questione delle Poste che non sarebbero disposte a farsi carico
delle eventuali pendenze legali scaturite dalla gestione precedente al suo ingresso in
Alitalia. Dicono al riguardo i 5 Stelle: «Poste Italiane — spiegano i deputati della
Commissione Trasporti — non è un bancomat utile a ripianare con soldi pubblici la
gestione disastrosa del vettore. Sbagliato che le banche azioniste premano perché Poste
stipuli l’ equity committment . Ovvero, l’impegno pro quota a finanziare oneri legati a
contenziosi o a perdite della vecchia Alitalia».
( lu. ci.)
Del 18/07/2014, pag. 5
La Thyssen gela Terni: 550 esuberi
nell’acciaieria
Siderurgia. Nel piano industriale di ThyssenKrupp il taglio di 550
lavoratori, 100 milioni l'anno di risparmi e chiusura del secondo forno.
Fiom, Fim e Uilm: "Irricevibile". Oggi sciopero, si arrabbia anche il
governo
Riccardo Chiari
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Bontà sua, anche il governo si fa sentire: “Il piano industriale per Ast presentato oggi da
Thyssen Krupp proprio non va”. Per forza: nello stabilimento di Terni i tedeschi progettano
una riduzione di costi in tutte le aree di oltre 100 milioni l’anno, il taglio di 550 lavoratori,
e la chiusura entro due anni del secondo forno. Al ministero dello sviluppo economico, ma
anche a palazzo Chigi, l’hanno presa male: appena il mese scorso, in un summit chiesto
dagli enti locali umbri, l’autorevole Joachim Limberg, che di mestiere fa il “Ceo Business
Area Materials Services”, aveva detto: “ThyssenKrupp crede nelle potenzialità di Acciai
Speciali Terni e delle consociate, e sta valutando con molta intensità tutte le soluzioni per
il rilancio”. Ad ascoltarlo c’erano il braccio destro del premier Renzi, Graziano Delrio, e il
viceministro Claudio De Vincenti. Entrambi, a occhio, sono stati presi per i fondelli.
Peggio di loro stanno gli operai, i tecnici e gli impiegati nel settore della siderurgia italiana,
rasa al suolo dalla non politica industriale del governo, e dalla strategia degli affiliati
a Federacciai di spartirsi i pochi bocconi pregiati (e a rendimento immediato) di quanto
resta delle grandi acciaierie della penisola. Invece a Terni, dove comanda la multinazionale tedesca, le cose si fanno alla luce del sole: il piano industriale, quinquennale, corre
verso la chiusura dell’area a caldo e con una maxi riduzione dei costi che, al solito, si
abbatterà soprattutto su quelli del lavoro. “Un piano da rivedere perché manca di prospettiva – commentano ai piani alti del Mise – cioè non lascia intravedere, dopo tre anni di
incertezze gestionali, quale possa essere il futuro”.
Quello immediato, visto con gli occhi dei lavoratori e dei sindacati, è sintetizzabile in una
parola: sciopero. Fiom, Fim e Uilm chiamano allo stop già per l’intera giornata di oggi.
Anche i cislini di Raffaele Bonanni, abitualmente più realisti del re, non vedono alternative:
“Quello di ThyssenKrupp è un piano fallimentare dal punto di vista industriale — tira le
somme Marco Bentivogli della Fim — ed è la fotocopia di tutti i piani presentati da tutti
i grandi gruppi per ‘efficientare’ il costo del lavoro. Con ricadute sociali inaccettabili”. Per la
Fiom, dopo che il segretario ternano della Cgil, Attilio Romanelli, ha bollato il piano come
“irricevibile”, interviene il coordinatore nazionale della siderurgia Gianni Venturi: “Manca
qualsiasi prospettiva strategica – avverte il pur ‘riformista’ dirigente sindacale dei metalmeccanici Cgil — e la ricerca dell’equilibrio tra produzione e redditività è scaricata sui soli
lavoratori”. Lunedì ci sarà un primo incontro tra azienda e sindacati. Ma certo i tedeschi
non sembrano tipi malleabili, a giudicare dai dettagli di quello che definiscono “piano di
azione strategico globale, in grado di ristabilire la profittabilità sostenibile dell’azienda,
nonostante il difficile quadro del mercato caratterizzato da un’esistente sovracapacità”.
Visti da ThyssenKrupp, i rimedi sono la fusione delle società del gruppo Ast e una nuova
struttura commerciale in sinergia con quella della multinazionale; l’incremento del laminato
a freddo del 30% e il decremento del laminato a caldo del 40%; il mantenimento dei volumi
del forgiato, l’incremento della quota tubi del 30% e soprattutto il taglio di 550 addetti e di
100 milioni annui negli investimenti. Con un’avvertenza finale: “La chiusura del secondo
forno potrebbe essere riconsiderata solo se le condizioni di mercato miglioreranno notevolmente, e tutti gli obiettivi saranno stati raggiunti”. Replica Mario Ghini della Uilm: “Qui si
riduce la forza lavoro del 20% in cinque anni. Se l’azienda vuole risparmiare così, non va
lontano”. Come la siderurgia italiana.
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