RASSEGNA STAMPA

RASSEGNA STAMPA
venerdì 5 dicembre 2014
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Da Corriere.it del 05/12/14
Sblocca Italia, l’Arci: «No allo sfruttamento
petrolifero»
di Mirella D’Ambrosio
POTENZA – Arci nazionale e Arci Basilicata hanno aderito alla manifestazione che si è
svolta ieri a Potenza per esprimere la netta contrarietà al decreto Sblocca Italia e
sollecitare la Regione Basilicata a prendere in considerazione la possibilità di impugnarlo.
Al centro della protesta c’è il provvedimento che punta sullo sviluppo degli idrocarburi
come leva per il rilancio economico del Paese e che,secondo l’Arci «si caratterizza per
una rischiosa impostazione neo coloniale di ‘saccheggio’ del territorio».
A ciò va aggiunta la forte preoccupazione per la regione Basilicata che vedrebbe la quasi
totalità del suo territorio esposta alle richieste di intervento da parte delle compagnie
petrolifere, che vi svolgerebbero attività incompatibili con ambiente e salute, senza
neppure un significativo ritorno occupazionale.
«Consideriamo sbagliata e pericolosa la strategia energetica del Governo che mira a
racimolare soldi rapidamente con le scarse risorse di idrocarburi – è il ragionamento
dell’Arci – se invece puntasse sull’efficienza e sulle energie alternative potrebbe ottenere
gli stessi benefici, a lungo termine e senza rischi per l’ambiente: in vent’anni di estrazioni é
ormai maturata nei lucani una consapevolezza diffusa attorno a temi come la sostenibilità
ambientale, la difesa dei beni comuni, la giustizia sociale. Siamo convinti che sia il
momento di cambiare strada, rimettendo in discussione i presupposti dell’idea di sviluppo
fin qui perseguita».
http://sociale.corriere.it/sblocca-italia-larci-no-allo-sfruttamento-petrolifero/
Da Repubblica.it del 05/12/14
Fiaccolata in Campidoglio: "No alla violenza,
sì all'integrazione"
"Roma città aperta sicura inclusiva... costruiamola insieme". Una fiaccolata ai piedi del
Campidoglio a cui hanno partecipato istituzioni, consiglieri regionali e capitolini, assessori
capitolini, associazioni, comunità per focalizzare l'attenzione sulla centralità dei temi della
coesione, dell'integrazione e dell'inclusione sociale. Un'iniziativa per "condannare con
fermezza ogni tipo di violenza; praticare la via del dialogo; fare proposte per superare
l'emergenza e per governare in termini pianificati gli interventi per il prossimo periodo, da
incentrarsi sul tema dello sviluppo, crescita, integrazione socio-culturale; avviare
concretamente un processo di recupero e riqualificazione delle periferie romane, così da
riaffermare il valore di una Capitale accogliente e includente". A prenderne parte: Cgil,
Cisl, Uil, Acli, Arci, Centro Astalli, Cnca, Comunità Sant'Egidio, Forum Terzo Settore,
Libera, Fondazione internazionale Don Luigi di Liegro, Social Pride
Fotogallery al link
http://roma.repubblica.it/cronaca/2014/12/04/foto/fiaccolata_sant_egidio_campidoglio102140281/1/#1
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Da OpenMag del 05/12/14
Roma Città Aperta, Sicura, e Inclusiva
di Sara Massini
Le maggiori sigle sindacali e le organizzazioni del terzo settore Lazio hanno organizzato
una fiaccolata per condannare ogni forma di violenza e il recupero delle periferie di Roma
Sono le 18 del 4 dicembre e al termine di un piovoso e buio pomeriggio, tante piccole e
tremolanti luci accendono piazza del Campidoglio di Roma e si aggregano in circolo sotto
la statua di Marco Aurelio a formare gruppo rumoroso e colorato. Sono le fiaccole della
manifestazione organizzata dalle organizzazioni del terzo settore, tra cui le prime
firmatarie CGIL, CISL, UIL, CENTRO ASTALLI, FORUM TERZO SETTORE LAZIO, ACLI,
ARCI, LIBERA, FONDAZIONE DI LIEGRO, SANT’EGIDIO e SOCIAL PRIDE, riunitesi per
esprimere la loro ferma condanna ad ogni tipo di violenza e l’urgenza di avviare, tramite il
dialogo sociale, un processo di recupero e riqualificazione delle periferie romane.
Una risposta dal basso alle manifestazioni di intolleranza degenerate nell’ultimo mese in
particolare in zone della Capitale come Tor Sapienza, dell’Infernetto, e le altre periferie da
troppo tempo abbandonate a loro stesse; zone della città in cui le amministrazioni hanno
concentrato la presenza di centri di accoglienza e campi rom aumentando ed esasperando
il carico di difficoltà che questi territori già registrano quotidianamente. Contesti e situazioni
di disgregazione sociale che gli operatori sociali, i volontari, le associazioni e le
cooperative di Terzo Settore, i comitati di quartiere e le parrocchie tentano faticosamente
di ricucire senza ricevere sostegni concreti dalla politica.
“L’inclusione sociale dipende dalle scelte politiche sia legislative che amministrative” – dice
Gianni Palumbo, portavoce del Forum del terzo settore del Lazio ” – e noi che con le
nostre organizzazioni siamo coinvolti direttamente e in prima persona in tutte le periferie
romane, nel lavoro a diverso titolo con i residenti, cittadini romani e non, con gli immigrati, i
richiedenti asilo, i rom, vogliamo fare sentire la nostra voce, la nostra esperienza e le
nostre proposte alle Istituzioni a partire da quelle locali per costruire insieme una città
aperta, inclusiva, egalitaria e soprattutto sicura. Chiediamo per questo di avere più potere
e finanziamenti ai municipi per poter rispettare il principio di sussidiarietà e favorire più
politiche di inclusione sociale nel rispetto della legalità”.
Lidia Borzi, presidente regionale delle Acli, aggiunge: “con questa manifestazione
intendiamo prendere le distanze da quelle strumentazioni ideologiche che si sono fatte
nelle settimane scorse a proposito degli scontri nelle periferie romane e vogliamo restituire
dignità alle nostre periferie e ai loro abitanti. Abbiamo bisogno e chiediamo interventi seri,
organici e di ampio respiro.” Riccardo Pacifici, presidente della comunità ebraica di Roma,
ricorda di fare attenzione alla ghettizzazione delle periferie con la presenza massiccia di
immigrati, richiedenti asilo, ecc. Sono pronto a sedermi a un tavolo per discutere le
possibili soluzioni. Ma basta fare polemica”.
La manifestazione prosegue pacificamente, con la piazza piena e partecipe, si
susseguono gli interventi dei sindacati, delle altre organizzazioni, chiedono al sindaco
Marino interventi che equiparino le periferie alle zone del centro, Roma deve crescere e
svilupparsi tutta insieme Tor Sapienza come i fori Imperiali. “Soprattutto in questo
momento in cui si sta definendo lo statuto di un nuovo ente locale, la città metropolitana,
che può aprire a una nuova possibilità di partecipazione” – continua Eugenio De
Crescenzo, vicepresidente dell’associazione generale cooperative Lazio – ” ma abbiamo
bisogno di un cambiamento radicale soprattutto in queste ore in cui scopriamo un’assenza
di democrazia, di processi di trasparenza nella gestione delle risorse, degli appalti così
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centrali per noi operatori del sociale. Abbiamo bisogno che la politica riprenda la sua
funzione etica, non possiamo più aspettare, il sindaco deve rinnovare la giunta, cambiare
le parti forti che influenzano negativamente i processi.”
Alla fine poche, ma chiare richieste: “vorremmo poter assistere a un vero decentramento
grazie a questo nuovo ente locale,” – conclude De Crescenzo – “dare più potere ai
soggetti politici locali per farli confrontare direttamente con i cittadini per prendere le
decisioni. Non limitarsi ad argomenti quali accessibilità e inclusione di immigrazione e
disabilità, ma affrontare argomenti come piano regolatore, leve di sviluppo economico,
mobilità,… Questi sono gli argomenti sui quali i cittadini devono essere interrogati per dare
un contributo. Anche e soprattutto per comprendere che tutti, quale che sia la difficoltà che
si affronta come una malattia, assenza di lavoro, perdita di cari, disabilità, dobbiamo
trovare la forza di vivere insieme le difficoltà piuttosto che riversarle sui più deboli e
prendersi la responsabilità di costruire insieme una città più aperta, civile e inclusiva.”
Presenti alla manifestazione alcuni consiglieri comunali e regionali laziali provenienti dal
mondo del terzo settore, che pur non avendo preso la parola in piazza, hanno voluto
esserci e metterci la faccia, soprattutto in questi giorni in cui emerge un quadro torbido nel
rapporto tra un certo modo di fare politica e affari sulla pelle dei più deboli.
http://www.openmag.it/2014/12/05/roma-citta-aperta-sicura-e-inclusiva/
Da Redattore Sociale del 04/12/14
Le associazioni in Campidoglio: "Roma
sporcata dalla criminalità"
La fiaccolata antirazzismo, voluta dopo i fatti di Tor Sapienza per
riaffermare il carattere inclusivo della città, diventa l'occasione per
esprimere lo sdegno di fronte all'inchiesta "Mafia capitale". Riccardi:
Roma non è più aperta, si sta imbarbarendo
ROMA - "Roma città aperta, sicura e inclusiva. Costruiamo insieme". E' questo lo slogan
scelto per lo striscione esposto in Campidoglio dalle circa 150 persone che hanno preso
parte alla fiaccolata antirazzista, organizzata stasera nella Capitale dai sindacati e dalle
associazioni che lavorano al fianco dei migranti. La manifestazione, nata inizialmente dopo
le aggressioni avvenute nel quartiere Tor Sapienza contro il centro rifugiati, per riaffermare
il carattere inclusivo della città, è stata anche occasione per esprimere lo sdegno di fronte
ai fatti emersi dall'inchiesta "mondo di mezzo".
"Si sentiva il bisogno di una manifestazione come questa per dire che a Roma sta
avvenendo qualcosa di molto grave. Roma non è più aperta, si sta imbarbarendo",ha
sottolineato Andrea Riccardi, tra i fondatori della Comunità della Sant'Egidio. "A Tor
Sapienza abbiamo visto due storie difficili, quella dei rifugiati e quella del quartiere. C'è
stata una vera e propria strategia della tensione. E questo perché la politica si è spenta.
Oggi il Campidoglio è lambito da schizzi di criminalità organizzata bipartisan, questo mina
la democrazia della città. Occorre quindi ricostruire il tessuto culturale e di dialogo. Non
sapevamo che sui rom si guadagnava più che sulla droga, questo è troppo grave e
richiede un salto morale degli amministratori".
Sulla stessa scia Carlo De Angelis del Social Pride che ha ricordato come quello che sta
emergendo dall'indagine era stato già denunciato da tempo dell'associazioni.
"Non è possibile che nel 2015 che sia ancora una situazione di razzismo ma questo
avviene perché su questi temi c'è troppa disinformazione. Questi temi sono usati per fare
allarmismi - aggiunge Tareke Brhane del Comitato 3 ottobre - "Quello che stiamo vedendo
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in questi giorni fa capire invece come si specula sui rifugiati. Bisognerebbe conoscere
invece di più le loro storia, come vivono ma anche come vengono fatti i bandi per
l'accoglienza, spesso al massimo ribasso.
Don Camillo Ripamonti presidente del Centro Astalli ha sottolineato che "le periferie
geopolitiche della città non devono diventare periferie esistenziali. Bisogna invece investire
su una cultura dell'accoglienza interreligiosa e interculturale".
Alla manifestazione, promossa da Arci, Centro Astalli e Comunità Sant’Egidio e dai
sindacati Cgil, Cisl e Uil, ha preso parte anche l'Assessore alle Politiche sociali del
Comune di Roma Rita Cutini che ha sottolineato come sia importate riaffermare una
politica dell'accoglienza. "Roma è una bellissima città, accogliente e inclusiva". (ec)
Da AffariItaliani del 04/12/14
Fiaccolata in Campidoglio. La marcia delle
periferie
L'iniziativa sotto Palazzo Senatorio a cui hanno partecipato istituzioni,
consiglieri regionali e capitolini, assessori capitolini, associazioni,
comunità per focalizzare l’attenzione sulla centralità dei temi della
coesione, dell’integrazione e dell’inclusione sociale
"Roma citta' aperta sicura inclusiva...costruiamola insieme". Una fiaccolata ai piedi del
Campidoglio per "condannare con fermezza ogni tipo di violenza; praticare la via del
dialogo; fare proposte per superare l’emergenza e per governare in termini pianificati gli
interventi per il prossimo periodo, da incentrarsi sul tema dello sviluppo, crescita,
integrazione socio‐culturale; avviare concretamente un processo di recupero e
riqualificazione delle periferie romane, così da riaffermare il valore di una Capitale
accogliente e includente". Questo l'obiettivo dell'iniziativa sotto Palazzo Senatorio a cui
hanno partecipato istituzioni, consiglieri regionali e capitolini, assessori capitolini,
associazioni, comunità per focalizzare l’attenzione sulla centralità dei temi della coesione,
dell’integrazione e dell’inclusione sociale. A prenderne parte: Cgil, Cisl, Uil, Acli, Arci,
Centro Astalli, Cnca, Comunità Sant’Egidio, Forum Terzo Settore, Libera, Fondazione
internazionale Don Luigi di Liegro, Social Pride.
"Non abbiamo piu' voglia di vedere in questa citta' gruppi xenofobi. Dell'episodio che ha
visto dei bambini che un giorno non sono stati fatti entrare a scuola non se ne parla quasi
piu' perche' e' ormai e' passato. Vorremmo che la polizia arrestasse i genitori invece dei
bambini che vanno a delinquere a differenza di alcuni che i bambini a scuola ce li
mandano e con grandi sacrifici. Il messaggio che deve partire da questa piazza e' non solo
accendere la speranza e scaldare i cuori ma portare proposte - ha detto il presidente della
Comunita' ebraica di Roma, Riccardo Pacifici - Prima dei fatti di Tor Sapienza qualcuno
sapeva di un centro di accoglienza li'? Quanti dei romani lo sapevano? Quanti non sanno
nulla di quello che si fa in quei centri? All'assessore Cutini chiedo di rendere pubbliche le
mappe su dove sono i centri di accoglienza e lavorare per smistare le persone quando ce
ne sono troppe. E soprattutto dobbiamo ribadire che non abbiamo paura, non ci facciamo
intimidire". Per l'assessore alle Politiche sociali, Rita Cutini, "e' la citta' che vuole bene a
Roma. E' il mondo sul quale possiamo e dobbiamo contare per costruire una citta'
accogliente, sicura e aperta. Una citta' che non ha paura di queste parole e sta cercando
la strada per costruire una percorso migliore. Oggi il tema era Tor Sapienza e su come
ragire di fronte a un'idea di accoglienza messa in discussione. Il problema non sono gli
immigrati ma costruire insieme una rete di inclusione e di una periferia da cui ripartire". "La
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periferia deve essere vissuta come un'opportunita'. E' importante il centro di Roma, i Fori
Imperiali, ma sono ugualmente importanti le periferie altrimenti non avremo una Roma
'Capitale'. Ma su queste periferie - ha detto il segretario generale della Cgil di Roma e del
Lazio. Claudio Di Berardino - dobbiamo metterci le mani, ovvero pensare alle
infrastrutture, completare le fognature, realizzare le infrastrutture sociali, ragionare sui
servizi e allora il tpl non puo' essere tagliato alle periferie. Pensare alla raccolta dei rifiuti
aumentando lo standard di intervento, ma anche recupero, riqualificazione, riuso. Pensare
alla vigilanza e al controllo del territorio. Bisogna ridefinire il senso di cittadinanza in senso
inclusivo".
http://www.affaritaliani.it/roma/fiaccolata-in-campidoglio-la-marcia-delle-periferie04122014.html
Da Giornale Radio Sociale del 04/12/14
Una luce di accoglienza
Dalle Acli all’Arci, dal Centro Astalli alla Comunità di Sant’Egidio. Sono diverse le
associazioni che parteciperanno alla fiaccolata oggi pomeriggio a Roma in piazza del
Campidoglio. Un’iniziativa, dopo i fatti di Tor Sapienza, promossa anche dal Forum
nazionale del terzo settore contro ogni discriminazione e razzismo. Appuntamento alle ore
18.
Link audio http://www.giornaleradiosociale.it/audio/04-12-2014/
Da Redattore Sociale del 04/12/14
Mafia capitale, l'Arci: "Siamo di fronte al
nuovo sacco di Roma"
Una programmazione nazionale, un sistema che faccia capo allo Sprar e
la creazione di un albo delle organizzazioni adatte ad offrire servizi di
accoglienza. Sono i tre punti cardine individuati dall'Arci che invita la
politica a cambiare registro nei confronti del sistema di accoglienza
degli immigrati
ROMA - Una programmazione nazionale, un sistema che faccia capo allo Sprar e la
creazione di un albo delle organizzazioni adatte ad offrire servizi di accoglienza. Sono i tre
punti cardine individuati dall'Arci di Roma che invita la politica a cambiare registro nei
confronti del sistema di accoglienza degli immigrati e richiedenti asilo, a pochi giorni
dall'inchiesta romana "Terra di mezzo".
"Gli arresti dei giorni scorsi a Roma - afferma l'Arci della capitale - che gettano un'ombra
sinistra sulla capitale e sugli interessi convergenti tra politica, malaffare e pubblica
amministrazione, confermano fra l’altro le nostre preoccupazioni sulle periodiche
‘emergenze procurate’ in tema d’accoglienza. L'emergenza impedisce infatti una
programmazione e una gestione controllata attraverso i normali canali amministrativi,
facendo spesso saltare regole e controlli".
La rinuncia ai bandi pubblici e il conseguente affidamento diretto ad organizzazioni e
soggetti new entry privi di competenze specifiche nel settore dell'accoglienza, secondo
l'Arci, ha poi fatto il resto contribuendo a determinare l'attuale situazione di emergenza.
Senza dimenticare i soldi pubblici, uno spreco dovuto anche questo all'"agire in
emergenza": "L'emergenza - sottolinea l'Arci - oltre ad alimentare un vero e proprio
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business dell’accoglienza, comporta uno spreco di denaro pubblico insopportabile. Infatti i
profughi, una volta usciti da grandi centri dove non sono stati in alcun modo seguiti,
devono ricominciare da capo il loro percorso di integrazione. Si buttano via quindi risorse
per strutture inadeguate e con personale incompetente, infischiandosene del danno anche
psicologico che ne deriva per gli ospiti, che spesso dopo hanno bisogno di maggiori cure
e attenzioni e di un periodo di accoglienza più lungo.
Insomma l’agire in ‘emergenza’, con il ricorso a grandi strutture, senza controlli, con
soggetti inadeguati, oltre a facilitare infiltrazioni di ogni tipo, avvelena le relazioni e
appesantisce il già difficile carico di ingiustizie che i rifugiati si portano dietro".
E'ancora possibile trovare una soluzione adeguata al problema dell'accoglienza degli
immigrati e richiedenti asilo? Quanto tempo bisognerà aspettare ancora perché si decida
di cambiare registro? Ora la palla passa al Governo e al Ministero dell'Interno, secondo
l'Arci romana i maggiori responsabili di questa situazione. "Questo metodo produce
spesso un impatto negativo col territorio e le comunità locali, che possono sfociare in
violenze strumentalizzate dalla destra xenofoba che alimenta il razzismo".
Da Vita.it del 05/12/14
Progetti multistakeholder come farli con
successo
Gli interlocutori da coinvolgere, gli step da seguire, gli strumenti di
monitoraggio e valutazione da utilizzare. E un primo esempio concreto
in cui vederle applicate: il progetto “Arrivano i nonni” per favorire il
dialogo intergenerazionale.
L'individuazione di una priorità sociale cui dare risposta, la costruzione di un network di
stakeholder strategici, l'elaborazione di una metodologia di sviluppo, monitoraggio e
valutazione replicabile, cui far seguire la realizzazione dell'intervento concreto sul
territorio.
Questo, in sintesi, il processo che Terna, Arci Milano, il Comune di Milano, Fondazione
Sodalitas e SDA Bocconi School of Management hanno strutturato a fine 2013 per a
supporto del progetto sociale “Arrivano i nonni”. Il programma, ideato per valorizzare
l'impegno volontario dei nonni milanesi nell'organizzazione di attività di intrattenimento
presso oltre 40 scuole dell'infanzia del territorio.
I risultati raggiunti dopo il primo anno di monitoraggio sono stati presentati giovedi 4
dicembre a Milano in occasione del convegno “Nuovi modelli per partnership profitnonprofit”.
Realizzare e misurare progetti multistakeholder: una proposta metodologica
Le priorità sociali che caratterizzano la società di oggi non possono essere risolte con
iniziative individuali: solo un approccio multistakeholder, che metta al centro del processo
la soluzione del problema e non chi lo individua, può davvero fare la differenza nel favorire
una crescita sostenibile.
In una logica di collaborazione multistakeholder, gli attori coinvolti:
devono rappresentare gli interlocutori prioritari e strategici per il raggiungimento
dell'obiettivo sociale individuato
partecipano, alla pari, alla costruzione di tutte le fasi di sviluppo e realizzazione del
progetto, pur partendo dalla “spinta” di un “attivatore” autorevole e forte che assuma la
responsabilità e la titolarità dell'intervento che si andrà a costruire
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suddividono il progetto in fasi per poterne monitorare e misurare più facilmente
performance, risultati e impatti sulla comunità e sulle popolazioni di riferimento, utilizzando
di volta in volta gli strumenti di analisi e approfondimento più adatti
stabiliscono, per ciascuno step del progetto, i relativi ruoli e responsabilità, e
chiariscono contributi ed elementi premianti che ciascun interlocutore dovrà aspettarsi
lavorano in un’ottica di condivisione e contaminazione culturale delle rispettive
conoscenze e competenze
mettono al centro la comunicazione, perchè l'esperienza maturata possa essere
accessibile e replicabile.
Centralità del problema, sensibilità, mobilitazione, pianificazione, monitoraggio,
responsabilità, chiarezza, condivisione, comunicazione e replicabilità: queste le 10 parole
chiave da utilizzare per sviluppare progetti multistakeholder di successo.
L'applicazione pratica: il progetto “Arrivano i nonni”
Il contesto
Ogni mese a Milano oltre 94.000 pensionati svolgono attività di volontariato e aiuto
informale, dedicandovi una media di 32 ore mensili. Il tasso di copertura dei servizi forniti
da centri ricreativi è però solo del 6%: ciò significa che gli anziani milanesi hanno energie
e creatività che il sistema non è in grado di capitalizzare, dimostrando di essere
potenzialmente un’importante risorsa di un welfare di rete.
Contestualmente, le scuole dell’infanzia hanno sempre meno risorse economiche per
garantire la compresenza degli educatori e la varietà dell’offerta educativa.
Obiettivi, attività, numeri
Il progetto “Arrivano i nonni” è partito come intervento di coesione sociale e di volontariato
attivo nelle scuole facendo leva sui talenti degli over 60 per rafforzare la crescita dei
bambini.
L’iniziativa si è da subito strutturata come una partnership multistakeholder, cui hanno
partecipato: Fondazione Sodalitas, reale “attivatore” del progetto grazie al programma
Sodalitas Social Innovation; Terna e Arci Milano, che si sono incontrate proprio in questo
contesto e portatrici rispettivamente dell’interesse a realizzare un progetto d’impatto a
sfondo educativo nel territorio di Milano e dell’esperienza sul campo, maturata in oltre 10
anni di attività; il Comune di Milano, come istituzione territoriale di riferimento; SDA
Bocconi School of Management, portatrice delle competenze scientifiche per definire una
metodologia adatta ad un monitoraggio dei benefici in ottica di replicabilità dell’iniziativa.
I nonni volontari selezionati nella fase di reclutamento e selezione sono stati assegnati alle
scuole dell’infanzia coinvolte secondo criteri di prossimità geografica e di coerenza del
talento offerto con le esigenze e le risorse di ogni singola struttura.
A ciascun volontario - una volta creato questo matching - è stato chiesto di mettere a
disposizione una o più mattine alla settimana per svolgere la propria attività, in modo da
poter creare con i bambini relazioni sistematiche e durature.
Ciascun nonno, prima dell’avvio delle attività, è stato presentato al collegio dei docenti e
alle famiglie dei bambini.
Nel corso dell’anno scolastico 2013-2014 15 nonni hanno proposto attività di
intrattenimento e laboratorio presso 12 scuole dell’infanzia, raggiungendo 720 bambini.
La cura dell’orto e la costruzione di piccoli attrezzi da giardinaggio, l’apprendimento delle
lingue, il riciclo creativo degli oggetti, la raccolta differenziata, le danze di gruppo e la
pittura: queste alcune delle attività proposte durante gli ultimi 12 mesi.
Processo
Per raggiungere gli obiettivi stabiliti, i partner, sotto la supervisione scientifica di SDA
Bocconi, hanno ideato un processo di monitoraggio di tipo induttivo per misurare il valore
generato in termini di:
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input, per rispondere alla domanda “Quali risorse investire per raggiungere gli scopi
prefissati?”
output, per rispondere alla domanda “Quali attività concrete implementare per
arrivare allo scopo?”
impact, per rispondere alle domande “Quali i benefici (individuali ed organizzativi) da
generare nei comportamenti, nella qualità della vita, nel miglioramento dei servizi offerti?”,
nonché “Quali cambiamenti concreti produrre nei gruppi di individui coinvolti?”.
Nel 2015, quando verrà messa in atto la fase successiva del progetto, il monitoraggio e la
valutazione permetteranno di definire linee guida per la replicabilità dell'intero processo.
Per il monitoraggio del progetto sono stati utilizzati questionari (in fase di avvio), focus
group con educatrici, nonni e bambini (in fase di avvio, di sviluppo e conclusione del primo
periodo di attività) e interviste in profondità con le direttrici scolastiche e i nonni coinvolti
nel progetto.
Questi strumenti, affiancati ad una SWOT analysis del progetto - che ha messo in luce i
punti di forza, di debolezza, le minacce e le opportunità - hanno permesso di rilevare i
punti critici degli interventi e di suggerire azioni correttive con cui renderli più efficaci.
“Questo monitoraggio sui beneficiari finali – ha dichiarato Fulvio Rossi, CSR Manager di
Terna - rappresenta un esempio concreto di come Terna si impegna nel sociale: non con
un semplice sostegno economico ma mettendo a disposizione strumenti per conoscere e
migliorare. In questo caso – ha proseguito Rossi – un monitoraggio che indagasse gli
impatti effettivi sui beneficiari ci è sembrato lo strumento migliore per capire, assieme a
tutti i nostri partner, la reale capacità del progetto di creare valore”.
“Per un'associazione come Arci Milano è molto importante avere gli strumenti per
misurare il valore creato dal coinvolgimento di cittadini attivi, come nel caso di questo
progetto” ha aggiunto Emanuele Patti, Presidente di Arci Milano. “La collaborazione con
enti con competenze diversificate e specifiche ci ha permesso di sviluppare e acquisire
strumenti e tecniche utili al lavoro di monitoraggio che permettono inoltre di comunicare
con chiarezza e semplicità l'utilità sociale del progetto, obiettivo fondamentale per le
associazioni di promozione sociale. Questa esperienza costituisce per noi un modello
nella definizione dei rapporti tra profit e non-profit, stabilendo ruoli precisi che valorizzino le
competenze di tutti i soggetti coinvolti”.
Conclusioni
I questionari, i focus group e le interviste in profondità condotte su tutte le popolazioni dei
beneficiari del progetto hanno messo in luce che:
i nonni hanno raccontato con soddisfazione l’esperienza e se ne sono sentiti
coinvolti sia emotivamente che concretamente
le educatrici si sono sentite aiutate e sostenute dai nonni, che si sono rivelati degli
interlocutori competenti e sensibili
i bambini hanno individuato nei nonni delle figure di riferimento positivo, di cui
conservano un ricordo chiaro, di cui ripetono l’esempio e di cui parlano anche nel contesto
familiare.
Il monitoraggio che ha accompagnato il progetto ha permesso di rendere più efficaci
soprattutto le fasi di reclutamento, motivazione e formazione dei nonni, la
standardizzazione dei laboratori e il rapporto tra volontari e personale scolastico. I
momenti di valutazione e riflessione in cui il progetto si è articolato hanno infatti
evidenziato come critiche: il periodo di tempo di coinvolgimento dei nonni presso la singola
classe (non sempre sufficientemente lungo) e la scarsa comunicazione del progetto
stesso.
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“Arrivano i nonni” è un progetto realizzato da Terna e Arci Milano in collaborazione con
Fondazione Sodalitas e il Comune di Milano e con scientifico di SDA Bocconi School of
Management.
Approfondimenti: Il volume “Arrivano i nonni” con le testimonianze di nonni ed educatrici
http://www.vita.it/welfare/anziani/progetti-multistakeholder-come-farli-con-successo.html
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ESTERI
Del 5/12/2014, pag. 18
La rivolta di New York contro il razzismo
Obama: “A volte la legge non è uguale per
tutti”
Cortei dopo il verdetto sull’agente che ha soffocato un uomo di colore. A Phoenix
una pattuglia uccide un afroamericano disarmato
ALBERTO FLORES D’ARCAIS
NEW YORK .
Migliaia in strada con le braccia alzate, blocchi del traffico per le vie di Manhattan, quasi
cento arresti e il disperato grido di morte di Eric Garner («I can’t breathe», non riesco a
respirare) ripetuto ritmicamente da centinaia di manifestanti davanti ai poliziotti schierati.
Non si placano le proteste dopo la decisione del Grand jury di Staten Island, che ha
escluso il processo per Daniel Pantaleo, l’agente del New York Police Department che nel
luglio scorso aveva “soffocato” il venditore ambulante durante il fermo per contrabbando di
sigarette. Da Times Square al ponte di Brooklyn, dal Village alnaia l’Upper West Side sono
stati migliaia i newyorchesi che hanno deciso di protestare contro il verdetto nella serata e
nella notte di mercoledì e ancora ieri mattina. In modo pacifico, come avevano chiesto il
sindaco Bill de Blasio e i familiari di Garner. Pochi i momenti di tensione — le decine di
arresti sono soprattutto per interruzione del traffico — molte le polemiche. E un hashtag
(#CrimingWhileWhite), in cui centi- di bianchi di ogni angolo d’America raccontano le loro
esperienze di “piccoli reati” non puniti grazie al colore della pelle, che spopola su Twitter.
Lanciato da Jason Ross, sceneggiatore dello show del popolare comico Jimmy Fallon,
l’hashtag ha aperto in Rete un confronto-scontro sui privilegi che la comunità bianca gode
quando ha a che fare con ordine pubblico e poliziotti.
Il giorno dopo la sentenza, mentre il presidente Obama ammette che «a volte la legge non
è uguale per tutti» e da Phoenix in Arizona giunge la notizia di un altro afroamericano
disarmato ucciso da un agente, tengono banco soprattutto le polemiche. C’è chi considera
come primo responsabile — e ne chiede le dimissioni — Bill Bratton, popolare capo della
polizia ai tempi di Rudolph Giuliani e della lotta alla piccola criminalità, richiamato a New
York da De Blasio proprio per gestire uno dei corpi di polizia più complicati degli States.
«Se non affronti i piccoli reati non previeni quelli grossi», diceva Bratton al suo ritorno nella
Grande Mela. Piccoli reati come il contrabbando, quello di cui era accusato Garner e che
gli è costato la vita. C’è chi punta il dito contro l’attuale primo cittadino, come l’ex sindaco
di ferro Giuliani che accusa in modo plateale il suo successore («contribuisce a creare
un’atmosfera di protesta e di violenza»), e chi lo difende, come lo stesso Obama.
Del 5/12/2014, pag. 21
La battaglia di Grozny infuoca la Cecenia
terrore e venti morti
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I guerriglieri islamici attaccano la polizia. Spari in strada Allarme al
Cremlino. Il dittatore Kadyrov: “Tutto sotto controllo”
NICOLA LOMBARDOZZI
C’è un’altra guerra che Putin stava forse un po’ trascurando, e che si riaccende di colpo
nel pieno della crisi più difficile della Russia post sovietica. Nel giorno in cui il presidente
lancia un appello per uscire dal tunnel delle sanzioni sul caso Ucraina, la Cecenia esplode
con una azione terroristica degna degli anni più cupi. Una battaglia per le strade della
capitale Grozny tra poliziotti e guerriglieri islamici armati di lanciagranate e fucili
mitragliatori ha seminato il panico tra la popolazione e messo in allarme il Cremlino. Alla
fine ci sono dieci poliziotti e altrettanti «terroristi» morti, oltre a un paio di civili e a una
trentina di feriti piuttosto gravi.
Ma il bilancio più grave è quello della paura ritornata i russi già piuttosto in agitazione per il
disastro economico in atto. Volato in aereo a Mosca per fare rapporto a Putin, quando la
sparatoria era ancora in corso, l’entusiasta presidente-dittatore ceceno Ramzan Kadyrov,
ha passato la giornata a spiegare alla tv che «la situazione è sotto controllo». Ma Mosca e
le altre grandi città di Russia sono in evidente stato di allerta; i controlli della polizia
asfissianti e meticolosi; tornano nei treni e nei locali pubblici le raccomandazioni a stare
attenti, guardarsi attorno e lanciare l’allarme al minimo sospetto.
L’attacco è cominciato nelle prime ore della notte sulla via Nikolaeva. A un passo dal viale
Putin, asse centrale della capitale, dedicato da Kadyrov al suo «idolo personale». Un
gruppo imprecisato di guerriglieri ha ucciso tre poliziotti di pattuglia e ha preso possesso
con le armi di due edifici pubblici, “la Casa della Stampa” e la scuola media “numero 20”.
Gli spari e le esplosioni hanno scatenato una ciclone di notizie vere e false ma comunque
terrorizzanti. Una radio cecena ha completato l’opera parlando di «un migliaio di terroristi
in armi per le strade della città».
Kadyrov ha eseguito la antica direttiva del Cremlino: «La rivolta cecena va minimizzata e
resa invisibile al mondo». Ha ordinato un blitz massiccio e sanguinoso e, prima ancora che
lo scontro finisse, è partito per Mosca a mostrare sorriso e sicurezza.
Nel mondo dei siti web caucasici l’azione viene attribuita agli eredi di Doku Umarov,
l’emiro del Caucaso, ucciso in combattimento dalle truppe speciali russe sei mesi fa. A
guidarle ci sarebbe il figlio, candidato a ripetere le gesta del padre. L’operazione sarebbe
una vendetta contro la recente autorizzazione data alla polizia cecena di perquisire tutte le
donne islamiche che indossino il velo o il foulard. Ma si indaga anche sulla coincidenza
con il discorso di Putin sull’economia e la vicinanza con date simboliche come l’11
dicembre (inizio prima guerra cecena nel 1994) e il 12 (festa della costituzione russa). Di
tutte le spiegazioni, la meno credibile appare quella ufficiale, votata dal Parlamento
ceceno riunito ieri in seduta straordinaria: «Un complotto di Obama, della Merkel e delle
altre potenze occidentali contro il nostro amato presidente Putin». Uno zelo eccessivo che
Putin non ha gradito e che ha ignorato nelle sue dichiarazioni ufficiali. Il problema è molto
diverso. La guerriglia cecena è viva e fa ancora paura.
del 05/12/14, pag. 14
Putin: l’Occidente vuole distruggerci
Duro discorso alla nazione russa: «Immaginano per noi la fine della
Jugoslavia» Riesplode il terrorismo nel Caucaso. I ceceni attaccano il
centro di Grozny: 20 morti
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MOSCA Le profonde difficoltà economiche e una nuova crisi terroristica nel Caucaso
hanno spinto ieri Vladimir Putin a ricorrere a toni particolarmente duri nel suo intervento
annuale davanti al Parlamento.
La Russia, secondo il suo presidente, è al centro di una manovra di «contenimento»
esattamente come l’Urss durante la Guerra fredda; e quella dell’Ucraina è solamente una
scusa per chi «avrebbe voluto vedere uno scenario jugoslavo di collasso e dissoluzione»
per il Paese.
Fissando intensamente la platea che lo ascoltava in religioso silenzio, Vladimir
Vladimirovich è arrivato al punto di paragonare indirettamente i nemici di oggi a Hitler:
«Voleva distruggere la Russia e ricacciarci oltre gli Urali. Tutti dovrebbero ricordare come
è andata a finire».
A dimostrazione delle sue tesi, Putin ha citato esplicitamente il progetto americano di uno
scudo antimissilistico che, effettivamente, cambierebbe l’equilibrio delle forze nucleari. E,
secondo il presidente, sarebbe dannoso anche per gli Stati Uniti perché fornirebbe loro
una «pericolosa illusione di invulnerabilità».
Ma è indubbio che la crisi economica dovuta al calo del prezzo di petrolio e gas, oltre che
alle sanzioni, si fa sentire pesantemente (ieri anche Saipem ha ufficialmente annunciato la
fine del progetto South Stream).
Putin ha dunque proposto una serie di mosse volte a rilanciare l’economia, solo che le ha
accompagnate con la minaccia di ricorrere a «misure amministrative» contro gli
speculatori. E questo ha innervosito ulteriormente i mercati facendo scendere ancora il
rublo. Tanto che immediatamente la Banca di Russia si è affrettata a precisare che per
sostenere la moneta adopererà solo i classici strumenti economici usati da tutti gli istituti di
emissione.
Il presidente vorrebbe convincere tutti coloro che hanno esportato capitali in questi anni a
rientrare e investire, anche per sostituire gli stranieri spaventati dalla crisi. Ecco quindi un
prossimo condono generale per il rientro dei fondi, la promessa di non toccare le tasse per
quattro anni.
Putin ha poi annunciato una serie di «disposizioni» miranti a far riprendere il Paese e a
rimpiazzare la tecnologia che non verrà più dall’estero con risorse interne.
Un atteggiamento che non è nuovo in Russia e che si richiama alle pratiche del passato:
quando si credeva di poter piegare l’economia a colpi di «ukase», ordini perentori del
capo. Oggi, in un Paese che è molto più aperto di una volta, tutto ciò appare agli
economisti una pia illusione.
A Putin ha risposto il segretario di Stato americano John Kerry, spiegando che «nessuno
vuole vedere la Russia isolata a causa delle sue stesse azioni». La Casa Bianca sembra
stendere una mano verso il Cremlino: «Basterebbe che aiutasse a calmare le acque
turbolente» al confine con l’Ucraina.
Tra ribelli e governo di Kiev dovrebbe scattare ora una vera tregua, ma intanto per Mosca
sembra riaprirsi il fronte del Caucaso.
Proprio nella Cecenia pacificata con la forza, ieri un gruppo di guerriglieri che aveva
assalito il centro di Grozny subito prima del discorso di Putin è stato respinto. Bilancio:
venti morti e decine di feriti.
Fabrizio Dragosei
Del 5/12/2014, pag. 6
Machado, una cospiratrice incallita
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Venezuela. L'accusa: la cricca che tentò di far fuori Chavez nel 2002 ci
ha riprovato con Maduro
Geraldina Colotti
Maria Corina Machado è accusata di cospirazione. La magistratura venezuelana le ha
contestato il delitto contemplato nell’articolo 132 del Codice penale: “Chiunque, dentro
o fuori il paese, cospiri per distruggere la forma politica repubblicana che la nazione si
è data, sarà punito con la detenzione da 8 a 16 anni”, recita la legge, precisando che
“nella stessa condanna incorrerà il venezuelano che chieda l’intervento straniero negli
affari politici interni o concorra a disturbare la pace della Repubblica o inciti alla guerra
civile”. Stesse accuse per un gruppo di sei persone, personaggi politici, imprenditori e alti
funzionari. Tutti avrebbero messo a punto un piano eversivo con l’apporto di Machado e di
figure esterne, come l’attuale ambasciatore degli Usa in Colombia, Kevin Whitaker. Deputati e leader del Partito socialista unito (Psuv) lo avevano denunciato il 28 maggio. Uno
schema già visto durante il golpe contro l’allora presidente Hugo Chavez, nel 2002. Anche
allora, la filoatlantista Machado era in prima fila, con il leader di Voluntad Popular Leopoldo Lopez e all’ex candidato presidenziale Henrique Capriles. Machado è stata tra i firmatari del documento che ha abolito la Costituzione e le garanzie democratiche durante il
governo-lampo dell’imprenditore Carmona Estanga: prima che Chavez venisse riportato in
sella a furor di popolo.
«Proteste, ingovernabilità, azioni nel metro, lotta fino alla fine per annientare Maduro. Gli
altri cadranno da soli», dice Machado nelle sue conversazioni. E l’ex ambasciatore venezuelano all’Onu, Diego Arria, consiglia di «approfittare del clima dell’Ucraina» per spazzare via il governo. Un tentativo che l’opposizione oltranzista ha perseguito per mesi animando uno scontro violento che ha provocato 43 morti e centinaia di feriti. Un conflitto in
cui hanno agito gruppi nazisti legati al paramilitarismo colombiano e al grande business
del contrabbando oltrefrontiera: come quello di Lorent Saleh, in carcere da qualche mese.
Gruppi che progettavano omicidi mirati e attentati alle discoteche. Un paramilitare colombiano, Leiva Padilla, è accusato di aver diretto la banda che ha ucciso il giovane deputato
venezuelano Robert Serra, a capo di una commissione parlamentare che indagava su
Saleh. Padilla ha chiesto asilo politico in Colombia e Caracas ha chiesto l’estradizione.
Nella sua trasmissione settimanale, il presidente del Parlamento, Diosdado Cabello, ha
mostrato un filmato in cui si vede “un funzionario dell’ambasciata nordamericana” aspettare Machado nei pressi del Ministerio Publico, dov’è arrivata insieme a esponenti di partito e militanti. Gli Usa si sono già fatti sentire per appoggiare Machado e per chiedere la
scarcerazione di Leopoldo Lopez, ancora in carcere con l’accusa di aver organizzato le
violenze di piazza di febbraio. E ora, Cabello ha denunciato che il leader della destra
sarebbe legato anche a un’inchiesta per frode e riciclaggio di denaro sporco attraverso un
personaggio originario di Singapore, ricercato dall’Interpol. Caracas ha reagito con sdegno
all’inchiesta sull’Indice di percezione della corruzione dell’Ong Transparency International
che mette ai primi posti Venezuela e Paraguay: un’indagine senza rigore metodologico –
ha detto il governo bolivariano. E Cabello ha accusato gli Usa di ospitare Nelson Mezerhane, banchiere ricercato per aver truffato lo stato e i risparmiatori, che a Miami disporrebbe di 7 imprese per un capitale di 4,1 milioni di dollari.
Dopo la caduta del prezzo del petrolio e la decisione dell’Opec di non ridurre la produzione, Maduro ha annunciato che il bilancio per i progetti sociali non verrà tagliato, mentre
l’Iva per i consumi di lusso aumenterà del 15%. Verranno diminuiti gli stipendi di alti funzionari, a partire dal suo. In questi giorni, è stato in Venezuela anche l’ex presidente
dell’Uruguay José Mujica (nella foto reuters) per discutere accordi sull’estrazione di petrolio nell’Orinoco. Mujica ha accusato gli Usa per l’uso della devastante tecnica estrattiva del
fracking.
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Del 5/12/2014, pag. 2
È scontro, filotedeschi contro gli acquisti ma
Draghi da gennaio andrà avanti
Durissima discussione al vertice della Banca centrale: una minoranza di
6-7 governatori guidati da Weidmann si ribella alla linea del presidente,
ma lui non si ferma. La stampa tedesca moltiplica gli attacchi alla sua
gestione
FEDERICO FUBINI
Il treno di Mario Draghi è partito e ormai difficilmente si fermerà prima di arrivare a
destinazione. Non lo farà neanche se qualcuno a bordo continua a contestare il
macchinista. È stata tutt’altro che semplice la riunione del consiglio direttivo della Bce,
secondo alcuni. Secondo altri è di nuovo deflagrata in pieno la contrapposizione fra lo
stesso Draghi, presidente della Banca centrale europea, e quello della Bundesbank Jens
Weidmann. Sull’esito però ognuno dei banchieri centrali che ieri hanno discusso nella
nuova sede della Bce alla Grossmarkhalle, sul Meno, ormai ha pochi dubbi. L’acquisto su
scala massiccia di titoli di Stato da parte della Banca centrale europea appare sempre più
inevitabile. E vicino nel tempo, per la verità: può andare ai voti del consiglio dei governatori
già il 22 gennaio prossimo, se la trama della deflazione in Europa continuerà a dipanarsi
come sta facendo. Ieri Draghi stesso ha ricordato che dallo scorso giugno il prezzo del
petrolio è caduto del 30% per gli europei, malgrado l’impennata del dollaro. Si alleggerirà
la bolletta energetica per grandi importatori come la Germania, l’Italia o la Spagna, e ciò
non può che favorire un po’ di ripresa. Nel frattempo però il vuoto d’aria nelle quotazioni
dell’energia cancellerà fin da subito il minimo d’inflazione che resta in Europa: la stessa
Bce ormai teme che fra dicembre e gennaio la dinamica dei prezzi in area-euro scivoli
sottozero, dunque i tempi per contrastare la deflazione si faranno sempre più stretti.
La Bce è stata creata nel 1998 per garantire la stabilità dei prezzi, non per permettere che
questi si avvitino fino ad aumentare sempre di più il peso degli interessi sui debitori. «Non
perseguire il nostro mandato sarebbe illegale», ha tagliato corto ieri Draghi nella
conferenza stampa seguita al consiglio. Non tutti concordano sul come riuscirci. Nella
riunione di ieri, hanno preso le distanze da Draghi sei o sette banchieri centrali sui
ventiquattro dell’organismo decisionale di Francoforte. Attorno a Weidmann sono schierati
con ogni probabilità Sabine Lautenschlaeger, esponente tedesco nell’esecutivo della Bce,
il governatore olandese Klaas Knot, i governatori di Lussemburgo, Estonia e Lettonia e il
lussemburghese dell’esecutivo di Francoforte, Yves Mersch. Meno chiusa sarebbe la
posizione del governatore austriaco Ewald Nowotny, mentre il finlandese Erkki Liikanen è
ormai pronto a votare con Draghi e con la gran parte 24 dei componenti del vertice della
Bce. La minoranza guidata da Weidmann non è legalmente in grado di bloccare il lancio di
un piano di acquisti di titoli di Stato per circa 500 miliardi di euro. E la maggioranza ora ha
più di una ragione per pensare di muovere il prossimo passo già il 22 gennaio prossimo.
Non c’è solo il brusco gradino al ribasso dei prezzi legato al petrolio, che intorno a
Capodanno produrrà la stima d’inflazione più preoccupante di sempre. Pochi giorni più
tardi, forse già il 12 gennaio, è attesa una sentenza decisiva della Corte di giustizia
europea. Riguarderà la legalità stessa della svolta che ha arginato la crisi nel 2012: allora
Draghi creò un programma di acquisti di titoli dei Paesi in crisi da parte della Bce,
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condizionato all’intervento della Troika. Quel piano non è mai stato attivato, ma da allora il
semplice fatto che esista ha sedato i mercati. Ora i giudici del Lussemburgo daranno con
ogni probabilità il loro via libera, ma la partita non è chiusa per questo: a quel punto la
Corte di giustizia tedesca da Karlsruhe minaccia di ingiungere alla Bundesbank di non
partecipare a quel programma. Senza l’apporto dell’azionista di maggioranza — la
Germania — la rete di sicurezza stesa dalla Bce sotto l’euro nel 2012 rischia tradire
qualche buco di troppo. È anche per questo che per Draghi e la maggioranza
dell’Eurotower ormai il tempo stringe. Il presidente italiano sembra ormai deciso a tenere
in Germania una linea ferma e prevedibile, segnalando le sue scelte fino a rendere
inaccettabile il costo di una marcia indietro. Lo si è visto in queste ore. Quando il mercato
ha capito che Draghi non avrebbe lanciato i nuovi acquisti di titoli già da ieri, l’euro è
risalito sul dollaro e per poche ore i titoli bancari hanno oscillato paurosamente. A Piazza
Affari Unicredit, Mps, Ubi e il Banco Popolare — istituti che insieme hanno accumulato
titoli di Stato italiani per centinaia di miliardi — sono arrivati a perdere per qualche minuto
oltre il 4%. Nel frattempo, Draghi viene messo sotto accusa in Germania con un ogni sorta
di argomenti: vorrebbe far pagare ai tedeschi le eventuali perdite future di un default
italiano, immagazzinando il debito di Roma all’Eurotower; esproprierebbe i risparmiatori
con tassi troppo bassi; alimenterebbe una bolla immobiliare che colpisce le giovani
famiglie tedesche. Non è chiaro però che le grandi imprese in Germania siano altrettanto
ostili. La lunga caduta dello yen, alimentata dalla Banca del Giappone, crea una minaccia
imminente per l’industria tedesca: i due Paesi competono sulle auto di lusso o sui grandi
sistemi industriali, ma solo Tokyo per ora può contare sui frutti di una svalutazione
competitiva. Una svolta della Bce che permetta al made in Germany di correre ad armi
pari, in fondo, potrebbe non risultare così indigesta a Berlino.
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INTERNI
Del 5/12/2014, pag. 5
Renzi gioca alla battaglia navale
Spese militari. La commisione difesa della Camera: sì all'acquisto di 15
navi da guerra con 10 miliardi di euro
Giulio Marcon
Ieri la Commissione Difesa (dopo la Commissione Bilancio) della Camera dei Deputati ha
dato il via libera al nuovo programma di una quindicina di navi militari –dotate di armamenti di tutto punto– che nei prossimi 19 anni ci portera’ a spendere piu’ di 5,4 miliardi di
euro. Si tratta di pattugliatori –corredati di mitragliatrici, cannoncini, lanciasiluri ed altri raffinati sistemi d’arma– che si aggiungono al programma delle fregate FREMM iniziato una
decina di anni fa e che anche questo ci costa più di 5 miliardi. In tutto, oltre 10 miliardi di
euro per una “battaglia navale” senza senso, finanziata con i soldi presi dai fondi dello “sviluppo economico”: fondi che potrebbero esse più utilmente spesi per sostenere i settori
industriali in crisi del nostro paese. Soldi che potrebbero essere utilizzati per rilanciare le
imprese che rischiano di chiudere e per gli investimenti nel campo delle energie rinnovabili, nella mobilità sostenibile, nelle nuove tecnologie.
Tra l’altro tutti questi soldi –che si trovano, per l’appunto, sui capitoli di spesa del ministero
dello sviluppo economico– non vengono mai contabilizzati (come anche i fondi stanziati
per le missioni militari all’estero, un miliardo l’anno) come spese della difesa e questo
porta a sottovalutare la spesa militare nel nostro paese. Come ha efficacemente dimostrato l’ultimo rapporto della campagna Sbilanciamoci (www.sbilanciamoci.org) investiremo nel 2015 per le spese militari ben 23,5 miliardi di euro, solo qualche milione in meno
rispetto al 2014: nonostante la spending review, la spesa militare non viene sostanzialmente intaccata. Agli oltre 10 miliardi di spese per le navi militari, vanno aggiunti i 13
miliardi per gli F35. E’ vero che ci sono mozioni che chiedono il dimezzamento della spesa
per i cacciabombardieri, ma per ora la Pinotti fa finta di niente.
Dice la ministra che bisogna aspettare il libro bianco sulla difesa (ancora in alto mare, si
potrebbe dire) per definire i sistemi d’arma di cui abbiamo bisogno. Però, la Pinotti non ha
aspettato il libro bianco per imporre una spesa di 5,4 miliardi per questa nuova “battaglia
navale” nel mediterraneo. Dicono al governo che queste navi serviranno anche al
soccorso,all’anti-inquinamento, all’aiuto umanitario, a salvare le vite dei migranti nel mediterraneo. Non si capisce a cosa servano lanciasiluri e cannoni per salvare le vite dei
migranti: una vera ipocrisia. Se sommiamo la spesa degli F35 a quella delle FREMM e alla
spesa di queste nuove navi e di altri sistemi d’arma (come i sommergibili) arriviamo a sforare i 25 miliardi di euro. Se poi mettiamo insieme tutti gli investimenti pluriennali nei
sistemi d’arma (Eurofighter, blindati Vbm, ecc) arriviamo alla stratosferica cifra di 43
miliardi di euro. Una spesa colossale e ingiustificata. “Ma a chi dobbiamo dichiarare
guerra?”, ci sarebbe da chiedersi. Proprio per questo Sinistra Ecologia e Libertà e Movimento Cinque Stelle hanno votato contro il nuovo programma di riarmo.
Tra le due portaerei (la Cavour e la Garibaldi), le fregate FREMM, i quattro sommergibili
U-212, la quindicina di nuovi pattugliatori siamo ben attrezzati per una inutile “battaglia
navale” che fa contenti ammiragli e capitani di vascello (e il business dell’industria militare), ma che impoverisce drammaticamente un’altra “battaglia” ben più importante: quella
del lavoro e della lotta alla povertà.
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Del 5/12/2014, pag. 17
Casaleggio: fuori tutti i dissidenti
Il guru incontra il Direttorio a Montecitorio e annuncia la linea dura: “Vanno isolati
nel territorio” L’ala critica diserta l’assemblea con i cinque capi scelti da Grillo e
punta sul raduno di Pizzarotti
TOMMASO CIRIACO
A Montecitorio è l’una passata. Rocco Casalino corre in buvette e ordina qualche panino
da portare via. Ordina solo alcuni ingredienti - melanzane, pomodoro, senape - omaggio
alla nuova dieta vegana che ha conquistato il cerchio magico grillino. Poco prima,
nell’elegante studio di Luigi Di Maio, ha fatto capolino in gran segreto Gianroberto
Casaleggio. Cappotto pesante scuro e berretto con i classici riquadri scozzesi, il guru
torna a Roma dopo lunghi mesi di assenza. E in compagnia del direttorio (che presto si
allargherà a qualche senatore) lascia trapelare la linea: «I dissidenti? Li vorrei fuori, magari
se ne andassero! Isoliamoli sul territorio». Come? Disertando il raduno convocato
domenica da Federico Pizzarotti. E cambiando la natura del Movimento, fino a farlo
somigliare parecchio a un partito. Nel frattempo, si progetta un nuovo mega raduno contro
gli scandali capitolini che dovrebbe tenersi già domani a Roma.
Lo sforzo dei cinque scudieri che decideranno pure chi andrà nei talk - mira a frenare la
furia dello staff milanese. È Di Maio, zoppicante a causa di una storta, a suggerire il
percorso in modo da evitare strappi. La road map pianificata con Roberto Fico (che avrà la
delega ai meet up, mentre alla comunicazione andrà Alessandro Di Battista), punta alla
riconquista del territorio, funestato da microscissioni (ieri in Toscana). Prosciugare il
dissenso silenziosamente, insomma. «Consigliere dopo consigliere».
A sera i cinque si presentano finalmente in assemblea. I falchi plaudono alla svolta. «In
questo momento noi non abbiamo nessun potere sui post che escono sul blog», ammette
Fico. Cento, tra deputati e senatori, assistono all’incoronazione. Non partecipano invece
parecchi dissidenti, protesta silenziosa contro il nuovo corso. E non mancano momenti di
tensione, come quando Cristian Iannuzzi minaccia le dimissioni da deputato. L’ala critica,
in ogni caso, mostra parecchie crepe e solo il raduno di Federico Pizzarotti - domenica a
Parma - potrà fissare una linea politica comune. «Propongo che venga il direttorio»,
rilancia Giulia Sarti. «Non ci saremo, vogliamo evitare strumentalizzazioni», la gela Fico,
come riporta l’Adnkronos. Non dovrebbe esserci neanche Artini, affossato dallo scivolone
a Piazzapulita. La ferita della sua espulsione, però, non sembra rimarginata. E quando
l’epurato interviene in commissione Difesa, la sua collega Tatiana Basilio scoppia in
lacrime.
Del 5/12/2014, pag. 16
Intercettazioni il Senato salva Azzollini
dell’Ncd È polemica nel Pd
Il senatore è coinvolto nell’inchiesta sugli appalti del porto di Molfetta
Decisivi i voti di democratici e Lega
LIANA MILELLA
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Vince Azzollini, perde la magistratura di Trani. Il potente ex sindaco di Molfetta, prima
senatore Pdl ora senatore Ncd, la spunta grazie ai voti del Pd, e dopo un braccio di ferro
durato quasi un anno. Niente intercettazioni, l’aula di palazzo Madama nega
l’autorizzazione a utilizzarle. Sarebbero preziose per attribuire le giuste responsabilità
nello scandalo del porto “fantasma” di Molfetta, 150 milioni di euro ottenuti, lavori affidati
alla Cmc di Ravenna colosso delle coop rosse, ma poi utilizzati per far quadrare il bilancio
del Municipio, visto che i fondali della cittadina pugliese sono talmente a rischio per via dei
residuati bellici da rendere impossibile qualsiasi lavoro. Chi ipotizzò l’opera e chiese i
finanziamenti sapeva e tacque. Quindi deve rispondere di una sfilza di reati,
dall’associazione a delinquere all’abuso d’ufficio, dalla truffa allo Stato alla frode in
pubbliche forniture. Le intercettazioni sarebbero preziose, ma andranno al macero. Sul Pd
aleggia il sospetto che il salvataggio, più che per Azzollini, sua per la Cmc.
Una maggioranza anomala sancisce la “morte” processuale delle telefonate. D’accordo il
Pd, Forza Italia, Ncd, e pure la Lega. Contro M5S e Sel. Finisce 160 a 36, e tra chi dice no
ci sono anche molti senatori del Pd, tra cui Laura Puppato che mette a nudo l’evidente
contraddizione. Proprio mentre fa scandalo l’inchiesta su mafia e appalti a Roma, col Pd
costretto al commissariamento, ecco che lo stesso Pd toglie alla magistratura uno
strumento di prova. Con una motivazione burocratica, le intercettazioni sono state fatte ma
i magistrati non hanno preventivamente chiesto l’autorizzazione. Una legge assurda,
perché è ovvio che se ti avviso che sto per intercettarti, tu non parlerai più al telefono. Dice
Puppato: «Trovo questa decisione profondamente inadeguata a rispondere alla forte
richiesta di trasparenza rivolta a chi svolge ruoli politici. Una decisione sbagliata, e per
questo con altri colleghi del Pd voto a favore dell’utilizzo delle intercettazioni». Nichi
Vendola affida a un tweet ironico la sua rabbia: «Che fa ora Renzi? Azzera il Pd di palazzo
Madama?». Duro M5S con Enrico Cappelletti: «Renzi e Salvini vanno in tv a parlare di
lotta alla corruzione, nei fatti Pd e Lega in Parlamento vanno a braccetto per non
permettere un completo svolgimento delle indagini della magistratura».
Ci si aspetterebbe un dibattito acceso, lungo e sofferto, invece bastano solo 25 minuti —
dalle 9 e 59 alle 10 e 24 — per liquidare una pratica che, tra escamotage per ottenere
rinvii come la richiesta di altri documenti alla magistratura, va avanti dal 21 gennaio,
quando la magistratura di Trani ha chiesto di essere autorizzata a utilizzare 10
intercettazioni a carico del senatore Azzollini, il presidente della commissione Bilancio. In
aula non c’è Felice Casson, trattenuto al Copasir, primo relatore sul caso, giunto
addirittura a sospendersi dal Pd quando la sua linea, sì deciso alle intercettazioni, è stata
platealmente smentita dal capogruppo nella giunta per le autorizzazioni Giuseppe Cucca,
favorevole invece alla linea opposta, quella del diniego perché le regole sarebbero state
violate. Azzollini adesso è tranquillo, la Cmc pure.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 05/12/14, pag. 5
«Io ti fornisco l’azienda da usare»
Il boss e gli imprenditori collusi
La rete di Carminati gestita con i metodi di Cosa nostra
ROMA Ogni volta che si parla di mafia e di metodo mafioso, spuntano gli imprenditori
vittime e quelli collusi. Per l’organizzazione criminale i secondi sono più importanti dei
primi, e spesso i minacciati finiscono per diventare complici. È successo con la mafia e
con la ‘ndrangheta, in Sicilia, in Calabria e altrove; ed è successo — sostiene l’accusa —
anche con Mafia Capitale. Ecco perché non è soltanto una storia di corruzione e tangenti;
ecco perché l’indagine della Procura di Roma rappresenta una specie di sintesi (fatte le
debite proporzioni) tra ciò che è avvenuto a Milano con Mani pulite e a Palermo con il
maxiprocesso che ha svelato la Cupola di Cosa nostra.
Il sodalizio mafioso
Il sistema romano lo descrive Massimo Carminati, presunto capo del presunto «sodalizio
mafioso», nell’ormai famoso discorso sul «mondo di mezzo» intercettato dai carabinieri del
Ros. Quando l’ex estremista nero spiega: «Io ti fornisco l’azienda, quella bona ... perché
lui sa, sta’ a costrui’... serve il movimento terra». E prosegue: «Guarda che noi c’abbiamo
delle aziende pure di costruzioni... a chi t’appoggi?... Noi dovemo fa’ costruzioni».
Nella ricostruzione degli inquirenti queste parole sono collegate al ruolo di un imprenditore
divenuto «colluso», Cristiano Guarnera, accusato di essersi messo «a disposizione nel
settore dell’edilizia per la gestione degli appalti di opere e servizi». In precedenza aveva
chiesto «protezione», ma successivamente «entrava nella schiera di affiliati su cui il
sodalizio poteva contare». Una «tipica modalità» adottata dai gruppi mafiosi per acquisire
«imprese economiche i cui gestori in una prima fase si rivolgono all’associazione per
chiedere aiuto e successivamente ne entrano a far parte».
Guadagno coi soldi suoi
Guarnera aveva proposto un business immobiliare nel quartiere romano di Monteverde a
Riccardo Brugia, «braccio destro» di Carminati. Il quale svela, a proposito di un altro
imprenditore per la fornitura di servizi: « Voglio fa fa’ ‘na maniera che famo guadagna’ lui
con i soldi sua e noi guadagniamo con i soldi suoi senza caccia’ una lira ». Dopodiché
accade un incidente: Guarnera non si presenta a un appuntamento fissato alle 9 del
mattino, e Carminati non la prende bene. Brugia avverte l’imprenditore: «Non ti sei
svegliato? Chicché, noi nun semo ... non siamo persone che tu me poi risponde così... ».
Guarnera cerca di scusarsi in ogni modo con Carminati, ricevendo una lavata di testa che
contribuisce a impaurirlo (e anche questo viene considerato indizio di mafiosità: il timore di
vendette e ripercussioni basato sulla caratura criminale degli interlocutori). Finché invia un
sms mortificato: «Perdonami per favore ho solo voi come amici», che ottiene una risposta
finalmente rassicurante: «Chicco stai tranquillo, ci sentiamo domani con calma».
Due giorni dopo Guarnera riferisce che Carminati «è stato in grado di una cosa che io in
due anni non sono riuscito a fare, lui in tre giorni è riuscito a sbloccarla!». Questo avviene
attraverso gli agganci nella piccola amministrazione, mentre altre frasi di Carminati
mostrano il suo modo di rapportarsi con le imprese: «Ci si muove solo di guadagno compà
... altre cose non interessano»; e ancora: «Dovemo fallo contento lui, ma più contenti
dovemo esse noi». Anche la crisi economica diventa occasione di guadagno: «C’è
20
l’imprenditore che non ha la possibilità... di espandersi... allora... con i soldi tuoi lui si
espande e ti dà una piccola percentuale... che però... alla fine ... sono soldi capito?».
L’affare di Monteverde non andrà in porto, altri sì; come l’utilizzo degli immobili di
Guarnera per fare fronte alla crisi degli alloggi: «Questi qua vengono affidati dal Comune o
dal ministero dell’Interno... Onestamente quando pigli i soldi sono sicuri», spiega
Carminati.
Come Provenzano
Un modo d’agire e di pensare non molto dissimile da quelli che il procuratore Pignatone e
il suo aggiunto Prestipino, approdati a Roma dopo una lunga esperienza in Sicilia e
Calabria, hanno avuto modo di conoscere attraverso le inchieste su mafia e ‘ndrangheta.
Un imprenditore lombardo che s’era rivolto a un clan della piana di Gioia Tauro, confessò
in una intercettazione: «Purtroppo quando c’è bisogno... ci si rivolge anche a questa
gente... questa gente però... è molto difficile mandarli via».
Al pentito di Cosa nostra Nino Giuffrè, invece, furono trovati «pizzini» di Provenzano con
l’indicazione delle imprese « addisposizione »; e lo stesso Giuffrè spiegò: «Per
Provenzano le imprese sono di vitale importanza, non solo da un punto di vista
economico. Ciò che gli interessa è avere contatti con persone importanti. Gestire il potere,
cioè avere queste persone nelle mani, significa raggiungere determinati obiettivi anche
lontani, anche inimmaginabili, perché ogni impresa ha le sue conoscenze, e sfruttando
queste imprese e conoscenze ha un potere nelle mani molto, ma molto importante».
Sembra un altro modo di descrivere il «mondo di mezzo» di Carminati; anche per questo,
per l’ex «nero» e i suoi presunti complici (imprenditori compresi), è arrivata l’accusa di
associazione mafiosa.
Del 5/12/2014, pag. 6
Lazio, stop a tutti gli appalti Cantone vara la
task force il prefetto: scorta a Marino
Mafia a Roma, minacce al sindaco. Alfano: valuto lo scioglimento
Zingaretti: sospendo le gare. Il Papa: non speculate sui poveri
MAURO FAVALE
I tentacoli di mafia capitale non avevano strozzato solo le casse del Campidoglio ma si
erano allungati anche sulla Regione Lazio. «C’è una gara da 60 milioni di euro», dice
intercettato Carlo Guarany, uno degli arrestati. «In Regione c’avemo Gramazio», risponde
Massimo Carminati, riferendosi al capogruppo di Forza Italia alla Pisana (ieri dimesso).
Parole contenute nell’ordinanza firmata dal gip Flavia Costantini e che hanno convinto ieri
Nicola Zingaretti a decidere prima di avviare un’indagine interna sugli appalti della
Regione, poi direttamente a sospendere tutte le procedure di gara in corso. Una decisione
clamorosa che blocca le assegnazione di decine di appalti di Asl, Ater (l’agenzia per le
case popolari) e della Centrale unica degli acquisti.
Parallelamente sulle gare del Comune di Roma accenderà un faro l’autorità anticorruzione
guidata da Raffaele Cantone. Ieri il magistrato ha incontrato il sindaco Ignazio Marino e gli
ha promesso il suo intervento per esaminare (ed eventualmente commissariare) «quegli
appalti conquistati grazie alla corruzione». Il rischio, comunque vada, è un rallentamento
della macchina amministrativa sia della Regione che del Campidoglio dopo il terremoto
“mafia capitale”. Intanto, mentre il ministro dell’Interno Angelino Alfano valuterà lo
scioglimento del Comune (pur concedendo che «la capitale non è marcia, è sana»), la
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preoccupazione del prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro si è spostata sull’incolumità del
sindaco Marino: «Ci sono intercettazioni con insulti — afferma Pecoraro — che
confermano che un’esposizione del sindaco c’è e va valutata con le altre forze
dell’ordine». Nel frattempo, come prima mossa, «il sindaco dovrebbe rinunciare a girare in
bicicletta». «Per me sarebbe una perdita molto pesante», confessa Marino che ha
promesso al prefetto di «rifletterci attentamente».
E sempre una conversazione intercettata («Gli immigrati rendono più della droga») ha
spinto ieri Papa Francesco a prendere una posizione molto netta davanti alla Focsiv, l’ong
che raggruppa gli organismi cristiani di volontariato: «I poveri non possono diventare una
occasione di guadagno».
Del 5/12/2014, pag. 6
Quel patto di sangue tra il Rosso e il Nero “I
miei soldi sono i tuoi”
CARLO BONINI
Per arrivare al cuore del Mondo di Mezzo , illuminarne le complicità e pesarne gli interessi,
conviene sapere cosa dica di Massimo Carminati il cassiere e Grande Elemosiniere di
Mafia Capitale, Salvatore Buzzi, in una delle sue tante confidenze catturate dalle cimici del
Ros dei carabinieri nel marzo dello scorso anno. «Il rapporto che c’ho con Massimo? Io
c’ho i soldi suoi. E lui sai cosa m’ha detto quando c’aveva paura che l’arrestavano? Viene
da me e dice “Guarda, qualunque cosa succede, i soldi ce l’hai te, li tieni te e li gestisci te.
Non li devi da’ a nessuno, a chiunque venisse qui da te. Nemmeno mia moglie”. Non so’
soddisfazioni?». E ancora: «Massimo si fida al punto tale di me che se io muoio, neanche
viene a chiederli i soldi. E se muore lui, già me l’ha detto che devo fare».
Massimo Carminati e Salvatore Buzzi sono dunque la stessa cosa. Non fosse altro perché
“il Cecato”, invecchiando, ha ormai una sola ossessione: il grano. Quello che muove e
anima gli ingranaggi del suo Mondo tripartito — di Sopra, di Mezzo e di Sotto — e che
Buzzi gli porta. A palate. Il tipo è capace di moltiplicare i pani e i pesci e ha messo insieme
un giocattolo da stropicciarsi gli occhi. Un castello di 68 società controllate, con complessi
incroci azionari, da due holding: la “Cooperativa 29 giugno” e la “Sarim Immobiliare srl”.
Una roba che, solo tra il 2011 e il 2013, vede salire il fatturato da 32,6 a 50,9 milioni di
euro. Con punte di “eccellenza” come la “Eriches” che, nello stesso periodo, moltiplica del
mille e cinquecento per cento le entrate: da 1 a 15 milioni di euro. Una giostra che gira a
pieno regime grazie anche alle “cure” del braccio destro di Buzzi, tale Carlo Maria
Guarany, vicepresidente della Cooperativa 29 giugno e azionista all’1% della “Sarim”, la
società da cui, per altro, partiranno parte dei 75 mila euro versati alla fondazione Nuova
Italia di Gianni Alemanno in concomitanza con l’assegnazione di lucrose commesse. Un
tipo, questo Guarany, per il quale il gip Flavia Costantini spende, nelle pagine della sua
ordinanza di custodia cautelare, la certezza dell’indicativo: «È stabilmente inserito
nell’associazione a delinquere di stampo mafioso e partecipa consapevolmente alla
commissione dei reati», tanto da preoccuparsi di attivare il jammer che dovrebbe rendere
impossibile alle cimici ascoltare le “riunioni di lavoro” che Carminati, Buzzi e, appunto
Guarany, apparecchiano negli uffici della “Cooperativa 29 giugno” in via Pomona.
I LEGAMI CON FINMECCANICA
Sappiamo bene ormai quale sia il segreto di tanta fortuna imprenditoriale e di tanto ascolto
in Campidoglio. Ma c’è qualcosa di più. Perché, aprendo le scatole della galassia
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societaria di Buzzi, non si rintraccia solo la linfa degli affari, ma, innanzitutto, la storia di
Carminati e il peso del suo sistema di relazioni e interessi. Con qualche nome più
importante e curioso di altri. Accade per esempio che, sfogliando la margherita delle
compartecipazioni della holding “Sarim”, si inciampi nelle figlie dell’ex capo delle Relazioni
istituzionali di Finmeccanica, Lorenzo Borgogni, già perno del “Sistema Guarguaglini” e
oggi “in esecuzione pena” nei cinque ettari della sua tenuta “la Madonna nera”, in quel di
Siena. Attraverso la società “Total Care”, Salvatore Buzzi, risulta infatti socio della Renco
Health Care in cui, appunto, figurano al 5% del capitale Elisabetta e Benedetta Borgogni.
Renco Health Care che — vale la pena ricordare — fa capolino nell’inchiesta sui fondi neri
e la corruzione di Finmeccanica per gli appalti pilotati della società Selex, già guidata da
Marina Grossi, moglie dell’ex ad Guarguaglini.
LA SORELLA DI MOKBEL
“Un caso”, si potrebbe dire. E invece, ecco che spunta in un diverso angolo della ragnatela
societaria di Buzzi un secondo cognome del coté Finmeccanica e dei suoi rapporti con il
mondo dei Neri, di cui il “facilitatore” e collezionista di mirabilie naziste Lorenzo Cola era il
passepartout. Parliamo di un altro fascista con i fiocchi: Mokbel. Gennaro, si intende
(unico sopravvissuto alla tempesta giudiziaria di martedì scorso, ma già travolto
dall’indagine sulla frode carosello da 1 miliardo e 200 milioni di euro conosciuta come caso
Telekom Sparkle-Fastweb e da quella del caso Digint-Finmeccanica). Ma non da solo. È di
sua sorella Lucia, infatti, la società “Luoghi del Tempo”, una srl partecipata dalla
“Cooperativa 29 giugno” e a sua volta azionista e proprietaria del 25% della Rogest, altro
ingranaggio societario chiave della galassia 29 Giugno. La “Luoghi del Tempo” ha un
particolare interesse. Perché è qui che finiscono i 16 milioni di euro ottenuti dalla “Banca di
Credito Coo- perativo” per la gestione di un punto verde a Roma. Un finanziamento che la
Mokbel non ha mai restituito e per il quale ha risposto in solido e con la propria cassa il
Comune di Roma.
L’UOMO DELLA PALESTRA
Le coincidenze Nere non finiscono qui. Lasciando per un momento da parte infatti la
galassia di Buzzi, ma continuando a tirare il filo di Mokbel e quello delle società coinvolte
nell’affare Telecom Sparkle, si finisce infatti di nuovo al nostro Carminati. Il proprietario di
una delle società coinvolte nella truffa carosello (I-Globe) è infatti tale Manlio Denaro. Un
manager, si dirà. Quantomeno un commercialista. No. Un personal trainer. Che, per un
periodo, gestisce la palestra “Flex Appeal” di via Marco Besso, una stradina che ci riporta
nel cuore della Terra del “Cecato”: Corso Francia. In quella palestra, infatti, si ritrovano
dopo anni di galera Carminati e Riccardo Brugia. E in quella palestra nasce il loro nuovo
patto. “Pijiamose Roma”.
Del 5/12/2014, pag. 8
“In sei mesi famo doppietta”, prometteva Carminati a imprenditori
interessati a “fare affari” con l’immigrazione. Così, tra false fatturazioni,
insediamenti abusivi e corruzione, guadagnavano “più che con la droga”
“Noi fatturiamo 40 milioni l’anno” Il clan si
arricchiva su profughi e rom
FABIO TONACCI E MARIA ELENA VINCENZI
Quello che per l’Italia è emergenza, per Mafia Capitale è business. «In sei mesi famo
doppietta », prometteva il “guercio” Carminati agli imprenditori, ingolositi dall’idea di
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guadagnare il doppio di quanto investivano nell’affare dell’accoglienza dei profughi e dei
campi rom. «Abbiamo chiuso con 40 milioni di fatturato, gli utili li facciamo sugli zingari,
sull’emergenza abitativa e sugli immigrati», calcolava l’anno scorso Salvatore Buzzi,
l’uomo delle cooperative sociali. Quel «fruttano più della droga» captato dalle cimici del
Ros, poi, ne era il logico corollario. Eccolo il sacco di Roma, è cominciato così. Lucrando
sui posti e sugli spazi che la città non aveva, prima che intervenisse la mano “amica” di
Luca Odevaine.
117MILA EURO ALLA FAMIGLIA ODEVAINE
Oggi i profughi e i richiedenti accolti a Roma sono 2.581, nel 2014 costeranno allo Stato
circa 35 milioni di euro più altri 7 messi dal Campidoglio. Metà di questa torta è stata, fino
al giorno degli arresti, roba loro. Anche e soprattutto grazie al lavoro che Odevaine, ex
segretario di Walter Veltroni, ha fatto con il Viminale, lui che, da ex capo della polizia
provinciale, sedeva nel Tavolo di coordinamento nazionale per l’accoglienza dei rifugiati.
«I posti Sprar che si destinano ai comuni — spiega Odevaine al suo commercialista il 27
marzo scorso — fanno riferimento a una tabella, tanti abitanti tanti posti... Per quella
norma a Roma toccherebbero 250 posti.... Un mio intervento al Ministero ha fatto in modo
che fosse portato a 2.500». Aggiungendo un dettaglio che dettaglio non è. « Loro...
secondo me ce n’hanno almeno un migliaio».
Loro sono Carminati e Buzzi e il “disturbo” di Odevaine si paga. Sul libro nero della
contabilità parallela di quella che i pm definiscono Mafia Capitale, risulta percepire uno
“stipendio”. «Cazzo gli diamo 5mila euro al mese da tre anni! — si sfoga Buzzi con sua
moglie Alessandra in un’intercettazione — c’abbiamo gli appartamenti affittati alla moglie,
che paghiamo il figlio e i soldi se li piglia lui! Ma dai...». E infatti, annota il gip
nell’ordinanza, la “Eriches 29 giugno”, la capogruppo del consorzio di cui Buzzi è
amministratore, «versa sui conti della moglie e del figlio di Odevaine una somma pari a
117.200 euro, senza una plausibile giustificazione economica ». E con false fatturazioni.
OCCUPAZIONI IN PERIFERIA
Ottenuti i profughi, il compagno B. e il “guercio” devono trovare dei campi e delle strutture,
e farsi dare poi gli appalti per la gestione. Si attrezzano soprattutto per organizzare Misna,
cioè quelli per minori stranieri non accompagnati, perché da tariffario del Viminale, un
adulto costa allo Stato “solo” 35 euro, un minorenne invece 91 euro. Più bambini, più soldi.
Buzzi arriva addirittura a organizzare un’occupazione abusiva. «Ha individuato un edificio
disabitato nella disponibilità del comune di Roma da occupare in via del Frantoio — scrive
il gip — risulta essere stata progettata per trasferirvi un numero imprecisato di minori (a
partire dal 19 febbraio 2013 saranno circa 230, ndr), previo interessamento del presidente
del V Municipio affinché dopo l’occupazione non si sarebbe proceduto allo sgombero».
Carminati intuisce subito dove andare a parare. «Al mese c’hai due o tre sacchi di
guadagno... capito? Stiamo a parlà deinte-ressi al 40 per cento», dice a uno degli
imprenditori collusi, Giuseppe Ietto, “l’ingegnere”, per i sodali di Carminati.
I PASTI PRECOTTI
La galassia di cooperative di Buzzi ottiene, grazie all’intercessione di Odevaine, la
gestione dei centri per minori di Anguillara Sabazia (fino al 22 febbraio 2013, poi è stato
chiuso dal sindaco per inagibilità dei locali), di via del Frantoio, di via Silicella (dal giugno
2013 in poi, 600 posti), di via Maremmana. Altri due nei comuni di Ciampino e Licenza,
fuori Roma. Buzzi lavora anche per organizzare la cucina del carcere femminile di
Rebibbia. Appalti su cui i carabinieri del Ros e i finanzieri del nucleo di polizia di tributaria
di Roma stanno ancora indagando. Anche perché i pasti in queste strutture, (16.240 al
mese solo per quello di via del Frantoio), li prepara sempre, o quasi, un’a- zienda: la
Unibar di Giuseppe Ietto, uno degli imprenditori collusi con la Mafia Capitale finiti
nell’inchiesta. «Un ragazzo nostro», lo definisce Carminati che gli ha anche fatto assumere
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sua sorella, Micaela Anna Maria. È proprio il “guercio” a spiegargli il “giochino” per fare di
un’emergenza umanitaria, un bancomat per la banda. «Loro (l’amministrazione pubblica,
ndr) sono disposti a pagare il pasto 7 euro per dire, invece di 5 o 4... lì devi avere dei
margini da spavento». E poi: «Lo so sembra una cazzata ma alla fine quando fai i grandi
numeri so’ soldi eh!».
IL CAMPO DI BUZZI
Chi lavora con Carminati, però, sa che il 20 per cento di quello che guadagna sulla piazza
di Roma, finirà a lui. Oltre a Ietto, tra i collusi c’è Agostino Gaglianone, che ha un’azienda
di movimento terra, la Imeg. Nelle carte dell’inchiesta i magistrati annotano anche
l’esecuzione del parco giochi per bambini fatta dalla Imeg nel terreno di Marco Staffoli,
marito di Rosella Sensi, ex presidente della A. S. Roma. È a Gaglianone che la banda
affida l’ampliamento e la manutenzione dei fabbricati mobili del grande campo rom di
Castel Romano gestito dalla Eriches 29, il più grande della città (989 nomadi, 5 milioni di
euro di fondi ricevuti solo nel 2013). L’uomo è «a disposizione », non muove un passo che
il guercio non voglia. Nelle cucine, invece, mettono come al solito la Unibar. «Io me so’
prefisso, me deve fa 500mila all’anno », dice Ietto alla moglie. 500mila euro di guadagno,
meno i 100.000 per il boss. Era Carminati a gestire personalmente «la faccenda degli
zingari», con la complicità di funzionari del Campidoglio. Il suo gancio era Emanuela
Salvatori, responsabile del Coordinamento amministrativo per l’attuazione del piano
nomadi. Una figura centrale da avvicinare per mettere le mani sul business e da
remunerare facendo assumere la figlia della donna, Chiara Derla, in una delle aziende
nelle mani della Mafia Capitale.
Del 5/12/2014, pag. 13
Il racconto. “
Denaro”, “tangenti” e “debiti” Tra turpiloquio, enfasi, verbi troncati di un romanesco
contaminato da “aziendalese” (ma con pochi aggettivi “per andare dritti al sodo”) si
esprimono gli uomini del clan
“Sordi”, “stecche” e “strisciate” Quelle
parole in lingua predona della nuova mafia
capitale
FILIPPO CECCARELLI
PIGLIÀ ’ », « paga’ », « guadagna’ », « compra’ », « prosciuga’ », oltre naturalmente a «
rubba’ », tutto questo in linea di massima « pe’ sistemasse », ma forse il proposito è
soltanto un auto-inganno e ogni dialogo corrisponde in realtà a una concezione piuttosto
elementare e famelica dell’esistenza.
Sia come sia, gli abitanti del «mondo di mezzo», espressione di controversa derivazione
tolkeniana, troncano i verbi all’infinito, come succede a Roma, usano pochissimi aggettivi,
vanno al sodo, all’osso, con il che dalle intercettazioni viene fuori una lingua
sostanzialmente selvatica, predona. Che tuttavia, nel mentre si avvicina alle istituzioni, per
così dire, si fa ambigua, sfuggente, perciò banditi e faccendieri si ritrovano e si
riconoscono l’un l’altro nella comune condizione di « campà de politica », e allora occorre
« da’’ na mano », « da’ ‘ na spinta », « tene’ in caldo », « crea’ » o « chiude un quadro »,
come pure « bussacchia’ », cioè andare a bussare nelle anticamere, pratica per molti versi
necessaria, ma per alcuni dei protagonisti assai mortificante. Gli uomini veri, infatti, quelli
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potenti, non devono nemmeno chiedere. Il rispetto gli è dovuto dalla loro storia, anche
criminale. E i « sordi » pure, secondo logiche di accumulazione abbastanza primordiale. È
comunque un mondo straordinariamente maschile, in questo quasi irreale, quello che
viene fuori dalle carte, per ora non c’è nemmeno una donna che parli, giusto un paio di
segretarie che dicono «buongiorno ».
Dalle frasi e dalle parole si capisce che i protagonisti adorano il comando e giocano sui
suoi effetti primari, tra cui incutere paura. Ma in questo, sia pure imbastardito, il
romanesco dell’inchiesta mafia-capitale ondeggia irrimediabilmente tra l’enfasi («gli faccio
caca’ sangue », « o famo strilla’ come un’aquila sgozzata »), l’automatico turpiloquio (« li
mortacci »), la classica meraviglia infantile («mamma mia!») e la consueta ricaduta nella
commedia. Notevole a questo proposito lo «scherzo» che il cooperatore sociale Buzzi
riferisce di aver rivolto a uno che traccheggiava o faceva finta di non capire: «Gli ho
parlato in francese stretto e gli ho detto: “Senti, o è sì o è no: non ce poi rompe er cazzo
così, eh! ». Così come ricorrono — e non si direbbe per delicatezza d’animo — le
bestemmie cosiddette di secondo grado ovvero camuffate: oltre ai classici «porco due» e
«mannaggia alla madosca» si ritrova un inconsueto «mannaggia alla madoro». Per non
dire della fuga, anch’essa tutta romana, verso l’indeterminatezza, donde la frequenza di «
coso » e di « cosi » e la menzione, probabilmente riferita a un dispositivo antiintercettazioni, designato «il fregno ». Per il resto, se il gangster neofascista Carminati
pare decisamente a suo agio con il gergo della malavita aggiornato e corretto (il telefono
intercettabile è detto « storto », le chiavi false « pongate », le tangenti « stecche », i debiti
« strisciate » e per dire che lui e i complici si sono lasciati arrestare usa « se semo fatti
beve »), è anche vero che nel suo complesso i confini tra la lingua in uso nelle carceri e
quella della politica paiono davvero labili, come se nell’inchiesta le sedi deputate e la
strada si fossero unificate anche a livello lessicale. Di più: la lingua di mezzo rispecchia
con suprema evidenza l’immiserimento e il degrado del potere. E peggio: parole e frasi
danno la misura della più definitiva scomparsa di qualsiasi idealità, la desertificazione di
ogni progetto collettivo. In pratica il nulla o quasi — là dove quel pochissimo che rimane
trova immediato riferimento al mondo della prostituzione: «Mettiti ‘ a minigonna e vai a
batte ... «, in tal modo Carminati incoraggia il suo compare a sedurre i successori di
Alemanno Del resto il «Cecato» chiama spesso gli interlocutori « compa’ », che dati i
trascorsi del soggetto non sta certo per «compagno ». Mentre al telefono i comprimari si
salutano ilari: «Mister!», «Grande!», «Bello!», «Maestro!». L’abbondanza di soprannomi —
alcuni anche vivaci: «er Cicorione» e «Kapplerino», ad esempio, più scontati «er Cane» e
«er Mandrillo» — denuncia la dimensione sempre più chiusa dei circuiti, un giro ormai così
stretto da certificare il tribalismo. Si direbbe che questo abbia indebolito qualsiasi fantasia
ed energia popolaresca, limitata alla comparsa di una figura immaginaria quale
«Fraccazzo da Velletri». Ogni tanto si capisce che qualcuno fa il moderno o lo spiritoso. Il
giovane Gramazio, per dire, a proposito dell’azienda dei rifiuti, in sigla Ama, proclama:
«Lassù qualcuno ci Ama»; come pure il troppo pratico Buzzi vanamente si sbilancia:
«Tutto under control ». Non solo non c’è nessuno che faccia ridere, ma tutti sono talmente
preoccupati di arraffare entrature, quattrini e commesse che finiscono per assomigliare
l’uno all’altro — a parte forse Gramazio senior che a un certo punto riconosce di essere «
rincojonito ». In realtà, questo mondo di bande voraci esprime un linguaggio spurio e
contaminato. Solo in fondo si avverte l’ombra remota del vecchio politichese. Ben più
determinanti paiono gli influssi dell’aziendalese, del giornalese («emergenza-neve», « te
do una news »), dell’universo del tifo (l’immancabile «squadra»), della pubblicità («l’uomo
del monte ha detto sì»). Con qualche malizia pare anche di cogliere l’eco di edulcorazioni
di derivazione meta-berlusconiana, tra cui spicca l’uso del termine «carinerie». Un
discorso a parte merita le denominazione delle attività del mondo di mezzo: l’onlus
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«Piccoli passi», per dire, o «Il Sorriso». Qui la Grande Menzogna appare per una volta
nuda e senza pudore — e la speranza è che almeno a questo servano le inchieste e quel
che ne deriva.
del 05/12/14, pag. 4
POLETTI, ROVINATO DA UNA COOP
NEGLI ANNI HA FREQUENTATO PIÙ VOLTE LA “29 GIUGNO”. OGGI SI
DICE “INDIGNATO DELL’ACCOSTAMENTO ”
Salvatore Cannavò
Sto male nel vedere il mio nome messo vicino alle schifezze che ci sono. Sono indignato”.
La reazione di Giuliano Poletti di fronte alla foto che lo vede a tavola con una parte dei
componenti di “Mafia Capitale”, è netta. L’immagine ha fatto il giro di giornali e tv e
raffigura il ministro, all’epoca (2010) presidente di Legacoop, insieme a Salvatore Buzzi,
Gianni Alemanno, Franco Panzironi, Daniele Ozzimo e altri protagonisti di questa storia
criminale. “È intollerabile”, dice il ministro, vedersi associato a certe persone e a certe
“schifezze”, “è ovvio che chi ha un ruolo pubblico incontri tante persone. Ero convinto che
Buzzi fosse una persona perbene”. La reazione è comprensibile, soprattutto dopo la
lettura, ieri mattina, dell’articolo di Roberto Saviano, su Repubblica , con cui lo scrittore
chiede al ministro di “spiegare quella cena”.
EPPURE, DI FOTO CON SALVATORE BUZZI, Po - letti ne ha fatte altre. Più volte. Basta
prendere il Magazine della cooperativa “29 giugno”, la creatura dell’uomo del Pd che,
secondo l’accusa, “si occupa della gestione della contabilità occulta della associazione e
dei pagamenti ai pubblici ufficiali corrotti”. La foto di Poletti campeggia proprio accanto a
quella di Buzzi nel numero dedicato all’approvazione del bilancio 2013. Nell’editoriale di
apertura, Buzzi spiega la scelta di dedicare la copertina a Poletti non è casuale, e
“all’amico ministro” invia un caloroso saluto. Giuliano Poletti, all’epoca della cena, era
ancora il presidente della Legacoop e quindi, come spiegano anche nella potente
associazione nazionale, era piuttosto normale che presenziasse alle assemblee delle
strutture associate. La cosa curiosa, però, è che anche l’anno precedente, Poletti abbia
trovato il tempo di andare alla “29 giugno”. La Legacoop conta 12.234 cooperative, ma
nella struttura romana, che si è rivelata uno dei pilastri del sistema della banda Carminati, i
rapporti sono più che buoni. E infatti, la sua foto si ritrova nella prima pagina della rivista,
ancora accanto a Buzzi. Questa volta, inoltre, nel numero del Magazine, troviamo anche
una sua intervista “esclusiva” in cui indica nel sistema delle cooperative sociali un
orizzonte obbligato per tutto il sistema delle cooperative. Il rapporto con Buzzi è così solido
che ancora, nel 2014, in occasione dell’approvazione del bilancio 2013, l’uomo, già in cella
per omicidio (uscito dal carcere e in grado di creare la nuova attività) non dimentica
l’amico, ormai ministro, e conclude la sua relazione con un “augurio di buon lavoro: al
ministro Giuliano Poletti, nostro ex Presidente nazionale che più volte ha partecipato alle
nostre assemblee; al governo Renzi affinché possa realizzare tutte le riforme che si è
posto come obiettivo, l’unico modo per salvare il nostro Paese dalla stagnazione e
dall’antipolitica”.
POLETTI NON È INDAGATO e non ha compiuto nessun illecito. Buzzi, probabilmente, lo
ha utilizzato come fiore all’occhiello da esibire in pubblico. Particolare che si può
desumere da un altro particolare. Nell’ottobre del 2013 il presidente della “29 giugno”
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scrive all’amministratore del gruppo finanziario Ugf (Unipol), Carlo Cimbri per lamentare il
mancato ottenimento di un finanziamento. “Troppo esposti” risponde l’Uni - pol alla
richiesta di un prestito a medio termine di 800 mila euro. I debiti della cooperativa, in
effetti, ammontano a 18 milioni e con Unipol la “29 giugno” ha, a quella data, linee di
credito già aperte per 18,8 milioni. Buzzi invia la lettera “per conoscenza” a due persone:
al presidente della Repubblica (niente di meno) ma anche al presidente di Legacoop,
Giuliano Poletti. Per far capire l’importanza della propria situazione, poi, invia a Cimbri la
relazione di approvazione del bilancio, sottolineando che questa “si è tenuta alla presenza
del presidente nazionale di Legacoop Giuliano Poletti e dell’ad di Banca Prossima, Marco
Morganti”. Sarà proprio Banca Prossima, del gruppo Intesa Sanpaolo, specializzata in
progetti “no profit”, a mettere a disposizione la propria piattaforma Terzo valore, per un
progetto di raccolta fondi da 900 mila euro avviato dopo il rifiuto di Unipol. Per Poletti non
c’è nulla da sospettare, le cose gli accadono intorno “a sua insaputa”. Il ministro, del resto,
nella sua presidenza di Legacoop era sembrato sonnecchioso anche nel caso del
coinvolgimento di Manuntecoop, e del suo presidente, Claudio Levorato, nelle inchieste
relative a Expo 2015. Anche in quel caso, la casa-madre non riusciva a capire cosa
avveniva nella, corposa, periferia del sistema cooperativo.
AD ATTACCARE POLETTI non c’è solo la destra ma, soprattutto, il sindacato una volta
parte integrante del mondo delle coop. La Cgil sta conducendo da tempo una campagna
contro “una progressiva opacità, un’assenza di legislazione sulle cooperative spurie, sul
terzo settore” che caratterizza il sistema degli appalti pubblici. In tutti gli incontri sono
avanzate richieste in tal senso “ma finora non è accaduto nulla” fanno sapere da Corso
Italia. Ieri Susanna Camusso ha ventilato anche la possibilità che Poletti risponda in
Parlamento di quanto avvenuto. Anche perché, secondo l’ex assessore della giunta
Alemanno, Umberto Croppi, in quella cena si festeggiava “un trucco contabile” tramite il
quale il Comune stanziò finanziamenti per le cooperative sociali. Anche di questo Poletti
non si è accorto.
Del 5/12/2014, pag. 1-2
Il Paese che vive nella Terra di mezzo
ROBERTO SAVIANO
SU“ Mafia capitale” sappiamo tutto, abbiamo letto le cronache dell’operazione condotta dai
Ros del generale Parente e dalla Procura di Roma guidata da Giuseppe Pignatone,
abbiamo letto l’ordinanza del gip Flavia Costantini, ma non so se è chiaro a tutti cosa sia
accaduto a Roma.
ECOSA molto probabilmente sta accadendo altrove in Italia. Succede alla politica italiana
ciò che sta accadendo alla società civile che guarda alla politica con schifo, senza riuscire
a percepire le proprie responsabilità. Accade che in politica ci si venda, si ipotechi la
propria anima per pochi spiccioli (ci sono mazzette da 750 euro prese senza la reale
percezione della gravità della situazione come una legittima e piccola regalia). Accade che
la politica non abbia autorevolezza e idee proprie, accade che la politica venga percepita
come una occasione di guadagno, un mestiere che arriva senza dover studiare, senza
curriculum ed esperienza.
La domanda è: ma come fanno personaggi che definiremmo “dalla storia ambigua”, come
Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, a diventare artefici, attori, protagonisti di vicende
che assumono connotazioni grottesche? Un assassino e un ex terrorista, ex Nar, organico
alla banda della Magliana. Il primo, Buzzi, aveva scontato la sua pena, il secondo
28
Carminati era stato assolto, ma su di lui esistono pagine e pagine di informative e una
stretta osservazione. Ebbene Buzzi e Carminati in qualsiasi altro Paese condurrebbero la
loro vita lavorativa sotto una strettissima sorveglianza, dovrebbero avere un
comportamento talmente ligio da provare che si può uscire diversi dal carcere, da
dimostrare che le assoluzioni sono opportunità di reinserimento e non salvacondotti. E
invece a Buzzi e Carminati la politica dà massima fiducia senza chiedere in cambio
nessuna trasparenza. Ci si fida di loro, ciecamente. Vi siete chiesti come sia stata
possibile una tale idiozia? In questi giorni il mantra è: colpevole è non solo chi è
consapevole, ma anche chi non vuole vedere. E allora noi da che parte stiamo? Tra i
colpevoli o tra quelli che non vogliono vedere? Dobbiamo scegliere, perché una terza via
non esiste. Come possono personaggi come Carminati e Buzzi apparire “affidabili”?
Possono farlo perché siamo in Italia. Possono farlo perché in Italia ciò che si rifiuta e
rifugge non è il rapporto con chi tutto sommato è peggio di noi, ma con chi è meglio. Con
chi ha una immagine pulita si fa il tiro al bersaglio: il gioco è far cadere il simbolo positivo
dal piedistallo. Ed ecco che chi si distingue per professionalità e rettitudine in una giunta
comunale viene allontanato, con maggiore o minore clamore mediatico, a seconda delle
circostanze, ma se intralci i giochi sei fuori. I politicanti utilizzano e si legano a personaggi
che non sono figure da poter demolire e che non vogliono cambiare il sistema e che
abitano quel “mondo di mezzo” che Carminati, ha preso in prestito da Tolkien. «Ci stanno i
vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo. E allora vuol dire che ci sta un mondo, un
mondo in mezzo, in cui tutti si incontrano. Anche la persona che sta nel sovramondo ha
interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia delle cose che non le può fare nessuno.
Questa è la cosa… e tutto si mischia». Non è da leggere come è stato fatto sino ad ora
come una “cerniera” tra teppa criminale e colletti bianchi. Questa è una vera e propria
sintesi di filosofica economica. Si parla chiaramente di un luogo trasversale dove ci si
affida a chi “sa fare le cose”, chiunque egli sia. E qui arriva Salvatore Buzzi con le sue
cooperative di disperati, di marginali, ex detenuti, immigrati che in un’Italia che non
produce nulla, in un’Italia in cui le aziende muoiono, in un’Italia strangolata da un sistema
fiscale irrazionale che in larga parte deve sopperire ai costi enormi e agli sprechi della
politica, diventano una miniera d’oro. In Italia è inevitabile che le emergenze diventino vere
e proprie occasioni di profitto. La crisi dei rifiuti a Napoli ha irrorato la politica, la camorra e
l’imprenditoria per oltre un decennio. Mare nostrum è stata una tragedia per tutti tranne
che per Carminati e Buzzi. Per loro i barconi della speranza piuttosto che emergenza
umanitaria, sono diventati un’enorme opportunità. «Ci fanno guadagnare più della droga»,
dicono. Quindi l’organizzazione mafiosa con a capo Carminati non guadagna con attività
che tradizionalmente sono considerate criminali, ma con attività che invece godono di
un’aura di nobiltà. Attività intoccabili, insospettabili. Ma di umanitario e ideologico non è
rimasto proprio nulla: l’ideologia non c’entra, gli affari sui rom, sull’emergenza case, sugli
immigrati, li fanno paradossalmente proprio gli uomini di Alemanno, coloro i quali hanno
partecipato alla giunta che meno si è distinta per solidarietà verso gli ultimi, verso i
bisognosi e i disperati. Non c’è più colore politico, ecco perché verso gli estremisti della
prima e dell’ultima ora non posso fare a meno di provare pena; non c’è colore: basti
pensare che Carminati che proviene dalla estrema destra, si sceglie Buzzi come braccio
destro, un uomo che proviene dalla estrema sinistra.
E poi ancora: dal momento che a predisporre e coordinare l’emergenza migranti è il tavolo
di coordinamento nazionale presieduto dal ministero degli Interni, lì deve sedere un uomo
che sia al soldo del duo Carminati-Buzzi. Quest’uomo è Luca Odevaine, che ricorda Mister
Wolf di Pulp Fiction, il problem solver. Luca Odevaine è stato vice capo di Gabinetto della
giunta Veltroni, poi capo della Polizia provinciale, poi capo della protezione civile con
Zingaretti e infine al tavolo di Coordinamento nazionale sull’accoglienza per i richiedenti
29
asilo. È lui, per intenderci, che prende in gestione la capitale quando muore Giovanni
Paolo II. La trasversalità del sistema si basa su una macchina oleata fatta di mazzette
grandi e piccole. Odevaine, secondo l’accusa, avrebbe percepito una mazzetta da
cinquemila euro al mese.
Ma la cosa più interessante è che leggendo le carte dell’inchiesta si ha la sensazione che
nessuno abbia reale consapevolezza del proprio status di corrotto. Quello che molti hanno
preconizzato, ovvero che Tangentopoli fosse solo il punto di partenza di un’apocalisse
politica e sociale definitiva si sta avverando. Ora i corrotti non solo si sentono legittimati a
commettere illeciti, ma non hanno neanche più la consapevolezza della gravità dei loro
comportamenti. In tutto questo Matteo Renzi arriva tardi a commissariare il Pd di Roma.
Prima della magistratura, la politica dovrebbe avere occhi, orecchie, dovrebbe ascoltare
ogni sussulto, ogni sospiro. I segnali c’erano. E invece Renzi, che aveva tutti gli strumenti
per sapere e per azzerare il Pd romano prima di questo terremoto giudiziario, lo fa dopo.
Dall’altra parte — o dalla stessa parte anche se sembra si facciano guerra — c’è una
destra sempre più disinvolta nell’occupare posizioni per trarne vantaggio, per condizionare
la democrazia, anche usando la stampa locale che si presta al gioco, come è successo
con Il Tempo diretto da Chiocci, che è arrivato a incontrare Carminati.
Mafia capitale è solo l’inizio. Altre inchieste in altre città dimostreranno che Roma non è un
caso isolato. In altri Paesi europei esiste la corruzione, ma la corruzione non arriva a
compromettere l’istituzione stessa: il corrotto è espulso dall’istituzione che è percepita
come sacra e va salvaguardata. In Italia l’istituzione invece è utilizzata, lordata e non viene
difesa. Ma perché questo accade? Perché ormai si è impadronita di chiunque una
consapevolezza: senza brigare non si va da nessuna parte. Senza forzature non succede
niente, non cambia niente. Quindi in fondo la posizione bipartisan sembra essere questa:
è inutile fingere di essere al di fuori o al di sopra. Tutti dobbiamo compromettere una parte
del nostro lavoro, della nostra integrità, per ottenere qualcosa. Questa è la logica che
emerge da “Mafia capitale”. Questa è la teoria del “Mondo di mezzo” di Carminati non
portata alle estreme conseguenze, ma applicata a tutti noi.
Da questo meccanismo nessuno si senta escluso, le mazzette trovate nelle buste con il
logo di Roma Capitale ci riguardano, perché Roma Capitale siamo noi.
In questo Paese che non è capace di difendere il talento e l’impegno, dove tutti odiano
tutti, dove tutti detestano chi ce la fa, in questo Paese tra il mondo dei vivi che sta sopra e
il mondo dei morti che sta sotto, in mezzo ci siamo noi. In mezzo c’è l’intero Paese che
non riesce a reagire.
Del 5/12/2014, pag. 1-3
Quando Berlinguer annunciava la palude
Questione morale . Un ruolo-chiave, in questo disastro, lo ha svolto
anche l’ideologia o, meglio, la sedicente liquidazione delle ideologie
Alberto Burgio
<<I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela. Gestiscono talvolta
interessi loschi, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si
è ormai conformata su questo modello. Non sono più organizzatori del popolo, formazioni
che ne promuovono la maturazione civile: sono piuttosto federazioni di camarille, ciascuna
con un boss e dei sotto-boss. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi
e di soffocare in una palude». A quanti sono tornate in mente in queste ore le parole di
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Enrico Berlinguer nella famosa intervista alla Repubblica del febbraio 1981? Sono trascorsi più di trent’anni e la palude ormai ci sommerge.
Nel venticinquesimo della morte ci si ricorda finalmente di Leonardo Sciascia. Anche Sciascia lanciò l’allarme. «La palma va a nord», scrisse: marcia alla conquista del paese. Alludeva al modello siciliano d’impasto tra politica e mafia.
Un impasto nel quale dapprincipio la mafia intimidisce e corrompe, poi penetra le istituzioni
e si fa Stato. Ripetutamente Sciascia mise in guardia dal rischio che questo modello si
generalizzasse. Oggi fingiamo di scoprire che mafia e ‘ndrangheta si sono stabilite
a Milano e controllano vasti settori dell’economia nazionale. E guardiamo atterriti al nuovo
romanzo criminale della mafia romana, edizione aggiornata di quell’universo orrendo che
ruotava intorno alla banda della Magliana, coinvolgendo anche allora mafia, politica e terrorismo neofascista.
In questi trenta-quarant’anni non solo non si è fatto argine contro il malaffare. Lo si è assecondato, lo si è favorito. Gli anni Ottanta dell’«arricchitevi!» di craxiana memoria. Della
Milano da bere e del patto scellerato tra Stato e capitale privato che aprì le voragini del
debito pubblico e dell’evasione fiscale. Poi venne l’unto di Arcore: la politica usata (con la
complicità di gran parte della «sinistra») per salvare le aziende di famiglia; la legalizzazione dei reati finanziari; l’esplosione delle ineguaglianze. E vennero le «riforme istituzionali» che, proprio per iniziativa della sinistra post-comunista, diedero avvio allo stravolgimento maggioritario-presidenzialistico della forma di governo disegnata in Costituzione.
Il presidenzialismo negli enti locali ha reso le istituzioni più fragili e permeabili ai clan
anche per effetto di un apparente paradosso. L’accentramento monocratico del comando
è andato di pari passo con la disarticolazione dei partiti politici, culminata nella farsa delle
primarie aperte. Questo processo ha da un lato azzerato la dimensione partecipativa e la
funzione di orientamento culturale svolta in precedenza dai partiti di massa; dall’altro ha
promosso una selezione perversa del ceto politico-amministrativo, premiando chi aveva le
mani in pasta nel mondo degli affari. Così i partiti – soprattutto i maggiori – si sono ritrovati
sempre più spesso alla mercé delle consorterie e delle cupole, secondo un meccanismo
analogo a quello che in altri tempi permise a Cosa nostra di comandare nella Palermo di
Lima, Ciancimino e Gioia. Ma un ruolo-chiave, in questo disastro, lo ha svolto anche
l’ideologia o, meglio, la sedicente liquidazione delle ideologie: l’avvento di una politica che
si pretende post-ideologica, che ha significato in realtà il congedo di gran parte della sinistra italiana dalle lotte del lavoro e da una prospettiva critica nei confronti degli spiriti animali del capitalismo. Non è necessario, certo, essere comunisti per comprendere che
moralità e buona politica sono strettamente connesse tra loro nel segno del primato della
giustizia e del bene comune. Né in linea di principio aderire senza riserve alle ragioni del
capitalismo impedisce di riconoscere l’importanza della questione morale e di essere
«onesti», per riprendere un lemma sul quale si è ancora di recente dibattuto. Ma se della
moralità e dell’onestà non si ha una concezione povera e astratta, allora si comprende
facilmente che entrambe coinvolgono direttamente il modo in cui si giudicano l’ingiustizia
sociale e il persistere dei privilegi. Non è un caso che, riflettendo sulla questione morale,
Berlinguer in quella stessa intervista parli proprio di questo. Della necessità di difendere «i
poveri, gli emarginati, gli svantaggiati» e di metterli davvero in condizione di riscattarsi.
Non è un caso che rivendichi le lotte del movimento operaio e dei comunisti, non soltanto
contro il fascismo e con gli operai, ma anche al fianco dei disoccupati e dei sottoproletari,
delle donne e dei giovani. Né è casuale che insista sulle gravi distorsioni, gli immensi costi
sociali, le disparità e gli enormi sprechi generati dal «tipo di sviluppo economico e sociale
capitalistico». Per concluderne che esso – «causa non solo dell’attuale crisi economica,
ma di fenomeni di barbarie» – deve essere superato, pena il verificarsi di una catastrofe
sociale «di proporzioni impensabili». Oggi come allora la questione morale investe frontal31
mente la politica anche per questa via: è una faccia della sua complessiva degenerazione.
Non si tratta soltanto di illegalità, ma anche di irresponsabilità di fronte alla devastazione
sociale provocata da trenta e passa anni di dominio del mercato, del capitale privato,
dell’interesse particolare. Questione morale e irresponsabilità sociale della politica non
sono, qui e ora, fenomeni indipendenti tra loro, bensì manifestazioni della stessa
patologia.
Del 5/12/2014, pag. 13
Allarme riciclaggio: economia criminale vale
12% del Pil
ROSARIA AMATO
ROMA . È un’industria prospera: secondo alcune stime il giro d’affari dell’economia
criminale arriva fino al 12 per cento del Pil. Ma è anche ben connessa: i proventi del
traffico di droga, estorsione, gioco d’azzardo, sfruttamento della prostituzione vengono
immessi con facilità nell’economia sana, grazie soprattutto al sommerso e all’uso
eccessivo del contante, una caratteristica tutta italiana. Nel nostro Paese infatti, ricorda il
Comitato di Sicurezza Finanziaria, presieduto dal direttore generale del ministero
dell’Economia Vincenzo La Via, il contante viene usato nell’85 per cento delle transazioni
contro una media Ue del 60 per cento.
Non è soltanto un problema di arretratezza sul fronte dei pagamenti elettronici: il rischio di
riciclaggio è altissimo e i controlli sono praticamente impossibili, visto che i pagamenti in
contante non sono “tracciabili”, una banconota è uguale all’altra. Negli ultimi anni,
riconosce il Comitato nell’ Analisi nazionale dei rischi di riciclaggio e finanziamento del
terrorismo , l’uso di contante ha subito «una costante contrazione dovuta sia alle
crescente diffusione di strumenti alternativi, sia all’effetto delle politiche restrittive». Ma non
è abbastanza: la criticità rimane ancora alta, soprattutto in alcune province italiane,
prevalentemente meridionali. Anche l’economia sommersa, che pur concentrandosi in
attività legali sfugge ai controlli del fisco e degli istituti di previdenza, è un canale di
passaggio ideale per il riciclaggio. Tanto più che il sommerso ha raggiunto in Italia,
secondo alcune stime, una quota del 22 per cento del Pil, contro il 19 per cento della
media europea. Ci sono attività economiche che più di altre sono esposte al rischio di
riciclaggio: i giochi, e non soltanto il gioco d’azzardo, anche le piattaforme online legali
oppure le scommesse a quota fissa. I compro-oro, che si sono diffusi con la crisi e
attualmente tenuti al solo obbligo di segnalazione di operazioni sospette. Il settore
immobiliare, da sempre «uno dei settori privilegiati per il reimpiego dei ricavi illegali delle
organizzazioni mafiose e dei capitali illeciti stranieri». I trust, società non regolate ancora a
sufficienza dal diritto italiano. A vigilare, oltre alle forze dell’ordine, l’accurata rete di
controlli finanziari che include anche la Banca d’Italia, la Guardia di Finanza e la Consob.
del 05/12/14, pag. 15
Procura di Palermo: la politica
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spacca il Csm, decide il Plenum
NESSUN ACCORDO SUL NUOVO CAPO: 2 VOTI PER SERGIO LARI, 2
PER FRANCESCO LO VOI E UNO PER GUIDO LO FORTE. IL VERDETTO
DEFINITIVO DOVREBBE ARRIVARE IL 17 DICEMBRE
di Antonella Mascali
Era nell’aria la spaccatura avvenuta ieri al Csm sulla nomina del procuratore di Palermo.
Quella poltrona non appartiene a un ufficio giudiziario qualsiasi. E il processo sulla
trattativa Stato-mafia pesa come un macigno, così come il conflitto di attribuzione contro la
procura sollevato dal presidente Giorgio Napolitano davanti alla Corte costituzionale, sulle
intercettazioni con l’ex ministro Nicola Mancino. La Quinta commissione si è divisa in tre
sul candidato da proporre al Plenum. Il procuratore di Caltanissetta, Sergio Lari, ha avuto i
due voti dei consiglieri di Area, la corrente di sinistra, Fabio Napoleone e Lucio Aschettino;
altri due voti li ha ottenuti Franco Lo Voi di Eurojust. È stato votato dal togato di
Magistratura Indipendente (corrente di destra) Claudio Galoppi e dalla consigliera laica di
Forza Italia, Elisabetta Casellati. Il procuratore di Messina, Guido Lo Forte, ha avuto un
solo voto, quello della presidente della Commissione, Maria Rosaria Sangiorgio, di Unicost
(corrente centrista). Significativa l’astensione del laico del Pd, Giuseppe Fanfani. È la
conferma che il dado non è tratto. Sul voto, probabilmente il 17 dicembre, peserà molto
quello dei laici e potrebbe non rispecchiare, almeno in parte, l’appartenenza di partito ma
la volontà, espressa nei corridoi dal vicepresidente Giovanni Legnini, che ricalca quella del
presidente Giorgio Napolitano, di avere a Palermo un procuratore che sia prudente.
Riflessione che sembra incarnare il ritratto di Lo Voi. L’ex pm di Palermo, però, non ha mai
diretto un ufficio giudiziario. Se prevarranno alcuni giochi politici, nonostante debba
guidare una procura ad alto rischio come quella Palermo, questa sua inesperienza non
conterà.
LEGNINI in questi giorni medierà fra i gruppi perché ci sia un procuratore con più consensi
possibili. Può farcela anche Lari, ex procuratore aggiunto di Palermo. Oltreché su Area
potrebbe contare su una parte di Unicost e di laici. Proprio gli otto laici, Legnini, il
presidente e il procuratore generale della Cassazione, Giorgio Santacroce e Gianfranco
Ciani saranno determinanti. Infatti, tra i togati la maggioranza ce l’ha Area, sette
consiglieri, a seguire Unicost, cinque, e Magistratura Indipendente quattro. Ma la partita di
Palermo si incrocia anche con quella di Milano. Bruti è un esponente di spicco di
Magistratura democratica e se dovesse rimanere al suo posto, secondo la logica
correntizia, Palermo, che ha anche il procuratore generale Roberto Scarpinato,
espressione della sinistra, non potrebbe avere anche un procuratore della stessa area. Un
vantaggio, in astratto, per Lo Voi, anche se diversi togati, non solo di Area, non sarebbero
disposti a votarlo.
NEL PRECEDENTE Csm la commissione aveva attribuito tre voti a Lo Forte, due a Lari e
uno a Lo Voi. Dunque, la nomina di Lo Forte sembrava quasi fatta. Ma è stata fermata da
una lettera del Quirinale che ha chiesto di occuparsi delle nomine in ordine cronologico. In
questi giochi ancora aperti non si può escludere l’effetto sorpresa Lo Forte, ma al
momento appare improbabile. Il padre dell’inchiesta sulla trattativa, l’ex magistrato Antonio
Ingroia ha espresso la preoccupazione che possa prevalere una volontà di
normalizzazione e perché questo non accada ha auspicato la nomina di Lo Forte, ex
aggiunto a Palermo, che fu tra i pm del processo Andreotti, oppure di Lari, nonostante
Ingroia da procuratore aggiunto palermitano abbia avuto con lui dei contrasti in merito alla
gestione di Massimo Ciancimino e alla trattativa Stato- mafia.
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SOCIETA’
del 05/12/14, pag. 25
Fondi tagliati del 70% e pochi asili nido
L’Italia si arrende alla povertà dei bimbi
In miseria 1,5 milioni di minori. Le ricerche: cattiva alimentazione e
offerta educativa carente
Una spending review implacabile l’han fatta davvero: sui fondi per combattere la povertà.
Dal 2008 a oggi hanno tagliato il 69,4%. Proprio mentre crescevano gli affanni delle
famiglie: la metà di quelle con tre figli, nel Sud, è in miseria. Lo dicono la Fondazione
Zancan e un rapporto della Commissione parlamentare sull’infanzia: la crisi pesa
soprattutto sui bambini.
Gli ultimi dati del Centro studi veneto mettono i brividi: tra il 2011 e 2013 «la percentuale di
famiglie con almeno un figlio minore relativamente povere è aumentata di quasi 5 punti
percentuali, dal 15,6% al 20,2%». A dispetto di tutte le chiacchiere sulla famiglia («Ci vuole
ben altro che qualche spot coi cuccioli in braccio, bambini o cagnolini che siano», ha
scritto furente il direttore di Famiglia Cristiana Antonio Sciortino) il quadro è drammatico.
«La situazione è particolarmente grave per le famiglie con tre o più figli minori», insiste il
dossier: per oltre un terzo sono «relativamente povere». Nel Mezzogiorno, come
dicevamo, il quadro è ancora più fosco: è povera più di una famiglia su tre (36,4%) con
almeno un figlio minore e poverissimo il 51,2% di quelle che hanno tre o più figli piccoli o
adolescenti.
«I bambini sono un segno. Segno di speranza, segno di vita, ma anche segno
“diagnostico” per capire lo stato di salute di una famiglia, di una società, del mondo
intero», ha ricordato mesi fa papa Francesco. Se è così, allarme rosso: le famiglie con
almeno un bambino sprofondate nella povertà assoluta, spiega il dossier «La povertà
infantile in Italia» della Fondazione, negli ultimi tre anni sono raddoppiate, dal 6,1 al
12,2%, e sono oggi il triplo rispetto al 2007, l’ultimo anno prima della crisi. E così,
conferma l’Istat, sono aumentati i bambini e gli adolescenti che versano in condizioni di
miseria: erano 723 mila nel 2011, sono quasi un milione e mezzo oggi.
Ancora più dura però, per certi aspetti, è la bozza del rapporto finale dell’«Indagine
conoscitiva sulla povertà e il disagio minorile» della Commissione parlamentare per
l’infanzia, che ha come presidente Michela Vittoria Brambilla e come relatrice Sandra
Zampa. Dove si riconosce la capitolazione dello Stato in quella che dovrebbe essere una
guerra alla miseria, alla fame, al degrado del nostro capitale più prezioso: i bambini.
Dopo avere ricordato il progressivo smottamento della società, compreso il dato che la
povertà assoluta è aumentata perfino «tra gli impiegati e i dirigenti» e «anche in vaste aree
del Nord», la relazione spiega che «nel 2007 i bambini che non potevano permettersi un
pasto proteico una volta ogni due giorni erano il 6,2%, nel 2013 tale numero risultava già
più che raddoppiato, raggiungendo la percentuale del 14,4». Un bambino su sette. In un
Paese che ancora si fa vanto di appartenere al G8.
Certo, la drammaticità di oggi è diversa da quella denunciata dall’inchiesta parlamentare
sulla miseria di Stefano Jacini nel 1880 o da quella analoga ripetuta nei primissimi anni 50
del Novecento. Proprio perché ricordiamo quei nostri nonni bambini ai tempi in cui il
medico Luigi Alpago Novello scriveva nel 1900 che nelle famiglie di Conegliano la perdita
di un figlioletto causava a volte «minor dolore non dirò di un grosso animale bovino ma di
una semplice pecora», riscoprire questa Italia povera getta sale su ferite antiche.
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Che cosa hanno fatto i governi per contenere questa nuova ondata di povertà? Risponde
la Commissione parlamentare d’inchiesta: troppo poco. Soprattutto rispetto agli altri: «Con
riferimento all’anno 2011, la Francia ha ridotto del 17% la povertà dei minori, la Germania
del 17,4%, il Regno Unito del 24,4%, la Svezia del 17,5%» e noi solo del 6,7%. Peggio
perfino della Spagna (7,6%) che certo meno in crisi non è.
A farla corta: nel 2009 lo Stato stanziava per le politiche sociali, complessivamente, due
miliardi e 523 milioni e oggi, come dicevamo, meno di un terzo. Il 7° «rapporto
aggiornamento Crc», citato nella relazione, fornisce dettagli in più: il Fondo per le politiche
della famiglia, ad esempio, nel 2009 era a 186 milioni e mezzo, oggi meno di 21. Nove
volte di meno.
Anche l’ultimo «Report Card» dell’Istituto degli Innocenti, dal titolo «Il benessere dei
bambini nei Paesi ricchi», ci inchioda: «Nella classifica generale l’Italia occupa il 22º posto,
alle spalle di Spagna, Ungheria e Polonia...». Di più, incalza il rapporto parlamentare: nel
Mezzogiorno «tende ad affermarsi un modello nutrizionale sempre più simile a quello
esistente nei Paesi del Sud del mondo, in cui si abbandona la tradizione alimentare
nazionale a favore di un consumo eccessivo del cosiddetto junk food , il cibo ipercalorico a
scarso valore nutrizionale, che però vanta un costo basso».
Per non dire della povertà educativa, strettamente legata a quella economica: la regione
più povera sotto questo profilo, «cioè dove si riscontra la minore presenza di servizi
educativi, è la Campania, seguita ex aequo da Puglia e Calabria e poi dalla Sicilia».
Nessuno, però, può chiamarsi fuori: «Si osserva che le regioni definite “ricche” di offerta
educativa in Italia, vengono qualificate come “povere” nel confronto con altri Paesi europei.
Volendo operare un esempio concreto, per la copertura dei nidi, il target europeo è il 33%,
mentre in Italia, al di là dell’Emilia Romagna, che risulta la prima Regione, con il 28%, la
media nazionale si attesta intorno al 17».
Cosa fare? Forse la soluzione giusta, rispondono sia la Commissione e sia la «Zancan»,
non sono i «bonus bebè». Cioè la distribuzione a pioggia di manciate di soldi: molto
meglio, ad esempio, concentrare gli sforzi e spostare 1,5 miliardi dagli assegni familiari su
un progetto per raddoppiare i «nidi» così da accogliere 403 mila bambini. Cosa che
consentirebbe, tra l’altro, di «creare oltre 40 mila posti di lavoro».
Gian Antonio Stella
Del 5/12/2014, pag. 38
OCCUPIAMOCI DELLE CASE
TITO BOERI
FORSE Matteo Salvini ha posato per Oggi credendo di avere indosso i nuovi abiti del
sindaco. La sua strategia è ormai chiara: prepara la candidatura scatenando guerre fra
disperati. Non ci risulta che quando era capogruppo in Comune o adesso da segretario
federale della Lega, abbia fatto alcunché per spingere le maggioranze di cui faceva parte
in città e in Regione ad ampliare l’offerta di alloggi popolari e a ristrutturare il patrimonio di
edilizia abitativa pubblica. Eppure, fin quando ci sarà una sproporzione così forte fra
domanda e offerta di alloggi popolari, il problema rimarrà ingestibile.
In Italia ci sono circa 700mila famiglie in attesa di assegnazione a fronte di 45mila alloggi
di edilizia residenziale pubblica disponibili ogni anno. Come dire che una famiglia su 15
viene accontentata ogni anno, con liste d’attesa che durano quanto un terzo della vita
lavorativa. Più di un quarto degli italiani che dormono per strada o nei centri di assistenza
a Milano e Roma hanno fatto domanda per una casa popolare e, nonostante debbano
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avere priorità, sono mediamente in attesa da 6 anni. Molte case popolari sono degradate,
fino a un terzo quelle sfitte. Renderle disponibili ridurrebbe lo squilibrio fra domanda e
offerta, ma le agenzie territoriali che le gestiscono (l’Aler a Milano e l’Ater a Roma) non
hanno i soldi per ristrutturare gli alloggi sfitti. Hanno fatto investimenti sbagliati e non
riescono a riscuotere gli affitti, dopo che la crisi ha fatto lievitare tassi di morosità già
elevati in partenza e i canoni sono bassi (in media meno di 100 euro al mese). In questo
contesto, le occupazioni abusive sono spesso l’unico modo per avere una casa in tempo
utile e chi occupa può sperare di rimanere a lungo nell’alloggio. A Roma, ad esempio, ci
sono mediamente 300 sgomberi all’anno su circa 5mila alloggi abusivi, come dire che si
può aspirare a rimanere fino a 16 anni in una casa abusiva.
Mentre la popolazione degli immigrati aumentava avvicinandosi alla media europea, il
nostro Paese ha ridotto lo stock di case popolari. Dapprima ha destinato i fondi della
Gescal, edilizia residenziale pubblica, al pagamento delle pensioni. Poi ha proceduto a
vendere gli alloggi pubblici, mediamente 20mila alloggi alienati ogni anno per pochi soldi
(in media 23mila euro l’uno). Svenduti senza ristrutturarli. Lo Sblocca Italia continua su
questa linea, incentivando le dismissioni. Abbiamo, nel frattempo, smesso di costruire
nuove case popolari, quando nel Regno Unito e in Francia, in previsione degli effetti della
crisi, si facevano massicci investimenti in nuove case popolari. Certo, avevamo vincoli di
bilancio stringenti, ma anche quando i fondi erano disponibili, come nel caso dei piani per
l’Expo a Milano, si è scelto di ignorare l’edilizia popolare. Il risultato è che l’Expo rischia di
aprirsi con le barricate in strada. Vedremo se i piani per l’Olimpiade a Roma che Renzi
vuole rilanciare contempleranno interventi a Tor Sapienza. Fatto sta che il nostro Paese
ha un patrimonio di edilizia residenziale pubblica fatiscente e in diminuzione mentre lo
stock del cosiddetto social housing (che comprende gli alloggi di edilizia popolare o
convenzionata forniti in cooperazione con il privato) è, in rapporto alla popolazione, il più
basso d’Europa, ad eccezione di Ungheria, Grecia ed Estonia.
Paradossalmente le colpe di questo stato di cose sono proprio di chi oggi ne ottiene un
tornaconto elettorale. Il deterioramento delle case popolari, l’ampliarsi del divario fra
domanda ed offerta, hanno coinciso con la regionalizzazione dell’edilizia residenziale
abitativa. Le agenzie regionali non sono all’altezza e men che meno le società municipali
(come Metropolitana milanese) che ne rilevano quote pur non avendo la struttura per
riscuotere gli affitti e ristrutturare le case. Bisognerebbe revocare funzioni e patrimonio di
edilizia residenziale pubblica agli enti locali che hanno dimostrato di non saperli gestire,
invocando i “poteri sostitutivi” previsti dall’art. 120 della Costituzione.
Gestendo questo patrimonio centralmente, si potrebbe meglio resistere alle pressioni delle
lobby locali che hanno impedito che le case andassero ai più bisognosi. Sarà anche
possibile beneficiare dei fondi europei per fare gli investimenti nella ristrutturazione delle
case sfitte che possono, in tempi brevi, ridurre il divario fra domanda ed offerta. Perché
una cosa è certa: se vogliamo continuare a puntare sull’immigrazione per tappare i buchi
del nostro stato sociale nell’assistere i minori e gli anziani non autosufficienti, se vogliamo
attrarre immigrati più istruiti e che possano integrarsi nel nostro tessuto sociale, non
possiamo ignorare il problema di chi una casa non ce l’ha, non ha i mezzi per comprarsela
e, almeno in una fase iniziale, non riesce a pagarsi gli affitti nelle aree metropolitane in cui
il lavoro è concentrato. Se invece non vogliamo investire in nuove case popolari e avere
chi se ne occupa veramente, non rimane che essere espliciti sui criteri di razionamento. La
Lega ne propone uno che è già stato in gran parte attuato: escludere gli immigrati
dall’accesso alle case popolari. I non italiani sono nettamente sottorappresentati quando si
tenga conto del loro livello di reddito. Siamo uno dei paesi Ocse in cui il gap fra immigrati e
autoctoni nell’accesso a case popolari o con fitti convenzionati è più forte. Escludendoli
dalle nuove assegnazioni ridurrebbe solo marginalmente la lunghezza delle liste d’attesa
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per gli altri. La criminalità organizzata raziona i beneficiari di occupazioni abusive in base
ai servizi che le vengono forniti da chi cerca casa. A Roma un fantomatico Comitato di
Lotta per la Casa si faceva pagare dagli occupanti abusivi estorcendo da loro servizi in
cambio di protezione. I centri sociali hanno criteri di razionamento basati sulla cooptazione
e la militanza. Se si vuole ripristinare la legalità, lo Stato deve proporre un criterio di
razionamento e metterlo in atto. Oggi non è così. Sulla carta conta il reddito, ma il 15% di
chi alloggia in case popolari è al di sopra della linea della povertà, mentre in Paesi in cui ci
sono molte più case popolari, ai non-poveri non va più del 2-3%, una percentuale che
probabilmente corrisponde a persone che sono da poco uscite dallo stato di bisogno.
del 05/12/14, pag. 8
Stefano Rodotà
La parola chiave degli esclusi
Roberto Ciccarelli
Un'intervista al giurista italiano in occasione dell'uscita del nuovo
saggio sulla solidarietà. Un concetto e una pratica da riscoprire nel
lungo inverno della crisi. E un possibile strumento per dare forma
politica alla critica del neoliberismo
La solidarietà è un’utopia necessaria. Stefano Rodotà spiega il titolo del suo nuovo libro
(Laterza, pp. 141, 14 euro) con la storia di Sandra, l’operaia interpretata da Marion
Cotillard nel film Due giorni e una notte dei fratelli Dardenne. «Nel film c’è la scomparsa
della solidarià tra persone che lavorano nella stessa fabbrica e l’impossibilità di
riaffermarla — racconta Rodotà — Sandra dice di non volere “fare la mendicante” quando
chiede ai suoi compagni di lavoro di rinunciare al bonus di mille euro per impedire il suo
licenziamento. C’è un referendum che ha un esito negativo. Sandra però riacquista la sua
dignità perché respinge la proposta di essere riassunta a tempo pieno al posto di un
giovane collega africano precario con un contratto a termine. La solidarietà verso questo
giovane, che ha votato per lei pur sapendo che l’avrebbe danneggiato, restituisce la
dignità dell’essere. Sandra scopre che attraverso la lotta può riaffermare la solidarietà. Nel
film c’è un compendio di quello che stiamo vivendo».
Perché si torna a parlare di solidarietà?
La crisi economica ha fatto crescere le diseguaglianze e ha diffuso le povertà. Affidarsi alle
forze del mercato è un’opzione debole ben al di sotto della necessità di trovare nuovi
principi di riferimento. La solidarietà riemerge nei modi più diversi e supera le distanze
esistenti. Ad esempio nel discorso sulle pensioni quando si pone il problema della
solidarietà tra le generazioni. Nella salute dove non è possibile limitarsi all’oggi per
garantire le condizioni minime di vita. Non è un processo facile. Nelle situazioni di difficoltà
le distanze possono crescere insieme all’impossibilità di essere solidali.
Si può essere solidali nelle periferie di Roma o Milano tra crisi, sentimenti xenofobi
e sgomberi delle case occupate?
A me sembra che questi conflitti siano indotti anche da chi vuole sfruttare le tensioni
esistenti. Ma c’è un’altra ragione: finché le persone erano in condizione di pagare una
casa non ritenevano intollerabile il fatto che ci fosse qualcuno in difficoltà che occupava un
alloggio o non pagava l’affitto di una casa popolare. Con la crisi ci si è ritrovati in una
situazione conflittuale. Pagare un affitto è intollerabile, mentre altri non lo pagano. Le
condizioni materiali della solidarietà sembrano distrutte, mentre registriamo un
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rovesciamento del principio: si costruiscono solidarietà di prossimità o vicinanza e si
diventa solidali con chi rifiuta la solidarietà agli altri, ai più lontani, agli stranieri o ai rom.
Qual è la sua definizione di solidarietà?
Mi sembra che il commento di Luigi Zoja sulla parabola del buon samaritano sia calzante.
Qui Cristo mostra il contenuto rivoluzionario del suo messaggio: bisogna amare lo
straniero, non il prossimo. Amare lo straniero è il punto chiave della solidarietà. La
solidarietà per vicinanza, per appartenenza, sono facili. La solidarietà dev’essere praticata
in tempi difficili che spingono anche a rotture. Se viene abbandonata, vengono meno le
condizioni minime della democrazia, cioè il riconoscimento reciproco e la pace sociale.
Con Jürgen Habermas dico che la solidarietà è un principio che può eliminare l’odio tra gli
stati ricchi e quelli poveri. La solidarietà serve infatti a individuare i fondamenti di un ordine
giuridico mancando il quale tutte le nostre difficoltà si esasperano sul terreno personale e
su quello sociale. La solidarietà è, infine, una pratica che mette al centro i diritti sociali.
Questo è un altro punto del libro: i diritti sociali non possono essere separati dagli altri.
Qual è stato il contributo del movimento operaio alla storia della solidarietà?
L’Internazionale ha mostrato che la solidarietà non è un sentimento generico di
compassione nei confronti dell’altro, né un elemento storicamente indeterminato. La
solidarietà dei moderni è una costruzione che ha avuto sempre bisogno di un soggetto
storico. Quello per eccellenza è stato il movimento operaio. C’è un canto rivoluzionario che
dice: «Sebben che siamo donne, paura non abbiamo, per amor dei nostri figli, in lega ci
mettiamo». Qui c’è la consapevolezza orgogliosa della dignità delle donne che diventa
principio di azione collettiva. Su questi principi gli esclusi si sono autorganizzati, le loro
leghe hanno permesso ai socialisti e ai cristiani di trovare punti di convergenza non
compromissoria. Nell’Internazionale si voleva costruire un’umanità che non era la somma
di persone, ma la congiunzione di una serie di soggetti che agiscono collettivamente in
vista di un interesse comune. Questo ha portato al riconoscimento dell’esistenza libera e
dignitosa di cui parla la nostra Costituzione.
Lo Stato sociale ha modificato questa idea del movimento operaio. La sua crisi
permetterà alla solidarietà di sopravvivere?
Ragionare sulla solidarietà come principio significa riconoscerne la storicità. La solidarietà
c’era prima dello stato sociale e ci sarà anche dopo. Per questo oggi si può dire che è il
principio di riferimento per la ricostruzione del tessuto politico istituzionale e sociale. La
solidarietà va ripensata oltre lo stato sociale. Per questo è essenziale fondare un nuovo
spazio costituzionale europeo ispirato a questo principio.
In che modo si può costruire uno spazio simile?
Il riferimento è alla carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, la Carta di Nizza alla
cui scrittura ho partecipato. Quella carta nacque nel 1999, in una temperie politica e
culturale diversa da quella attuale. Allora si voleva andare oltre lo stato sociale nazionale e
si fece una diagnosi più radicale di quella che generalmente si fa oggi sull’Europa.
L’Unione europea non ha solo un deficit di democrazia, ma un deficit di legittimità. Questo
deficit può essere recuperato attraverso i diritti fondamentali, ispirati alla dignità e alla
solidarietà, e non al mercato. Ricordo che i laburisti di Tony Blair fecero molta resistenza e
si opposero persino al diritto di sciopero. A tanto era arrivata la loro rottura con la
tradizione operaia. So bene che sulla Carta di Nizza ci sono state polemiche. Oggi
dovrebbe però far pensare il fatto che è stata messa da parte quando all’Europa è stata
imposta un’altra costituzione basata sulle politiche dell’austerità.
Esiste un soggetto capace di riportare la solidarietà al centro dell’attenzione?
Siamo legati ad una modernità che ha riconosciuto il creatore di diritti in un soggetto
sociale: la borghesia fece nascere i diritti civili, gli operai quelli sociali. Poi c’è stata una
scomposizione dei soggetti, si è parlato di una classe precaria, di quella degli hacker. Ci
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sono altre definizioni che dimostrano l’esistenza di condizioni umane che superano il fatto
personale e sono fatti politici. Ma da sole non bastano. Per questo la solidarietà è
importante. Questa è la dimensione utopica: è la condizione che ci permette di non
rassegnarci alla frammentazione sociale e ai meccanismi di esclusione.
Il reddito universale può essere considerato uno strumento per affermare la
solidarietà a livello europeo?
Ne sono convinto. Molti sostengono che entra in contraddizione con l’articolo 1 della
nostra costituzione. C’è un’altra obiezione: il riconoscimento del reddito affievolisce la lotta
per il lavoro. In queste prospettive vedo un errore. Si considera che la disoccupazione sia
sempre una fase transitoria e la piena occupazione resta un obiettivo a portata di mano.
Ma questi discorsi oggi sono lontanissimi. Del reddito universale è possibile fornire varie
gradazioni: da quello minimo a quello di base. Tutte possono essere usata per liberare i
singoli dal ricatto del lavoro precario o non pagato; a condurre un’esistenza libera e
dignitosa; a eliminare la competizione tra i poveri. Montesquieu diceva che abbiamo
bisogno di istituzioni, non di promesse né di carità. Il reddito universale dimostra che la
solidarietà è un’utopia profondamente piantata nella realtà.
del 05/12/14, pag. 8
L’attitudine che ricostruisce il legame sociale
Roberto Ciccarelli
Saggi. Neo-mutualismo, cooperazione, condivisione, dignità e lotta alle
diseguaglianze nel nuovo libro sulla solidarietà di Stefano Rodotà
Dopo avere registrato l’impossibilità di trovare un interlocutore nella logica di mercato,
scrive Stefano Rodotà in Solidarietà, un’utopia necessaria (Laterza, pp.144, euro 14), la
solidarietà ha ritrovato una forza autonoma. Si sta sciogliendo il lungo inverno che l’ha
ristretta nel terzo settore, nel volontariato, nei legami corporativi. Questo principio ritorna in
libri, film e nelle pratiche del lavoro autonomo, in quelle dei dipendenti, del precariato. Si
parla di neo-mutualismo, di coalizioni sociali, di lotte per l’uguaglianza e per la dignità delle
persone.
Non stiamo tornando alle origini, avverte Rodotà. Eppure la durezza della crisi economica
induce a confondere la solidarietà con l’assistenzialismo o la pura beneficenza. Ai più
deboli viene negata la loro qualità di soggetti di diritto, mentre la loro dipendenza sociale
viene istituzionalizzata. Si parla di «poveri», e non di vittime della lotta di classe. La loro
situazione viene affrontata con la logica del dono, mentre invece bisogna riscoprire gli
strumenti dell’organizzazione politica e dell’emancipazione degli oppressi. Bisogna trovare
cioè un’alternativa al «comunitarismo», l’opzione politica dei populisti per i quali la piccola
patria dei simili si rafforza contro gli stranieri e i più deboli tra i deboli.
La solidarietà va ripensata in un contesto almeno europeo, l’unico possibile per evitare di
alimentare la frammentazione sociale generale. L’utopia concreta di Rodotà si nutre di un
pensiero cosmopolita, considera l’umanità come parte agente di un disegno politico
universale, non il rifugio nelle vecchie sovranità dello Stato nazione. Come sempre in
Rodotà, politica e costituzione, pratiche e principi giuridici, legami sociali e parità dei diritti,
camminano insieme.
Ripercorrendo la storia del movimento operaio, il giurista valorizza la solidarietà degli
oppressi che sprigiona una forza dinamica che trascina oltre la logica della fratellanza. A
sinistra tale solidarietà è stata considerata uno strumento troppo debole per scalfire
l’ordine dominante. Rodotà propone una controargomentazione convincente: senza
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questo legame non esiste una forza sociale. Questa forza non impone un principio
alternativo rispetto alle relazioni commerciali e non afferma valori irriducibili alla mera
convenienza economica.
La domanda principale di questo libro è sul soggetto protagonista della solidarietà. Per
lungo tempo la sua posizione è stata ricoperta dalla classe operaia. La solidarietà permise
di superare la sua eterogeneità, la spinse alla cooperazione e ad affermare i diritti sociali.
Oggi questo ruolo propulsivo è venuto meno. Rodotà avanza una tesi: ieri, come oggi, la
solidarietà è una pratica che riforma i legami, ricompone un soggetto necessariamente più
ampio del precedente, produce un’attitudine cooperativa lì dove sembra scomparsa. La
solidarietà è «un movimento» che mantiene l’orizzonte aperto oltre le miserie del presente.
Questo è un antidoto al realismo dei rapporti di forza che demoliscono la nuda logica del
potere.
Del 5/12/2014, pag. 28
Un milione di firme contro il libero scambio
dagli Ogm ai farmaci le paure degli europei
Successo dei comitati per lo stop al Trattato atlantico Ttip Nessun
valore legale, ma la Ue dovrà tenerne conto
ANDREA BONANNI
In due mesi hanno raccolto più di un milione di firme di cittadini europei contrari al trattato
di libero scambio con gli Usa e il Canada, il cosiddetto Ttip. Ma la Commissione non
riconosce la legittimità dell’iniziativa, e così ora I responsabili di “Stop Ttip”, che unisce 320
organizzazioni di 24 Paesi, hanno presentato un ricorso alla Corte di Giustizia europea per
bloccare il negoziato o per ricominciarlo su basi completamente diverse. Da un punto di
vista legale, non hanno molte probabilità di riuscirci, perché le leggi di iniziativa europea
non si applicano ai trattati o ai negoziati internazionali. Ma un numero così elevato di firme
raccolte in così poco tempo pone comunque un problema politico enorme, di fronte al
quale né la Commissione né il Parlamento europeo possono restare indifferenti.
Il Ttip, acronimo di Transatlantic Trade and Investment Partnership, è il Trattato che
dovrebbe far compiere alla globalizzazione uno storico e decisivo passo in avanti unendo
Europa, Canada e Stati Uniti in un unico mercato di quasi un miliardo di consumatori. Ma,
grazie anche ad una cattiva presentazione da parte della precedente Commissione
Barroso, è divenuto rapidamente il capro espiatorio su cui si sono concentrate ogni sorta
di critiche e di accuse. Tanto che, in occasione della sua ultima visita a Bruxelles pochi
giorni fa, il segretario di stato americano John Kerry ha spiegato che il Trattato è « vittima
di un malinteso che dobbiamo risolvere e risolveremo nei prossimi mesi. Questo è un
accordo che punta ad elevare gli standard al massimo livello, non ad abbassarli al
minimo». Nelle ambizioni dei negoziatori, il Ttip dovrebbe essere qualcosa di molto più
ampio di un accordo commerciale. Esso prevede tre campi di intesa tra europei e
americani: la liberalizzazione dell’accesso ai mercati, con l’abolizione delle tariffe doganali;
la convergenza dei regolamenti, in base al principio che un prodotto autorizzato in Europa
può essere venduto negli Usa e viceversa, senza ulteriori trafile burocratiche; la
definizione di nuove regole commerciali per abolire le barriere non doganali e garantire,
per esempio, la tutela dei marchi di origine anche al di là dell’Atlantico.
Secondo la Commissione, che ha appena ricevuto dai governi il mandato per aprire un
nuovo round di negoziati e concluderli possibilmente entro il 2015, prima delle elezioni
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presidenziali americane, i benefici di un accordo sarebbero enormi: 119 miliardi all’anno
per l’Unione europea e 95 miliardi per gli Stati Uniti. Le esportazioni dall’Ue verso gli Stati
Uniti crescerebbero del 28 per cento, con un aumento di 187 miliardi di euro. In totale le
esportazioni europee aumenterebbero del 6 per cento e quelle americane dell’8 per cento.
Ma è evidente che un accordo di questo genere, basato sul principio del riconoscimento
reciproco delle autorizzazioni commerciali, comporta una rivoluzione nel mondo dei
consumi. I nemici del Trattato sostengono che gli europei saranno invasi da carne agli
ormoni, o trattata con antibiotici, di polli sterilizzati con la varechina, di grano e verdure
prodotti da colture geneticamente modificate. E che in generale l’Europa subirà la
concorrenza sleale dell’industria agroalimentare americana che si avvantaggia di una
legislazione meno severa di quella europea. I difensori dell’accordo sostengono che gli
europei saranno liberi di scegliere grazie ad un dettagliato sistema di etichettatura, e
ribattono dicendo che la produzione europea, di qualità mediamente superiore, sarà
finalmente tutelata su un mercato americano che si sta ormai orientando verso prodotti più
sani e più raffinati.
Naturalmente l’ago della bilancia penderà da una parte o dall’altra in base alle conclusioni
concrete a cui arriveranno i negoziatori. Alcuni settori, per esempio, come l’audiovisivo,
sono già stati esclusi dal tavolo delle trattative proprio per tutelare le normative poste a
salvaguardia della specificità culturale europea. In altri campi, fa molto discutere la
cosiddetta clausola Isds, che consentirebbe alle multinazionali americane di ricorrere ad
arbitrati internazionali per aggirare specifiche normative europee. Ma quello che conta,
sottolinenano i difensori del Trattato, è che solo mettendosi insieme America ed Europa
potranno fare fronte alla concorrenza delle nuove economie emergenti, imponendo a Cina,
India o Brasile di adeguarsi ai loro standard qualitativi.
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BENI COMUNI/AMBIENTE
Del 5/12/2014, pag. 4
Il grande business del «cartello» dei rifiuti
Mondo di mezzo. Gian Mario Baruchello è indagato per corruzione
aggravata e turbativa d'asta. Quello dell'immondizia è l'altro filone
dell'inchiesta romana. Sulla gestione un presunto monopolio
Marco Omizzolo, Roberto Lessio
Ha un curriculum lungo 30 pagine Gian Mario Baruchello, professore di Ingegneria
Ambientale e Sanitaria all’Università Roma Tre e indagato nell’inchiesta Mondo di
Mezzo dalla Procura di Roma sulla Mafia capitolina. Le accuse nei suoi confronti sono di
corruzione aggravata, turbativa d’asta e illecito finanziamento. In realtà dietro al suo nome
si cela il grande «cartello» della lobby dell’immondizia nostrana e dei suoi compromessi
con la politica, i traffici illeciti e la criminalità organizzata. In sostanza quello che la Commissione Parlamentare d’inchiesta sul traffico dei rifiuti individuò già alla fine del secolo
scorso come «un oligopolio tendente al monopolio» e rimasto nel frattempo invisibile per
l’Antitrust. Da quasi trenta anni Baruchello progetta impianti di smaltimento dei rifiuti in giro
per l’Italia; soprattutto al centro-sud ma anche con qualche puntatina in Veneto e in Piemonte. Gli incarichi gli sono stati affidati, dietro lauto compenso, soprattutto da amministrazioni pubbliche, ma i suoi referenti finali sono l’avvocato Manlio Cerroni e la famiglia
napoletano-milanese dei Colucci (proprietari dei gruppi Daneco e Aspica) dei quali è il tecnico di fiducia. Il suo ruolo «double-face» si può riscontrare proprio dalle attività della
stessa Commissione Parlamentare d’inchiesta. In una relazione del marzo 2000 (Presidente Massimo Scalia) che descriveva l’intenso intreccio societario esistente all’epoca tra
società che si occupavano di rifiuti, Gian Mario Baruchello appariva come uno dei personaggi chiave nei CdA delle varie «scatole cinesi» che da sempre caratterizzano il settore.
Appena sette anni dopo lo stesso professore è divenuto consulente proprio di quella Commissione; ovviamente pagato con soldi pubblici. Con i suoi progetti Cerroni e i Colucci
hanno realizzato proprio intorno alla Capitale un monopolio impiantistico grazie al fattivo
appoggio delle amministrazioni locali. Basti pensare al Consorzio Conea (soci Cerroni,
Ama e Acea) che dovrebbe realizzare un inceneritore a Cecchina, nel Comune di Albano
Laziale, dove ci sono gli impianti appartenenti all’ottavo Re di Roma. A tale «cartello»
infatti appartengono anche le discariche e gli impianti di selezione di Malagrotta (con relativo gassificatore), di Guidonia-Montecelio, di Borgo Montello — Latina (gestione Ecoambiente) e di Viterbo (che serve anche la Provincia di Rieti). Un cartello che vede male la
chiusura di tali impianti attraverso la raccolta differenziata, che sarebbe dovuta arrivare al
65% in tutta Italia entro il 31 dicembre 2012.
La maxi multa da 42,8 milioni di euro inferta dalla Corte di Giustizia Europea al nostro
paese nei giorni scorsi era stata preceduta il 15 ottobre da analoga sentenza che riguardava proprio queste discariche laziali dove non è mai mancata la firma progettuale del
Prof. Ing. Gian Mario Baruchello. In tal senso il «capolavoro» è stato realizzato a Latina
con il decisivo contributo iniziale del defunto Sindaco «repubblichino» Ajmone Finestra
e con il perfezionamento attuato dal suo successore Vincenzo Zaccheo, il cui fratello troverà posto nei Collegi Sindacali di alcune società dei Colucci. Era il 1996 quando
l’ingegnere fu nominato membro della Commissione che doveva valutare le offerte per la
costituzione della Latina Ambiente SpA (51% delle azioni in mano al Comune e 49% ai privati); società della quale fu nominato poi Consigliere di Amministrazione anni dopo.
L’odore di un accordo di cartello era presente già in quell’occasione. Le offerte ammesse
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alla fase finale della gara, oltre a quella della Manutencoop (Legacoop) eliminata per un
vizio di forma, furono quelle della Slia di Manlio Cerroni e della Colucci Appalti;
quest’ultima all’epoca non disponeva del certificato antimafia perché i suoi amministratori
erano sotto indagine a Napoli (vicenda poi finita nel nulla).
Per quanto assurdo possa sembrare la legge prevedeva l’obbligo di tale certificato solo in
caso di vittoria della relativa offerta. E così fu. Come primo atto il Consiglio di Amministrazione, dove i privati sono in maggioranza, indebitò pesantemente la società. Passò
appena un anno quando le Guardie Provinciali riscontrarono che dai vecchi siti dismessi
della discarica di Borgo Montello (S zero, S1, S2 e S3) c’era uno sversamento di percolato
nell’adiacente fiume Astura. Dai controlli risultò che la società proprietaria dei siti era fallita
e che mancava la fidejussione bancaria garante della gestione «post mortem» degli
impianti. Invece di perseguire i responsabili, l’amministrazione comunale passò da una
«bonifica urgente» alla realizzazione di una nuova discarica realizzata sopra a quella precedente. L’inquinamento non cessò mai. A firmare il progetto e a dirigere i relativi lavori fu
Gian Mario Baruchello. Nacque così la gestione Ecoambiente Srl, controllata al 51% dalla
Latina Ambiente (e quindi dal Comune) e per il 49% da Cerroni e dai Colucci, nel cui CdA
(anno 2000), siederà anche l’Ing. Achille Cester. Quest’ultimo ex uomo di fiducia dell’altro
«re» delle discariche italiane: il defunto Giuseppe Grossi titolare della Green Holding i cui
familiari sono stati arrestati nei giorni scorsi per un’altra inchiesta svolta dalla Procura di
Latina relativa a truffe realizzate a danno dei Comuni locali. E intanto il business del «cartello» continua come se nulla fosse.
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CULTURA E SCUOLA
del 05/12/14, pag. 49
Persi 5 milioni di libri in un anno ma i
ragazzini salvano il mercato
L a crisi del settore c’era. E c’è ancora. Anche quest’anno infatti un segno meno
generalizzato caratterizza l’intero mercato del libro, non solo quello prodotto dalla piccola e
media editoria i cui marchi principali, circa quattrocento, sono riuniti da ieri e fino all’8
dicembre nel Palazzo dei Congressi dell’Eur, a Roma, per la tredicesima edizione della
fiera «Più libri più liberi».
Si comprano dunque sempre meno volumi: in calo sia le vendite per numero di copie, che
«a valore» (il fatturato in base al prezzo di copertina), come risulta chiaramente
dall’annuale indagine che la società Nielsen conduce basandosi sul cosiddetto
«scontrinato» (dati dunque relativi a numeri e soldi) e presentata ieri pomeriggio nel corso
della kermesse romana.
I piccoli e medi editori (lo studio considera tali quelli che hanno un venduto nei canali trade
libri per un valore non superiore ai dieci milioni di euro) non vanno in sostanza né meglio
né peggio dei grandi. Ma tutti vanno male. Considerando infatti l’intero mercato — grandi e
piccoli insieme, tutti i canali di vendita compresa la grande distribuzione — nei primi dieci
mesi di quest’anno (da gennaio a ottobre) la perdita segna un meno 4,6 per cento di
fatturato (pari a circa 43 milioni di euro) e un meno 7,1 di copie di volumi di carta venduti,
che equivale a cinque milioni e mezzo di libri in meno rispetto al 2013. Numeri che vanno
a sommarsi a quelli di un crisi già forte negli anni precedenti: considerando i dati del
biennio 2012-2014 il fatturato è infatti passato da un miliardo di euro circa (1,012,614) ai
904 milioni odierni, e le copie vendute da 79 milioni circa a 72 milioni.
In controtendenza, sia pure in questo generale clima di perdita, il dato ristretto al campione
degli espositori presenti con uno stand a «Più libri più liberi» (fino all’anno scorso
l’indagine Nielsen era condotta solo sulle piccole case editrici presenti in fiera, da
quest’anno la ricerca si è invece allargata a tutti i 5.663 marchi con venduto inferiore ai 10
milioni di euro annui). Esclusa la grande distribuzione, i marchi presenti in questi giorni a
Roma crescono infatti, rispetto al 2013, di un 1,1 per cento nella vendita di copie e di un
2,2 quanto a fatturato (tutti i piccoli insieme invece, i presenti e non all’Eur, registrano un
calo del 3,4 per cento per copie vendute e del 2,5 per cento per fatturato).
«Anche nelle difficoltà — ha commentato ieri Marco Polillo, presidente dell’Associazione
Italiana Editori (Aie) — esiste una punta di diamante innovativa e attenta in grado di
segnare il mercato nel suo complesso. Sia il nostro Rapporto sulla piccola e media
editoria, sia l’indagine Nielsen indicano infatti, al di là dei segni meno generalizzati, che
esiste un dieci per cento circa di piccoli e medi editori che non solo crescono, ma crescono
quel tanto da smorzare i segni meno complessivi. E quel dieci per cento di editori sta qui».
Nella tendenza generale del mercato (negativa) — tutto il mercato, grandi e piccoli insieme
— sono comunque interessanti alcuni dati emersi dall’indagine e che concernono i diversi
generi più o meno venduti: cresce ancora, ad esempio, il peso dei volumi per bambini e
ragazzi, al punto che le copie raggiungono il 20,5 per cento del totale e si avvicinano
sempre di più al segmento della fiction straniera, il genere più venduto in assoluto e che
pesa per il 26,1 per cento (in calo però rispetto agli ultimi anni). Il mondo salvato dai
ragazzini, si potrebbe azzardare giocando con un celebre titolo di Elsa Morante: un libro
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su cinque tra quelli che si vendono in Italia è pensato per loro. E il genere infanzia si
piazza al secondo posto anche nel mercato specifico dei piccoli editori: per loro un quarto
delle copie vendute riguarda la non fiction pratica (manualistica, cucina, salute, tempo
libero, guide), ma a seguire sono i libri per bimbi: 18,3 per cento. Terza posizione per la
non fiction specialistica, leggermente al di sotto, con il 17,9 per cento. All’ultimo posto
(11,3 per cento del campione) romanzi e racconti italiani.
Edoardo Sassi
Del 5/12/2014, pag. 5
Università, Renzi incentiva l’esodo dei
ricercatori precari
Legge di stabilità. La denuncia di Flc-Cgil e dei dottorandi dell'Adi: nella manovra c'è un
codicillo che moltiplicherà di contratti precari nell'università
Nella legge di stabilità c’è un codicillo (il 29 dell’articolo 28) che moltiplicherà di contratti
precari nell’università. Nella bozza che si sta discutendo in parlamento, il governo intende
eliminare il vincolo di attivazione di un ricercatore a tempo determinato «di tipo B» (l’unico
con prospettiva di stabilizzazione) a fronte dell’assunzione di un nuovo ordinario. Se il
comma verrà approvato, ogni volta che si bandirà un posto da ordinario, per essere in
regola basterà assumere un ricercatore «di Tipo A», cioè a scadenza breve.
Questa misura velocizzerà l’esodo dei giovani ricercatori italiani dall’università. Secondo
alcuni dati ricavati dall’indagine in corso «Ricercarsi», infatti, negli ultimi 10 anni su 100
ricercatori l’università italiana ne ha espulsi più di 93, mentre gli assunti sono stati solo il
6,7%. Non solo: nel 2014 l’università italiana è «dimagrita» di 2183 docenti e ricercatori.
A fronte di 2324 pensionamenti sono stati attivati solo 141 ricercatori «di tipo B». Nel frattempo sono aumentati i precari, le figure che permettono alle facoltà di sopravvivere. Gli
assegni di ricerca attivati annualmente sono passati da circa 6 mila nel 2004 a oltre 14
mila nel 2014. Quest’anno la legge Gelmini provvederà a tagliarli: quelli attivati nel 2011
hanno infatti un limite massimo di 4 anni. Tra poco niente altri ricercatori diventeranno
disoccupati. Stessa sorte toccherà nel 2015 per i contratti da ricercatori a tempo determinato di «tipo A». Anche loro sono in scadenza secondo i parametri della legge 240 del
2010. In una lettera inviata alla Commissione Istruzione del Senato l’associazione Dottorandi Adi ha chiesto il ritiro della norma e dei tagli ai fondi per gli atenei (34 milioni nel
2014): «La ricerca non può essere ostaggio della mentalità da sensale». Per Mimmo Pantaleo, segretario Flc-Cgil, è indispensabile superare i limiti temporali imposti ai ricercatori,
ripensare il sistema di reclutamento. eliminare il contratto di assegno di ricerca, senza
diritti né tutele e la divisione in ricercatori di «tipo A» e «B», oltre a misure immediate di rifinanziamento dell’università.
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