RASSEGNA STAMPA venerdì 5 dicembre 2014 L’ARCI SUI MEDIA INTERESSE ASSOCIAZIONE ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SCUOLA ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da Corriere.it del 05/12/14 Sblocca Italia, l’Arci: «No allo sfruttamento petrolifero» di Mirella D’Ambrosio POTENZA – Arci nazionale e Arci Basilicata hanno aderito alla manifestazione che si è svolta ieri a Potenza per esprimere la netta contrarietà al decreto Sblocca Italia e sollecitare la Regione Basilicata a prendere in considerazione la possibilità di impugnarlo. Al centro della protesta c’è il provvedimento che punta sullo sviluppo degli idrocarburi come leva per il rilancio economico del Paese e che,secondo l’Arci «si caratterizza per una rischiosa impostazione neo coloniale di ‘saccheggio’ del territorio». A ciò va aggiunta la forte preoccupazione per la regione Basilicata che vedrebbe la quasi totalità del suo territorio esposta alle richieste di intervento da parte delle compagnie petrolifere, che vi svolgerebbero attività incompatibili con ambiente e salute, senza neppure un significativo ritorno occupazionale. «Consideriamo sbagliata e pericolosa la strategia energetica del Governo che mira a racimolare soldi rapidamente con le scarse risorse di idrocarburi – è il ragionamento dell’Arci – se invece puntasse sull’efficienza e sulle energie alternative potrebbe ottenere gli stessi benefici, a lungo termine e senza rischi per l’ambiente: in vent’anni di estrazioni é ormai maturata nei lucani una consapevolezza diffusa attorno a temi come la sostenibilità ambientale, la difesa dei beni comuni, la giustizia sociale. Siamo convinti che sia il momento di cambiare strada, rimettendo in discussione i presupposti dell’idea di sviluppo fin qui perseguita». http://sociale.corriere.it/sblocca-italia-larci-no-allo-sfruttamento-petrolifero/ Da Repubblica.it del 05/12/14 Fiaccolata in Campidoglio: "No alla violenza, sì all'integrazione" "Roma città aperta sicura inclusiva... costruiamola insieme". Una fiaccolata ai piedi del Campidoglio a cui hanno partecipato istituzioni, consiglieri regionali e capitolini, assessori capitolini, associazioni, comunità per focalizzare l'attenzione sulla centralità dei temi della coesione, dell'integrazione e dell'inclusione sociale. Un'iniziativa per "condannare con fermezza ogni tipo di violenza; praticare la via del dialogo; fare proposte per superare l'emergenza e per governare in termini pianificati gli interventi per il prossimo periodo, da incentrarsi sul tema dello sviluppo, crescita, integrazione socio-culturale; avviare concretamente un processo di recupero e riqualificazione delle periferie romane, così da riaffermare il valore di una Capitale accogliente e includente". A prenderne parte: Cgil, Cisl, Uil, Acli, Arci, Centro Astalli, Cnca, Comunità Sant'Egidio, Forum Terzo Settore, Libera, Fondazione internazionale Don Luigi di Liegro, Social Pride Fotogallery al link http://roma.repubblica.it/cronaca/2014/12/04/foto/fiaccolata_sant_egidio_campidoglio102140281/1/#1 2 Da OpenMag del 05/12/14 Roma Città Aperta, Sicura, e Inclusiva di Sara Massini Le maggiori sigle sindacali e le organizzazioni del terzo settore Lazio hanno organizzato una fiaccolata per condannare ogni forma di violenza e il recupero delle periferie di Roma Sono le 18 del 4 dicembre e al termine di un piovoso e buio pomeriggio, tante piccole e tremolanti luci accendono piazza del Campidoglio di Roma e si aggregano in circolo sotto la statua di Marco Aurelio a formare gruppo rumoroso e colorato. Sono le fiaccole della manifestazione organizzata dalle organizzazioni del terzo settore, tra cui le prime firmatarie CGIL, CISL, UIL, CENTRO ASTALLI, FORUM TERZO SETTORE LAZIO, ACLI, ARCI, LIBERA, FONDAZIONE DI LIEGRO, SANT’EGIDIO e SOCIAL PRIDE, riunitesi per esprimere la loro ferma condanna ad ogni tipo di violenza e l’urgenza di avviare, tramite il dialogo sociale, un processo di recupero e riqualificazione delle periferie romane. Una risposta dal basso alle manifestazioni di intolleranza degenerate nell’ultimo mese in particolare in zone della Capitale come Tor Sapienza, dell’Infernetto, e le altre periferie da troppo tempo abbandonate a loro stesse; zone della città in cui le amministrazioni hanno concentrato la presenza di centri di accoglienza e campi rom aumentando ed esasperando il carico di difficoltà che questi territori già registrano quotidianamente. Contesti e situazioni di disgregazione sociale che gli operatori sociali, i volontari, le associazioni e le cooperative di Terzo Settore, i comitati di quartiere e le parrocchie tentano faticosamente di ricucire senza ricevere sostegni concreti dalla politica. “L’inclusione sociale dipende dalle scelte politiche sia legislative che amministrative” – dice Gianni Palumbo, portavoce del Forum del terzo settore del Lazio ” – e noi che con le nostre organizzazioni siamo coinvolti direttamente e in prima persona in tutte le periferie romane, nel lavoro a diverso titolo con i residenti, cittadini romani e non, con gli immigrati, i richiedenti asilo, i rom, vogliamo fare sentire la nostra voce, la nostra esperienza e le nostre proposte alle Istituzioni a partire da quelle locali per costruire insieme una città aperta, inclusiva, egalitaria e soprattutto sicura. Chiediamo per questo di avere più potere e finanziamenti ai municipi per poter rispettare il principio di sussidiarietà e favorire più politiche di inclusione sociale nel rispetto della legalità”. Lidia Borzi, presidente regionale delle Acli, aggiunge: “con questa manifestazione intendiamo prendere le distanze da quelle strumentazioni ideologiche che si sono fatte nelle settimane scorse a proposito degli scontri nelle periferie romane e vogliamo restituire dignità alle nostre periferie e ai loro abitanti. Abbiamo bisogno e chiediamo interventi seri, organici e di ampio respiro.” Riccardo Pacifici, presidente della comunità ebraica di Roma, ricorda di fare attenzione alla ghettizzazione delle periferie con la presenza massiccia di immigrati, richiedenti asilo, ecc. Sono pronto a sedermi a un tavolo per discutere le possibili soluzioni. Ma basta fare polemica”. La manifestazione prosegue pacificamente, con la piazza piena e partecipe, si susseguono gli interventi dei sindacati, delle altre organizzazioni, chiedono al sindaco Marino interventi che equiparino le periferie alle zone del centro, Roma deve crescere e svilupparsi tutta insieme Tor Sapienza come i fori Imperiali. “Soprattutto in questo momento in cui si sta definendo lo statuto di un nuovo ente locale, la città metropolitana, che può aprire a una nuova possibilità di partecipazione” – continua Eugenio De Crescenzo, vicepresidente dell’associazione generale cooperative Lazio – ” ma abbiamo bisogno di un cambiamento radicale soprattutto in queste ore in cui scopriamo un’assenza di democrazia, di processi di trasparenza nella gestione delle risorse, degli appalti così 3 centrali per noi operatori del sociale. Abbiamo bisogno che la politica riprenda la sua funzione etica, non possiamo più aspettare, il sindaco deve rinnovare la giunta, cambiare le parti forti che influenzano negativamente i processi.” Alla fine poche, ma chiare richieste: “vorremmo poter assistere a un vero decentramento grazie a questo nuovo ente locale,” – conclude De Crescenzo – “dare più potere ai soggetti politici locali per farli confrontare direttamente con i cittadini per prendere le decisioni. Non limitarsi ad argomenti quali accessibilità e inclusione di immigrazione e disabilità, ma affrontare argomenti come piano regolatore, leve di sviluppo economico, mobilità,… Questi sono gli argomenti sui quali i cittadini devono essere interrogati per dare un contributo. Anche e soprattutto per comprendere che tutti, quale che sia la difficoltà che si affronta come una malattia, assenza di lavoro, perdita di cari, disabilità, dobbiamo trovare la forza di vivere insieme le difficoltà piuttosto che riversarle sui più deboli e prendersi la responsabilità di costruire insieme una città più aperta, civile e inclusiva.” Presenti alla manifestazione alcuni consiglieri comunali e regionali laziali provenienti dal mondo del terzo settore, che pur non avendo preso la parola in piazza, hanno voluto esserci e metterci la faccia, soprattutto in questi giorni in cui emerge un quadro torbido nel rapporto tra un certo modo di fare politica e affari sulla pelle dei più deboli. http://www.openmag.it/2014/12/05/roma-citta-aperta-sicura-e-inclusiva/ Da Redattore Sociale del 04/12/14 Le associazioni in Campidoglio: "Roma sporcata dalla criminalità" La fiaccolata antirazzismo, voluta dopo i fatti di Tor Sapienza per riaffermare il carattere inclusivo della città, diventa l'occasione per esprimere lo sdegno di fronte all'inchiesta "Mafia capitale". Riccardi: Roma non è più aperta, si sta imbarbarendo ROMA - "Roma città aperta, sicura e inclusiva. Costruiamo insieme". E' questo lo slogan scelto per lo striscione esposto in Campidoglio dalle circa 150 persone che hanno preso parte alla fiaccolata antirazzista, organizzata stasera nella Capitale dai sindacati e dalle associazioni che lavorano al fianco dei migranti. La manifestazione, nata inizialmente dopo le aggressioni avvenute nel quartiere Tor Sapienza contro il centro rifugiati, per riaffermare il carattere inclusivo della città, è stata anche occasione per esprimere lo sdegno di fronte ai fatti emersi dall'inchiesta "mondo di mezzo". "Si sentiva il bisogno di una manifestazione come questa per dire che a Roma sta avvenendo qualcosa di molto grave. Roma non è più aperta, si sta imbarbarendo",ha sottolineato Andrea Riccardi, tra i fondatori della Comunità della Sant'Egidio. "A Tor Sapienza abbiamo visto due storie difficili, quella dei rifugiati e quella del quartiere. C'è stata una vera e propria strategia della tensione. E questo perché la politica si è spenta. Oggi il Campidoglio è lambito da schizzi di criminalità organizzata bipartisan, questo mina la democrazia della città. Occorre quindi ricostruire il tessuto culturale e di dialogo. Non sapevamo che sui rom si guadagnava più che sulla droga, questo è troppo grave e richiede un salto morale degli amministratori". Sulla stessa scia Carlo De Angelis del Social Pride che ha ricordato come quello che sta emergendo dall'indagine era stato già denunciato da tempo dell'associazioni. "Non è possibile che nel 2015 che sia ancora una situazione di razzismo ma questo avviene perché su questi temi c'è troppa disinformazione. Questi temi sono usati per fare allarmismi - aggiunge Tareke Brhane del Comitato 3 ottobre - "Quello che stiamo vedendo 4 in questi giorni fa capire invece come si specula sui rifugiati. Bisognerebbe conoscere invece di più le loro storia, come vivono ma anche come vengono fatti i bandi per l'accoglienza, spesso al massimo ribasso. Don Camillo Ripamonti presidente del Centro Astalli ha sottolineato che "le periferie geopolitiche della città non devono diventare periferie esistenziali. Bisogna invece investire su una cultura dell'accoglienza interreligiosa e interculturale". Alla manifestazione, promossa da Arci, Centro Astalli e Comunità Sant’Egidio e dai sindacati Cgil, Cisl e Uil, ha preso parte anche l'Assessore alle Politiche sociali del Comune di Roma Rita Cutini che ha sottolineato come sia importate riaffermare una politica dell'accoglienza. "Roma è una bellissima città, accogliente e inclusiva". (ec) Da AffariItaliani del 04/12/14 Fiaccolata in Campidoglio. La marcia delle periferie L'iniziativa sotto Palazzo Senatorio a cui hanno partecipato istituzioni, consiglieri regionali e capitolini, assessori capitolini, associazioni, comunità per focalizzare l’attenzione sulla centralità dei temi della coesione, dell’integrazione e dell’inclusione sociale "Roma citta' aperta sicura inclusiva...costruiamola insieme". Una fiaccolata ai piedi del Campidoglio per "condannare con fermezza ogni tipo di violenza; praticare la via del dialogo; fare proposte per superare l’emergenza e per governare in termini pianificati gli interventi per il prossimo periodo, da incentrarsi sul tema dello sviluppo, crescita, integrazione socio‐culturale; avviare concretamente un processo di recupero e riqualificazione delle periferie romane, così da riaffermare il valore di una Capitale accogliente e includente". Questo l'obiettivo dell'iniziativa sotto Palazzo Senatorio a cui hanno partecipato istituzioni, consiglieri regionali e capitolini, assessori capitolini, associazioni, comunità per focalizzare l’attenzione sulla centralità dei temi della coesione, dell’integrazione e dell’inclusione sociale. A prenderne parte: Cgil, Cisl, Uil, Acli, Arci, Centro Astalli, Cnca, Comunità Sant’Egidio, Forum Terzo Settore, Libera, Fondazione internazionale Don Luigi di Liegro, Social Pride. "Non abbiamo piu' voglia di vedere in questa citta' gruppi xenofobi. Dell'episodio che ha visto dei bambini che un giorno non sono stati fatti entrare a scuola non se ne parla quasi piu' perche' e' ormai e' passato. Vorremmo che la polizia arrestasse i genitori invece dei bambini che vanno a delinquere a differenza di alcuni che i bambini a scuola ce li mandano e con grandi sacrifici. Il messaggio che deve partire da questa piazza e' non solo accendere la speranza e scaldare i cuori ma portare proposte - ha detto il presidente della Comunita' ebraica di Roma, Riccardo Pacifici - Prima dei fatti di Tor Sapienza qualcuno sapeva di un centro di accoglienza li'? Quanti dei romani lo sapevano? Quanti non sanno nulla di quello che si fa in quei centri? All'assessore Cutini chiedo di rendere pubbliche le mappe su dove sono i centri di accoglienza e lavorare per smistare le persone quando ce ne sono troppe. E soprattutto dobbiamo ribadire che non abbiamo paura, non ci facciamo intimidire". Per l'assessore alle Politiche sociali, Rita Cutini, "e' la citta' che vuole bene a Roma. E' il mondo sul quale possiamo e dobbiamo contare per costruire una citta' accogliente, sicura e aperta. Una citta' che non ha paura di queste parole e sta cercando la strada per costruire una percorso migliore. Oggi il tema era Tor Sapienza e su come ragire di fronte a un'idea di accoglienza messa in discussione. Il problema non sono gli immigrati ma costruire insieme una rete di inclusione e di una periferia da cui ripartire". "La 5 periferia deve essere vissuta come un'opportunita'. E' importante il centro di Roma, i Fori Imperiali, ma sono ugualmente importanti le periferie altrimenti non avremo una Roma 'Capitale'. Ma su queste periferie - ha detto il segretario generale della Cgil di Roma e del Lazio. Claudio Di Berardino - dobbiamo metterci le mani, ovvero pensare alle infrastrutture, completare le fognature, realizzare le infrastrutture sociali, ragionare sui servizi e allora il tpl non puo' essere tagliato alle periferie. Pensare alla raccolta dei rifiuti aumentando lo standard di intervento, ma anche recupero, riqualificazione, riuso. Pensare alla vigilanza e al controllo del territorio. Bisogna ridefinire il senso di cittadinanza in senso inclusivo". http://www.affaritaliani.it/roma/fiaccolata-in-campidoglio-la-marcia-delle-periferie04122014.html Da Giornale Radio Sociale del 04/12/14 Una luce di accoglienza Dalle Acli all’Arci, dal Centro Astalli alla Comunità di Sant’Egidio. Sono diverse le associazioni che parteciperanno alla fiaccolata oggi pomeriggio a Roma in piazza del Campidoglio. Un’iniziativa, dopo i fatti di Tor Sapienza, promossa anche dal Forum nazionale del terzo settore contro ogni discriminazione e razzismo. Appuntamento alle ore 18. Link audio http://www.giornaleradiosociale.it/audio/04-12-2014/ Da Redattore Sociale del 04/12/14 Mafia capitale, l'Arci: "Siamo di fronte al nuovo sacco di Roma" Una programmazione nazionale, un sistema che faccia capo allo Sprar e la creazione di un albo delle organizzazioni adatte ad offrire servizi di accoglienza. Sono i tre punti cardine individuati dall'Arci che invita la politica a cambiare registro nei confronti del sistema di accoglienza degli immigrati ROMA - Una programmazione nazionale, un sistema che faccia capo allo Sprar e la creazione di un albo delle organizzazioni adatte ad offrire servizi di accoglienza. Sono i tre punti cardine individuati dall'Arci di Roma che invita la politica a cambiare registro nei confronti del sistema di accoglienza degli immigrati e richiedenti asilo, a pochi giorni dall'inchiesta romana "Terra di mezzo". "Gli arresti dei giorni scorsi a Roma - afferma l'Arci della capitale - che gettano un'ombra sinistra sulla capitale e sugli interessi convergenti tra politica, malaffare e pubblica amministrazione, confermano fra l’altro le nostre preoccupazioni sulle periodiche ‘emergenze procurate’ in tema d’accoglienza. L'emergenza impedisce infatti una programmazione e una gestione controllata attraverso i normali canali amministrativi, facendo spesso saltare regole e controlli". La rinuncia ai bandi pubblici e il conseguente affidamento diretto ad organizzazioni e soggetti new entry privi di competenze specifiche nel settore dell'accoglienza, secondo l'Arci, ha poi fatto il resto contribuendo a determinare l'attuale situazione di emergenza. Senza dimenticare i soldi pubblici, uno spreco dovuto anche questo all'"agire in emergenza": "L'emergenza - sottolinea l'Arci - oltre ad alimentare un vero e proprio 6 business dell’accoglienza, comporta uno spreco di denaro pubblico insopportabile. Infatti i profughi, una volta usciti da grandi centri dove non sono stati in alcun modo seguiti, devono ricominciare da capo il loro percorso di integrazione. Si buttano via quindi risorse per strutture inadeguate e con personale incompetente, infischiandosene del danno anche psicologico che ne deriva per gli ospiti, che spesso dopo hanno bisogno di maggiori cure e attenzioni e di un periodo di accoglienza più lungo. Insomma l’agire in ‘emergenza’, con il ricorso a grandi strutture, senza controlli, con soggetti inadeguati, oltre a facilitare infiltrazioni di ogni tipo, avvelena le relazioni e appesantisce il già difficile carico di ingiustizie che i rifugiati si portano dietro". E'ancora possibile trovare una soluzione adeguata al problema dell'accoglienza degli immigrati e richiedenti asilo? Quanto tempo bisognerà aspettare ancora perché si decida di cambiare registro? Ora la palla passa al Governo e al Ministero dell'Interno, secondo l'Arci romana i maggiori responsabili di questa situazione. "Questo metodo produce spesso un impatto negativo col territorio e le comunità locali, che possono sfociare in violenze strumentalizzate dalla destra xenofoba che alimenta il razzismo". Da Vita.it del 05/12/14 Progetti multistakeholder come farli con successo Gli interlocutori da coinvolgere, gli step da seguire, gli strumenti di monitoraggio e valutazione da utilizzare. E un primo esempio concreto in cui vederle applicate: il progetto “Arrivano i nonni” per favorire il dialogo intergenerazionale. L'individuazione di una priorità sociale cui dare risposta, la costruzione di un network di stakeholder strategici, l'elaborazione di una metodologia di sviluppo, monitoraggio e valutazione replicabile, cui far seguire la realizzazione dell'intervento concreto sul territorio. Questo, in sintesi, il processo che Terna, Arci Milano, il Comune di Milano, Fondazione Sodalitas e SDA Bocconi School of Management hanno strutturato a fine 2013 per a supporto del progetto sociale “Arrivano i nonni”. Il programma, ideato per valorizzare l'impegno volontario dei nonni milanesi nell'organizzazione di attività di intrattenimento presso oltre 40 scuole dell'infanzia del territorio. I risultati raggiunti dopo il primo anno di monitoraggio sono stati presentati giovedi 4 dicembre a Milano in occasione del convegno “Nuovi modelli per partnership profitnonprofit”. Realizzare e misurare progetti multistakeholder: una proposta metodologica Le priorità sociali che caratterizzano la società di oggi non possono essere risolte con iniziative individuali: solo un approccio multistakeholder, che metta al centro del processo la soluzione del problema e non chi lo individua, può davvero fare la differenza nel favorire una crescita sostenibile. In una logica di collaborazione multistakeholder, gli attori coinvolti: devono rappresentare gli interlocutori prioritari e strategici per il raggiungimento dell'obiettivo sociale individuato partecipano, alla pari, alla costruzione di tutte le fasi di sviluppo e realizzazione del progetto, pur partendo dalla “spinta” di un “attivatore” autorevole e forte che assuma la responsabilità e la titolarità dell'intervento che si andrà a costruire 7 suddividono il progetto in fasi per poterne monitorare e misurare più facilmente performance, risultati e impatti sulla comunità e sulle popolazioni di riferimento, utilizzando di volta in volta gli strumenti di analisi e approfondimento più adatti stabiliscono, per ciascuno step del progetto, i relativi ruoli e responsabilità, e chiariscono contributi ed elementi premianti che ciascun interlocutore dovrà aspettarsi lavorano in un’ottica di condivisione e contaminazione culturale delle rispettive conoscenze e competenze mettono al centro la comunicazione, perchè l'esperienza maturata possa essere accessibile e replicabile. Centralità del problema, sensibilità, mobilitazione, pianificazione, monitoraggio, responsabilità, chiarezza, condivisione, comunicazione e replicabilità: queste le 10 parole chiave da utilizzare per sviluppare progetti multistakeholder di successo. L'applicazione pratica: il progetto “Arrivano i nonni” Il contesto Ogni mese a Milano oltre 94.000 pensionati svolgono attività di volontariato e aiuto informale, dedicandovi una media di 32 ore mensili. Il tasso di copertura dei servizi forniti da centri ricreativi è però solo del 6%: ciò significa che gli anziani milanesi hanno energie e creatività che il sistema non è in grado di capitalizzare, dimostrando di essere potenzialmente un’importante risorsa di un welfare di rete. Contestualmente, le scuole dell’infanzia hanno sempre meno risorse economiche per garantire la compresenza degli educatori e la varietà dell’offerta educativa. Obiettivi, attività, numeri Il progetto “Arrivano i nonni” è partito come intervento di coesione sociale e di volontariato attivo nelle scuole facendo leva sui talenti degli over 60 per rafforzare la crescita dei bambini. L’iniziativa si è da subito strutturata come una partnership multistakeholder, cui hanno partecipato: Fondazione Sodalitas, reale “attivatore” del progetto grazie al programma Sodalitas Social Innovation; Terna e Arci Milano, che si sono incontrate proprio in questo contesto e portatrici rispettivamente dell’interesse a realizzare un progetto d’impatto a sfondo educativo nel territorio di Milano e dell’esperienza sul campo, maturata in oltre 10 anni di attività; il Comune di Milano, come istituzione territoriale di riferimento; SDA Bocconi School of Management, portatrice delle competenze scientifiche per definire una metodologia adatta ad un monitoraggio dei benefici in ottica di replicabilità dell’iniziativa. I nonni volontari selezionati nella fase di reclutamento e selezione sono stati assegnati alle scuole dell’infanzia coinvolte secondo criteri di prossimità geografica e di coerenza del talento offerto con le esigenze e le risorse di ogni singola struttura. A ciascun volontario - una volta creato questo matching - è stato chiesto di mettere a disposizione una o più mattine alla settimana per svolgere la propria attività, in modo da poter creare con i bambini relazioni sistematiche e durature. Ciascun nonno, prima dell’avvio delle attività, è stato presentato al collegio dei docenti e alle famiglie dei bambini. Nel corso dell’anno scolastico 2013-2014 15 nonni hanno proposto attività di intrattenimento e laboratorio presso 12 scuole dell’infanzia, raggiungendo 720 bambini. La cura dell’orto e la costruzione di piccoli attrezzi da giardinaggio, l’apprendimento delle lingue, il riciclo creativo degli oggetti, la raccolta differenziata, le danze di gruppo e la pittura: queste alcune delle attività proposte durante gli ultimi 12 mesi. Processo Per raggiungere gli obiettivi stabiliti, i partner, sotto la supervisione scientifica di SDA Bocconi, hanno ideato un processo di monitoraggio di tipo induttivo per misurare il valore generato in termini di: 8 input, per rispondere alla domanda “Quali risorse investire per raggiungere gli scopi prefissati?” output, per rispondere alla domanda “Quali attività concrete implementare per arrivare allo scopo?” impact, per rispondere alle domande “Quali i benefici (individuali ed organizzativi) da generare nei comportamenti, nella qualità della vita, nel miglioramento dei servizi offerti?”, nonché “Quali cambiamenti concreti produrre nei gruppi di individui coinvolti?”. Nel 2015, quando verrà messa in atto la fase successiva del progetto, il monitoraggio e la valutazione permetteranno di definire linee guida per la replicabilità dell'intero processo. Per il monitoraggio del progetto sono stati utilizzati questionari (in fase di avvio), focus group con educatrici, nonni e bambini (in fase di avvio, di sviluppo e conclusione del primo periodo di attività) e interviste in profondità con le direttrici scolastiche e i nonni coinvolti nel progetto. Questi strumenti, affiancati ad una SWOT analysis del progetto - che ha messo in luce i punti di forza, di debolezza, le minacce e le opportunità - hanno permesso di rilevare i punti critici degli interventi e di suggerire azioni correttive con cui renderli più efficaci. “Questo monitoraggio sui beneficiari finali – ha dichiarato Fulvio Rossi, CSR Manager di Terna - rappresenta un esempio concreto di come Terna si impegna nel sociale: non con un semplice sostegno economico ma mettendo a disposizione strumenti per conoscere e migliorare. In questo caso – ha proseguito Rossi – un monitoraggio che indagasse gli impatti effettivi sui beneficiari ci è sembrato lo strumento migliore per capire, assieme a tutti i nostri partner, la reale capacità del progetto di creare valore”. “Per un'associazione come Arci Milano è molto importante avere gli strumenti per misurare il valore creato dal coinvolgimento di cittadini attivi, come nel caso di questo progetto” ha aggiunto Emanuele Patti, Presidente di Arci Milano. “La collaborazione con enti con competenze diversificate e specifiche ci ha permesso di sviluppare e acquisire strumenti e tecniche utili al lavoro di monitoraggio che permettono inoltre di comunicare con chiarezza e semplicità l'utilità sociale del progetto, obiettivo fondamentale per le associazioni di promozione sociale. Questa esperienza costituisce per noi un modello nella definizione dei rapporti tra profit e non-profit, stabilendo ruoli precisi che valorizzino le competenze di tutti i soggetti coinvolti”. Conclusioni I questionari, i focus group e le interviste in profondità condotte su tutte le popolazioni dei beneficiari del progetto hanno messo in luce che: i nonni hanno raccontato con soddisfazione l’esperienza e se ne sono sentiti coinvolti sia emotivamente che concretamente le educatrici si sono sentite aiutate e sostenute dai nonni, che si sono rivelati degli interlocutori competenti e sensibili i bambini hanno individuato nei nonni delle figure di riferimento positivo, di cui conservano un ricordo chiaro, di cui ripetono l’esempio e di cui parlano anche nel contesto familiare. Il monitoraggio che ha accompagnato il progetto ha permesso di rendere più efficaci soprattutto le fasi di reclutamento, motivazione e formazione dei nonni, la standardizzazione dei laboratori e il rapporto tra volontari e personale scolastico. I momenti di valutazione e riflessione in cui il progetto si è articolato hanno infatti evidenziato come critiche: il periodo di tempo di coinvolgimento dei nonni presso la singola classe (non sempre sufficientemente lungo) e la scarsa comunicazione del progetto stesso. 9 “Arrivano i nonni” è un progetto realizzato da Terna e Arci Milano in collaborazione con Fondazione Sodalitas e il Comune di Milano e con scientifico di SDA Bocconi School of Management. Approfondimenti: Il volume “Arrivano i nonni” con le testimonianze di nonni ed educatrici http://www.vita.it/welfare/anziani/progetti-multistakeholder-come-farli-con-successo.html 10 ESTERI Del 5/12/2014, pag. 18 La rivolta di New York contro il razzismo Obama: “A volte la legge non è uguale per tutti” Cortei dopo il verdetto sull’agente che ha soffocato un uomo di colore. A Phoenix una pattuglia uccide un afroamericano disarmato ALBERTO FLORES D’ARCAIS NEW YORK . Migliaia in strada con le braccia alzate, blocchi del traffico per le vie di Manhattan, quasi cento arresti e il disperato grido di morte di Eric Garner («I can’t breathe», non riesco a respirare) ripetuto ritmicamente da centinaia di manifestanti davanti ai poliziotti schierati. Non si placano le proteste dopo la decisione del Grand jury di Staten Island, che ha escluso il processo per Daniel Pantaleo, l’agente del New York Police Department che nel luglio scorso aveva “soffocato” il venditore ambulante durante il fermo per contrabbando di sigarette. Da Times Square al ponte di Brooklyn, dal Village alnaia l’Upper West Side sono stati migliaia i newyorchesi che hanno deciso di protestare contro il verdetto nella serata e nella notte di mercoledì e ancora ieri mattina. In modo pacifico, come avevano chiesto il sindaco Bill de Blasio e i familiari di Garner. Pochi i momenti di tensione — le decine di arresti sono soprattutto per interruzione del traffico — molte le polemiche. E un hashtag (#CrimingWhileWhite), in cui centi- di bianchi di ogni angolo d’America raccontano le loro esperienze di “piccoli reati” non puniti grazie al colore della pelle, che spopola su Twitter. Lanciato da Jason Ross, sceneggiatore dello show del popolare comico Jimmy Fallon, l’hashtag ha aperto in Rete un confronto-scontro sui privilegi che la comunità bianca gode quando ha a che fare con ordine pubblico e poliziotti. Il giorno dopo la sentenza, mentre il presidente Obama ammette che «a volte la legge non è uguale per tutti» e da Phoenix in Arizona giunge la notizia di un altro afroamericano disarmato ucciso da un agente, tengono banco soprattutto le polemiche. C’è chi considera come primo responsabile — e ne chiede le dimissioni — Bill Bratton, popolare capo della polizia ai tempi di Rudolph Giuliani e della lotta alla piccola criminalità, richiamato a New York da De Blasio proprio per gestire uno dei corpi di polizia più complicati degli States. «Se non affronti i piccoli reati non previeni quelli grossi», diceva Bratton al suo ritorno nella Grande Mela. Piccoli reati come il contrabbando, quello di cui era accusato Garner e che gli è costato la vita. C’è chi punta il dito contro l’attuale primo cittadino, come l’ex sindaco di ferro Giuliani che accusa in modo plateale il suo successore («contribuisce a creare un’atmosfera di protesta e di violenza»), e chi lo difende, come lo stesso Obama. Del 5/12/2014, pag. 21 La battaglia di Grozny infuoca la Cecenia terrore e venti morti 11 I guerriglieri islamici attaccano la polizia. Spari in strada Allarme al Cremlino. Il dittatore Kadyrov: “Tutto sotto controllo” NICOLA LOMBARDOZZI C’è un’altra guerra che Putin stava forse un po’ trascurando, e che si riaccende di colpo nel pieno della crisi più difficile della Russia post sovietica. Nel giorno in cui il presidente lancia un appello per uscire dal tunnel delle sanzioni sul caso Ucraina, la Cecenia esplode con una azione terroristica degna degli anni più cupi. Una battaglia per le strade della capitale Grozny tra poliziotti e guerriglieri islamici armati di lanciagranate e fucili mitragliatori ha seminato il panico tra la popolazione e messo in allarme il Cremlino. Alla fine ci sono dieci poliziotti e altrettanti «terroristi» morti, oltre a un paio di civili e a una trentina di feriti piuttosto gravi. Ma il bilancio più grave è quello della paura ritornata i russi già piuttosto in agitazione per il disastro economico in atto. Volato in aereo a Mosca per fare rapporto a Putin, quando la sparatoria era ancora in corso, l’entusiasta presidente-dittatore ceceno Ramzan Kadyrov, ha passato la giornata a spiegare alla tv che «la situazione è sotto controllo». Ma Mosca e le altre grandi città di Russia sono in evidente stato di allerta; i controlli della polizia asfissianti e meticolosi; tornano nei treni e nei locali pubblici le raccomandazioni a stare attenti, guardarsi attorno e lanciare l’allarme al minimo sospetto. L’attacco è cominciato nelle prime ore della notte sulla via Nikolaeva. A un passo dal viale Putin, asse centrale della capitale, dedicato da Kadyrov al suo «idolo personale». Un gruppo imprecisato di guerriglieri ha ucciso tre poliziotti di pattuglia e ha preso possesso con le armi di due edifici pubblici, “la Casa della Stampa” e la scuola media “numero 20”. Gli spari e le esplosioni hanno scatenato una ciclone di notizie vere e false ma comunque terrorizzanti. Una radio cecena ha completato l’opera parlando di «un migliaio di terroristi in armi per le strade della città». Kadyrov ha eseguito la antica direttiva del Cremlino: «La rivolta cecena va minimizzata e resa invisibile al mondo». Ha ordinato un blitz massiccio e sanguinoso e, prima ancora che lo scontro finisse, è partito per Mosca a mostrare sorriso e sicurezza. Nel mondo dei siti web caucasici l’azione viene attribuita agli eredi di Doku Umarov, l’emiro del Caucaso, ucciso in combattimento dalle truppe speciali russe sei mesi fa. A guidarle ci sarebbe il figlio, candidato a ripetere le gesta del padre. L’operazione sarebbe una vendetta contro la recente autorizzazione data alla polizia cecena di perquisire tutte le donne islamiche che indossino il velo o il foulard. Ma si indaga anche sulla coincidenza con il discorso di Putin sull’economia e la vicinanza con date simboliche come l’11 dicembre (inizio prima guerra cecena nel 1994) e il 12 (festa della costituzione russa). Di tutte le spiegazioni, la meno credibile appare quella ufficiale, votata dal Parlamento ceceno riunito ieri in seduta straordinaria: «Un complotto di Obama, della Merkel e delle altre potenze occidentali contro il nostro amato presidente Putin». Uno zelo eccessivo che Putin non ha gradito e che ha ignorato nelle sue dichiarazioni ufficiali. Il problema è molto diverso. La guerriglia cecena è viva e fa ancora paura. del 05/12/14, pag. 14 Putin: l’Occidente vuole distruggerci Duro discorso alla nazione russa: «Immaginano per noi la fine della Jugoslavia» Riesplode il terrorismo nel Caucaso. I ceceni attaccano il centro di Grozny: 20 morti 12 MOSCA Le profonde difficoltà economiche e una nuova crisi terroristica nel Caucaso hanno spinto ieri Vladimir Putin a ricorrere a toni particolarmente duri nel suo intervento annuale davanti al Parlamento. La Russia, secondo il suo presidente, è al centro di una manovra di «contenimento» esattamente come l’Urss durante la Guerra fredda; e quella dell’Ucraina è solamente una scusa per chi «avrebbe voluto vedere uno scenario jugoslavo di collasso e dissoluzione» per il Paese. Fissando intensamente la platea che lo ascoltava in religioso silenzio, Vladimir Vladimirovich è arrivato al punto di paragonare indirettamente i nemici di oggi a Hitler: «Voleva distruggere la Russia e ricacciarci oltre gli Urali. Tutti dovrebbero ricordare come è andata a finire». A dimostrazione delle sue tesi, Putin ha citato esplicitamente il progetto americano di uno scudo antimissilistico che, effettivamente, cambierebbe l’equilibrio delle forze nucleari. E, secondo il presidente, sarebbe dannoso anche per gli Stati Uniti perché fornirebbe loro una «pericolosa illusione di invulnerabilità». Ma è indubbio che la crisi economica dovuta al calo del prezzo di petrolio e gas, oltre che alle sanzioni, si fa sentire pesantemente (ieri anche Saipem ha ufficialmente annunciato la fine del progetto South Stream). Putin ha dunque proposto una serie di mosse volte a rilanciare l’economia, solo che le ha accompagnate con la minaccia di ricorrere a «misure amministrative» contro gli speculatori. E questo ha innervosito ulteriormente i mercati facendo scendere ancora il rublo. Tanto che immediatamente la Banca di Russia si è affrettata a precisare che per sostenere la moneta adopererà solo i classici strumenti economici usati da tutti gli istituti di emissione. Il presidente vorrebbe convincere tutti coloro che hanno esportato capitali in questi anni a rientrare e investire, anche per sostituire gli stranieri spaventati dalla crisi. Ecco quindi un prossimo condono generale per il rientro dei fondi, la promessa di non toccare le tasse per quattro anni. Putin ha poi annunciato una serie di «disposizioni» miranti a far riprendere il Paese e a rimpiazzare la tecnologia che non verrà più dall’estero con risorse interne. Un atteggiamento che non è nuovo in Russia e che si richiama alle pratiche del passato: quando si credeva di poter piegare l’economia a colpi di «ukase», ordini perentori del capo. Oggi, in un Paese che è molto più aperto di una volta, tutto ciò appare agli economisti una pia illusione. A Putin ha risposto il segretario di Stato americano John Kerry, spiegando che «nessuno vuole vedere la Russia isolata a causa delle sue stesse azioni». La Casa Bianca sembra stendere una mano verso il Cremlino: «Basterebbe che aiutasse a calmare le acque turbolente» al confine con l’Ucraina. Tra ribelli e governo di Kiev dovrebbe scattare ora una vera tregua, ma intanto per Mosca sembra riaprirsi il fronte del Caucaso. Proprio nella Cecenia pacificata con la forza, ieri un gruppo di guerriglieri che aveva assalito il centro di Grozny subito prima del discorso di Putin è stato respinto. Bilancio: venti morti e decine di feriti. Fabrizio Dragosei Del 5/12/2014, pag. 6 Machado, una cospiratrice incallita 13 Venezuela. L'accusa: la cricca che tentò di far fuori Chavez nel 2002 ci ha riprovato con Maduro Geraldina Colotti Maria Corina Machado è accusata di cospirazione. La magistratura venezuelana le ha contestato il delitto contemplato nell’articolo 132 del Codice penale: “Chiunque, dentro o fuori il paese, cospiri per distruggere la forma politica repubblicana che la nazione si è data, sarà punito con la detenzione da 8 a 16 anni”, recita la legge, precisando che “nella stessa condanna incorrerà il venezuelano che chieda l’intervento straniero negli affari politici interni o concorra a disturbare la pace della Repubblica o inciti alla guerra civile”. Stesse accuse per un gruppo di sei persone, personaggi politici, imprenditori e alti funzionari. Tutti avrebbero messo a punto un piano eversivo con l’apporto di Machado e di figure esterne, come l’attuale ambasciatore degli Usa in Colombia, Kevin Whitaker. Deputati e leader del Partito socialista unito (Psuv) lo avevano denunciato il 28 maggio. Uno schema già visto durante il golpe contro l’allora presidente Hugo Chavez, nel 2002. Anche allora, la filoatlantista Machado era in prima fila, con il leader di Voluntad Popular Leopoldo Lopez e all’ex candidato presidenziale Henrique Capriles. Machado è stata tra i firmatari del documento che ha abolito la Costituzione e le garanzie democratiche durante il governo-lampo dell’imprenditore Carmona Estanga: prima che Chavez venisse riportato in sella a furor di popolo. «Proteste, ingovernabilità, azioni nel metro, lotta fino alla fine per annientare Maduro. Gli altri cadranno da soli», dice Machado nelle sue conversazioni. E l’ex ambasciatore venezuelano all’Onu, Diego Arria, consiglia di «approfittare del clima dell’Ucraina» per spazzare via il governo. Un tentativo che l’opposizione oltranzista ha perseguito per mesi animando uno scontro violento che ha provocato 43 morti e centinaia di feriti. Un conflitto in cui hanno agito gruppi nazisti legati al paramilitarismo colombiano e al grande business del contrabbando oltrefrontiera: come quello di Lorent Saleh, in carcere da qualche mese. Gruppi che progettavano omicidi mirati e attentati alle discoteche. Un paramilitare colombiano, Leiva Padilla, è accusato di aver diretto la banda che ha ucciso il giovane deputato venezuelano Robert Serra, a capo di una commissione parlamentare che indagava su Saleh. Padilla ha chiesto asilo politico in Colombia e Caracas ha chiesto l’estradizione. Nella sua trasmissione settimanale, il presidente del Parlamento, Diosdado Cabello, ha mostrato un filmato in cui si vede “un funzionario dell’ambasciata nordamericana” aspettare Machado nei pressi del Ministerio Publico, dov’è arrivata insieme a esponenti di partito e militanti. Gli Usa si sono già fatti sentire per appoggiare Machado e per chiedere la scarcerazione di Leopoldo Lopez, ancora in carcere con l’accusa di aver organizzato le violenze di piazza di febbraio. E ora, Cabello ha denunciato che il leader della destra sarebbe legato anche a un’inchiesta per frode e riciclaggio di denaro sporco attraverso un personaggio originario di Singapore, ricercato dall’Interpol. Caracas ha reagito con sdegno all’inchiesta sull’Indice di percezione della corruzione dell’Ong Transparency International che mette ai primi posti Venezuela e Paraguay: un’indagine senza rigore metodologico – ha detto il governo bolivariano. E Cabello ha accusato gli Usa di ospitare Nelson Mezerhane, banchiere ricercato per aver truffato lo stato e i risparmiatori, che a Miami disporrebbe di 7 imprese per un capitale di 4,1 milioni di dollari. Dopo la caduta del prezzo del petrolio e la decisione dell’Opec di non ridurre la produzione, Maduro ha annunciato che il bilancio per i progetti sociali non verrà tagliato, mentre l’Iva per i consumi di lusso aumenterà del 15%. Verranno diminuiti gli stipendi di alti funzionari, a partire dal suo. In questi giorni, è stato in Venezuela anche l’ex presidente dell’Uruguay José Mujica (nella foto reuters) per discutere accordi sull’estrazione di petrolio nell’Orinoco. Mujica ha accusato gli Usa per l’uso della devastante tecnica estrattiva del fracking. 14 Del 5/12/2014, pag. 2 È scontro, filotedeschi contro gli acquisti ma Draghi da gennaio andrà avanti Durissima discussione al vertice della Banca centrale: una minoranza di 6-7 governatori guidati da Weidmann si ribella alla linea del presidente, ma lui non si ferma. La stampa tedesca moltiplica gli attacchi alla sua gestione FEDERICO FUBINI Il treno di Mario Draghi è partito e ormai difficilmente si fermerà prima di arrivare a destinazione. Non lo farà neanche se qualcuno a bordo continua a contestare il macchinista. È stata tutt’altro che semplice la riunione del consiglio direttivo della Bce, secondo alcuni. Secondo altri è di nuovo deflagrata in pieno la contrapposizione fra lo stesso Draghi, presidente della Banca centrale europea, e quello della Bundesbank Jens Weidmann. Sull’esito però ognuno dei banchieri centrali che ieri hanno discusso nella nuova sede della Bce alla Grossmarkhalle, sul Meno, ormai ha pochi dubbi. L’acquisto su scala massiccia di titoli di Stato da parte della Banca centrale europea appare sempre più inevitabile. E vicino nel tempo, per la verità: può andare ai voti del consiglio dei governatori già il 22 gennaio prossimo, se la trama della deflazione in Europa continuerà a dipanarsi come sta facendo. Ieri Draghi stesso ha ricordato che dallo scorso giugno il prezzo del petrolio è caduto del 30% per gli europei, malgrado l’impennata del dollaro. Si alleggerirà la bolletta energetica per grandi importatori come la Germania, l’Italia o la Spagna, e ciò non può che favorire un po’ di ripresa. Nel frattempo però il vuoto d’aria nelle quotazioni dell’energia cancellerà fin da subito il minimo d’inflazione che resta in Europa: la stessa Bce ormai teme che fra dicembre e gennaio la dinamica dei prezzi in area-euro scivoli sottozero, dunque i tempi per contrastare la deflazione si faranno sempre più stretti. La Bce è stata creata nel 1998 per garantire la stabilità dei prezzi, non per permettere che questi si avvitino fino ad aumentare sempre di più il peso degli interessi sui debitori. «Non perseguire il nostro mandato sarebbe illegale», ha tagliato corto ieri Draghi nella conferenza stampa seguita al consiglio. Non tutti concordano sul come riuscirci. Nella riunione di ieri, hanno preso le distanze da Draghi sei o sette banchieri centrali sui ventiquattro dell’organismo decisionale di Francoforte. Attorno a Weidmann sono schierati con ogni probabilità Sabine Lautenschlaeger, esponente tedesco nell’esecutivo della Bce, il governatore olandese Klaas Knot, i governatori di Lussemburgo, Estonia e Lettonia e il lussemburghese dell’esecutivo di Francoforte, Yves Mersch. Meno chiusa sarebbe la posizione del governatore austriaco Ewald Nowotny, mentre il finlandese Erkki Liikanen è ormai pronto a votare con Draghi e con la gran parte 24 dei componenti del vertice della Bce. La minoranza guidata da Weidmann non è legalmente in grado di bloccare il lancio di un piano di acquisti di titoli di Stato per circa 500 miliardi di euro. E la maggioranza ora ha più di una ragione per pensare di muovere il prossimo passo già il 22 gennaio prossimo. Non c’è solo il brusco gradino al ribasso dei prezzi legato al petrolio, che intorno a Capodanno produrrà la stima d’inflazione più preoccupante di sempre. Pochi giorni più tardi, forse già il 12 gennaio, è attesa una sentenza decisiva della Corte di giustizia europea. Riguarderà la legalità stessa della svolta che ha arginato la crisi nel 2012: allora Draghi creò un programma di acquisti di titoli dei Paesi in crisi da parte della Bce, 15 condizionato all’intervento della Troika. Quel piano non è mai stato attivato, ma da allora il semplice fatto che esista ha sedato i mercati. Ora i giudici del Lussemburgo daranno con ogni probabilità il loro via libera, ma la partita non è chiusa per questo: a quel punto la Corte di giustizia tedesca da Karlsruhe minaccia di ingiungere alla Bundesbank di non partecipare a quel programma. Senza l’apporto dell’azionista di maggioranza — la Germania — la rete di sicurezza stesa dalla Bce sotto l’euro nel 2012 rischia tradire qualche buco di troppo. È anche per questo che per Draghi e la maggioranza dell’Eurotower ormai il tempo stringe. Il presidente italiano sembra ormai deciso a tenere in Germania una linea ferma e prevedibile, segnalando le sue scelte fino a rendere inaccettabile il costo di una marcia indietro. Lo si è visto in queste ore. Quando il mercato ha capito che Draghi non avrebbe lanciato i nuovi acquisti di titoli già da ieri, l’euro è risalito sul dollaro e per poche ore i titoli bancari hanno oscillato paurosamente. A Piazza Affari Unicredit, Mps, Ubi e il Banco Popolare — istituti che insieme hanno accumulato titoli di Stato italiani per centinaia di miliardi — sono arrivati a perdere per qualche minuto oltre il 4%. Nel frattempo, Draghi viene messo sotto accusa in Germania con un ogni sorta di argomenti: vorrebbe far pagare ai tedeschi le eventuali perdite future di un default italiano, immagazzinando il debito di Roma all’Eurotower; esproprierebbe i risparmiatori con tassi troppo bassi; alimenterebbe una bolla immobiliare che colpisce le giovani famiglie tedesche. Non è chiaro però che le grandi imprese in Germania siano altrettanto ostili. La lunga caduta dello yen, alimentata dalla Banca del Giappone, crea una minaccia imminente per l’industria tedesca: i due Paesi competono sulle auto di lusso o sui grandi sistemi industriali, ma solo Tokyo per ora può contare sui frutti di una svalutazione competitiva. Una svolta della Bce che permetta al made in Germany di correre ad armi pari, in fondo, potrebbe non risultare così indigesta a Berlino. 16 INTERNI Del 5/12/2014, pag. 5 Renzi gioca alla battaglia navale Spese militari. La commisione difesa della Camera: sì all'acquisto di 15 navi da guerra con 10 miliardi di euro Giulio Marcon Ieri la Commissione Difesa (dopo la Commissione Bilancio) della Camera dei Deputati ha dato il via libera al nuovo programma di una quindicina di navi militari –dotate di armamenti di tutto punto– che nei prossimi 19 anni ci portera’ a spendere piu’ di 5,4 miliardi di euro. Si tratta di pattugliatori –corredati di mitragliatrici, cannoncini, lanciasiluri ed altri raffinati sistemi d’arma– che si aggiungono al programma delle fregate FREMM iniziato una decina di anni fa e che anche questo ci costa più di 5 miliardi. In tutto, oltre 10 miliardi di euro per una “battaglia navale” senza senso, finanziata con i soldi presi dai fondi dello “sviluppo economico”: fondi che potrebbero esse più utilmente spesi per sostenere i settori industriali in crisi del nostro paese. Soldi che potrebbero essere utilizzati per rilanciare le imprese che rischiano di chiudere e per gli investimenti nel campo delle energie rinnovabili, nella mobilità sostenibile, nelle nuove tecnologie. Tra l’altro tutti questi soldi –che si trovano, per l’appunto, sui capitoli di spesa del ministero dello sviluppo economico– non vengono mai contabilizzati (come anche i fondi stanziati per le missioni militari all’estero, un miliardo l’anno) come spese della difesa e questo porta a sottovalutare la spesa militare nel nostro paese. Come ha efficacemente dimostrato l’ultimo rapporto della campagna Sbilanciamoci (www.sbilanciamoci.org) investiremo nel 2015 per le spese militari ben 23,5 miliardi di euro, solo qualche milione in meno rispetto al 2014: nonostante la spending review, la spesa militare non viene sostanzialmente intaccata. Agli oltre 10 miliardi di spese per le navi militari, vanno aggiunti i 13 miliardi per gli F35. E’ vero che ci sono mozioni che chiedono il dimezzamento della spesa per i cacciabombardieri, ma per ora la Pinotti fa finta di niente. Dice la ministra che bisogna aspettare il libro bianco sulla difesa (ancora in alto mare, si potrebbe dire) per definire i sistemi d’arma di cui abbiamo bisogno. Però, la Pinotti non ha aspettato il libro bianco per imporre una spesa di 5,4 miliardi per questa nuova “battaglia navale” nel mediterraneo. Dicono al governo che queste navi serviranno anche al soccorso,all’anti-inquinamento, all’aiuto umanitario, a salvare le vite dei migranti nel mediterraneo. Non si capisce a cosa servano lanciasiluri e cannoni per salvare le vite dei migranti: una vera ipocrisia. Se sommiamo la spesa degli F35 a quella delle FREMM e alla spesa di queste nuove navi e di altri sistemi d’arma (come i sommergibili) arriviamo a sforare i 25 miliardi di euro. Se poi mettiamo insieme tutti gli investimenti pluriennali nei sistemi d’arma (Eurofighter, blindati Vbm, ecc) arriviamo alla stratosferica cifra di 43 miliardi di euro. Una spesa colossale e ingiustificata. “Ma a chi dobbiamo dichiarare guerra?”, ci sarebbe da chiedersi. Proprio per questo Sinistra Ecologia e Libertà e Movimento Cinque Stelle hanno votato contro il nuovo programma di riarmo. Tra le due portaerei (la Cavour e la Garibaldi), le fregate FREMM, i quattro sommergibili U-212, la quindicina di nuovi pattugliatori siamo ben attrezzati per una inutile “battaglia navale” che fa contenti ammiragli e capitani di vascello (e il business dell’industria militare), ma che impoverisce drammaticamente un’altra “battaglia” ben più importante: quella del lavoro e della lotta alla povertà. 17 Del 5/12/2014, pag. 17 Casaleggio: fuori tutti i dissidenti Il guru incontra il Direttorio a Montecitorio e annuncia la linea dura: “Vanno isolati nel territorio” L’ala critica diserta l’assemblea con i cinque capi scelti da Grillo e punta sul raduno di Pizzarotti TOMMASO CIRIACO A Montecitorio è l’una passata. Rocco Casalino corre in buvette e ordina qualche panino da portare via. Ordina solo alcuni ingredienti - melanzane, pomodoro, senape - omaggio alla nuova dieta vegana che ha conquistato il cerchio magico grillino. Poco prima, nell’elegante studio di Luigi Di Maio, ha fatto capolino in gran segreto Gianroberto Casaleggio. Cappotto pesante scuro e berretto con i classici riquadri scozzesi, il guru torna a Roma dopo lunghi mesi di assenza. E in compagnia del direttorio (che presto si allargherà a qualche senatore) lascia trapelare la linea: «I dissidenti? Li vorrei fuori, magari se ne andassero! Isoliamoli sul territorio». Come? Disertando il raduno convocato domenica da Federico Pizzarotti. E cambiando la natura del Movimento, fino a farlo somigliare parecchio a un partito. Nel frattempo, si progetta un nuovo mega raduno contro gli scandali capitolini che dovrebbe tenersi già domani a Roma. Lo sforzo dei cinque scudieri che decideranno pure chi andrà nei talk - mira a frenare la furia dello staff milanese. È Di Maio, zoppicante a causa di una storta, a suggerire il percorso in modo da evitare strappi. La road map pianificata con Roberto Fico (che avrà la delega ai meet up, mentre alla comunicazione andrà Alessandro Di Battista), punta alla riconquista del territorio, funestato da microscissioni (ieri in Toscana). Prosciugare il dissenso silenziosamente, insomma. «Consigliere dopo consigliere». A sera i cinque si presentano finalmente in assemblea. I falchi plaudono alla svolta. «In questo momento noi non abbiamo nessun potere sui post che escono sul blog», ammette Fico. Cento, tra deputati e senatori, assistono all’incoronazione. Non partecipano invece parecchi dissidenti, protesta silenziosa contro il nuovo corso. E non mancano momenti di tensione, come quando Cristian Iannuzzi minaccia le dimissioni da deputato. L’ala critica, in ogni caso, mostra parecchie crepe e solo il raduno di Federico Pizzarotti - domenica a Parma - potrà fissare una linea politica comune. «Propongo che venga il direttorio», rilancia Giulia Sarti. «Non ci saremo, vogliamo evitare strumentalizzazioni», la gela Fico, come riporta l’Adnkronos. Non dovrebbe esserci neanche Artini, affossato dallo scivolone a Piazzapulita. La ferita della sua espulsione, però, non sembra rimarginata. E quando l’epurato interviene in commissione Difesa, la sua collega Tatiana Basilio scoppia in lacrime. Del 5/12/2014, pag. 16 Intercettazioni il Senato salva Azzollini dell’Ncd È polemica nel Pd Il senatore è coinvolto nell’inchiesta sugli appalti del porto di Molfetta Decisivi i voti di democratici e Lega LIANA MILELLA 18 Vince Azzollini, perde la magistratura di Trani. Il potente ex sindaco di Molfetta, prima senatore Pdl ora senatore Ncd, la spunta grazie ai voti del Pd, e dopo un braccio di ferro durato quasi un anno. Niente intercettazioni, l’aula di palazzo Madama nega l’autorizzazione a utilizzarle. Sarebbero preziose per attribuire le giuste responsabilità nello scandalo del porto “fantasma” di Molfetta, 150 milioni di euro ottenuti, lavori affidati alla Cmc di Ravenna colosso delle coop rosse, ma poi utilizzati per far quadrare il bilancio del Municipio, visto che i fondali della cittadina pugliese sono talmente a rischio per via dei residuati bellici da rendere impossibile qualsiasi lavoro. Chi ipotizzò l’opera e chiese i finanziamenti sapeva e tacque. Quindi deve rispondere di una sfilza di reati, dall’associazione a delinquere all’abuso d’ufficio, dalla truffa allo Stato alla frode in pubbliche forniture. Le intercettazioni sarebbero preziose, ma andranno al macero. Sul Pd aleggia il sospetto che il salvataggio, più che per Azzollini, sua per la Cmc. Una maggioranza anomala sancisce la “morte” processuale delle telefonate. D’accordo il Pd, Forza Italia, Ncd, e pure la Lega. Contro M5S e Sel. Finisce 160 a 36, e tra chi dice no ci sono anche molti senatori del Pd, tra cui Laura Puppato che mette a nudo l’evidente contraddizione. Proprio mentre fa scandalo l’inchiesta su mafia e appalti a Roma, col Pd costretto al commissariamento, ecco che lo stesso Pd toglie alla magistratura uno strumento di prova. Con una motivazione burocratica, le intercettazioni sono state fatte ma i magistrati non hanno preventivamente chiesto l’autorizzazione. Una legge assurda, perché è ovvio che se ti avviso che sto per intercettarti, tu non parlerai più al telefono. Dice Puppato: «Trovo questa decisione profondamente inadeguata a rispondere alla forte richiesta di trasparenza rivolta a chi svolge ruoli politici. Una decisione sbagliata, e per questo con altri colleghi del Pd voto a favore dell’utilizzo delle intercettazioni». Nichi Vendola affida a un tweet ironico la sua rabbia: «Che fa ora Renzi? Azzera il Pd di palazzo Madama?». Duro M5S con Enrico Cappelletti: «Renzi e Salvini vanno in tv a parlare di lotta alla corruzione, nei fatti Pd e Lega in Parlamento vanno a braccetto per non permettere un completo svolgimento delle indagini della magistratura». Ci si aspetterebbe un dibattito acceso, lungo e sofferto, invece bastano solo 25 minuti — dalle 9 e 59 alle 10 e 24 — per liquidare una pratica che, tra escamotage per ottenere rinvii come la richiesta di altri documenti alla magistratura, va avanti dal 21 gennaio, quando la magistratura di Trani ha chiesto di essere autorizzata a utilizzare 10 intercettazioni a carico del senatore Azzollini, il presidente della commissione Bilancio. In aula non c’è Felice Casson, trattenuto al Copasir, primo relatore sul caso, giunto addirittura a sospendersi dal Pd quando la sua linea, sì deciso alle intercettazioni, è stata platealmente smentita dal capogruppo nella giunta per le autorizzazioni Giuseppe Cucca, favorevole invece alla linea opposta, quella del diniego perché le regole sarebbero state violate. Azzollini adesso è tranquillo, la Cmc pure. 19 LEGALITA’DEMOCRATICA del 05/12/14, pag. 5 «Io ti fornisco l’azienda da usare» Il boss e gli imprenditori collusi La rete di Carminati gestita con i metodi di Cosa nostra ROMA Ogni volta che si parla di mafia e di metodo mafioso, spuntano gli imprenditori vittime e quelli collusi. Per l’organizzazione criminale i secondi sono più importanti dei primi, e spesso i minacciati finiscono per diventare complici. È successo con la mafia e con la ‘ndrangheta, in Sicilia, in Calabria e altrove; ed è successo — sostiene l’accusa — anche con Mafia Capitale. Ecco perché non è soltanto una storia di corruzione e tangenti; ecco perché l’indagine della Procura di Roma rappresenta una specie di sintesi (fatte le debite proporzioni) tra ciò che è avvenuto a Milano con Mani pulite e a Palermo con il maxiprocesso che ha svelato la Cupola di Cosa nostra. Il sodalizio mafioso Il sistema romano lo descrive Massimo Carminati, presunto capo del presunto «sodalizio mafioso», nell’ormai famoso discorso sul «mondo di mezzo» intercettato dai carabinieri del Ros. Quando l’ex estremista nero spiega: «Io ti fornisco l’azienda, quella bona ... perché lui sa, sta’ a costrui’... serve il movimento terra». E prosegue: «Guarda che noi c’abbiamo delle aziende pure di costruzioni... a chi t’appoggi?... Noi dovemo fa’ costruzioni». Nella ricostruzione degli inquirenti queste parole sono collegate al ruolo di un imprenditore divenuto «colluso», Cristiano Guarnera, accusato di essersi messo «a disposizione nel settore dell’edilizia per la gestione degli appalti di opere e servizi». In precedenza aveva chiesto «protezione», ma successivamente «entrava nella schiera di affiliati su cui il sodalizio poteva contare». Una «tipica modalità» adottata dai gruppi mafiosi per acquisire «imprese economiche i cui gestori in una prima fase si rivolgono all’associazione per chiedere aiuto e successivamente ne entrano a far parte». Guadagno coi soldi suoi Guarnera aveva proposto un business immobiliare nel quartiere romano di Monteverde a Riccardo Brugia, «braccio destro» di Carminati. Il quale svela, a proposito di un altro imprenditore per la fornitura di servizi: « Voglio fa fa’ ‘na maniera che famo guadagna’ lui con i soldi sua e noi guadagniamo con i soldi suoi senza caccia’ una lira ». Dopodiché accade un incidente: Guarnera non si presenta a un appuntamento fissato alle 9 del mattino, e Carminati non la prende bene. Brugia avverte l’imprenditore: «Non ti sei svegliato? Chicché, noi nun semo ... non siamo persone che tu me poi risponde così... ». Guarnera cerca di scusarsi in ogni modo con Carminati, ricevendo una lavata di testa che contribuisce a impaurirlo (e anche questo viene considerato indizio di mafiosità: il timore di vendette e ripercussioni basato sulla caratura criminale degli interlocutori). Finché invia un sms mortificato: «Perdonami per favore ho solo voi come amici», che ottiene una risposta finalmente rassicurante: «Chicco stai tranquillo, ci sentiamo domani con calma». Due giorni dopo Guarnera riferisce che Carminati «è stato in grado di una cosa che io in due anni non sono riuscito a fare, lui in tre giorni è riuscito a sbloccarla!». Questo avviene attraverso gli agganci nella piccola amministrazione, mentre altre frasi di Carminati mostrano il suo modo di rapportarsi con le imprese: «Ci si muove solo di guadagno compà ... altre cose non interessano»; e ancora: «Dovemo fallo contento lui, ma più contenti dovemo esse noi». Anche la crisi economica diventa occasione di guadagno: «C’è 20 l’imprenditore che non ha la possibilità... di espandersi... allora... con i soldi tuoi lui si espande e ti dà una piccola percentuale... che però... alla fine ... sono soldi capito?». L’affare di Monteverde non andrà in porto, altri sì; come l’utilizzo degli immobili di Guarnera per fare fronte alla crisi degli alloggi: «Questi qua vengono affidati dal Comune o dal ministero dell’Interno... Onestamente quando pigli i soldi sono sicuri», spiega Carminati. Come Provenzano Un modo d’agire e di pensare non molto dissimile da quelli che il procuratore Pignatone e il suo aggiunto Prestipino, approdati a Roma dopo una lunga esperienza in Sicilia e Calabria, hanno avuto modo di conoscere attraverso le inchieste su mafia e ‘ndrangheta. Un imprenditore lombardo che s’era rivolto a un clan della piana di Gioia Tauro, confessò in una intercettazione: «Purtroppo quando c’è bisogno... ci si rivolge anche a questa gente... questa gente però... è molto difficile mandarli via». Al pentito di Cosa nostra Nino Giuffrè, invece, furono trovati «pizzini» di Provenzano con l’indicazione delle imprese « addisposizione »; e lo stesso Giuffrè spiegò: «Per Provenzano le imprese sono di vitale importanza, non solo da un punto di vista economico. Ciò che gli interessa è avere contatti con persone importanti. Gestire il potere, cioè avere queste persone nelle mani, significa raggiungere determinati obiettivi anche lontani, anche inimmaginabili, perché ogni impresa ha le sue conoscenze, e sfruttando queste imprese e conoscenze ha un potere nelle mani molto, ma molto importante». Sembra un altro modo di descrivere il «mondo di mezzo» di Carminati; anche per questo, per l’ex «nero» e i suoi presunti complici (imprenditori compresi), è arrivata l’accusa di associazione mafiosa. Del 5/12/2014, pag. 6 Lazio, stop a tutti gli appalti Cantone vara la task force il prefetto: scorta a Marino Mafia a Roma, minacce al sindaco. Alfano: valuto lo scioglimento Zingaretti: sospendo le gare. Il Papa: non speculate sui poveri MAURO FAVALE I tentacoli di mafia capitale non avevano strozzato solo le casse del Campidoglio ma si erano allungati anche sulla Regione Lazio. «C’è una gara da 60 milioni di euro», dice intercettato Carlo Guarany, uno degli arrestati. «In Regione c’avemo Gramazio», risponde Massimo Carminati, riferendosi al capogruppo di Forza Italia alla Pisana (ieri dimesso). Parole contenute nell’ordinanza firmata dal gip Flavia Costantini e che hanno convinto ieri Nicola Zingaretti a decidere prima di avviare un’indagine interna sugli appalti della Regione, poi direttamente a sospendere tutte le procedure di gara in corso. Una decisione clamorosa che blocca le assegnazione di decine di appalti di Asl, Ater (l’agenzia per le case popolari) e della Centrale unica degli acquisti. Parallelamente sulle gare del Comune di Roma accenderà un faro l’autorità anticorruzione guidata da Raffaele Cantone. Ieri il magistrato ha incontrato il sindaco Ignazio Marino e gli ha promesso il suo intervento per esaminare (ed eventualmente commissariare) «quegli appalti conquistati grazie alla corruzione». Il rischio, comunque vada, è un rallentamento della macchina amministrativa sia della Regione che del Campidoglio dopo il terremoto “mafia capitale”. Intanto, mentre il ministro dell’Interno Angelino Alfano valuterà lo scioglimento del Comune (pur concedendo che «la capitale non è marcia, è sana»), la 21 preoccupazione del prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro si è spostata sull’incolumità del sindaco Marino: «Ci sono intercettazioni con insulti — afferma Pecoraro — che confermano che un’esposizione del sindaco c’è e va valutata con le altre forze dell’ordine». Nel frattempo, come prima mossa, «il sindaco dovrebbe rinunciare a girare in bicicletta». «Per me sarebbe una perdita molto pesante», confessa Marino che ha promesso al prefetto di «rifletterci attentamente». E sempre una conversazione intercettata («Gli immigrati rendono più della droga») ha spinto ieri Papa Francesco a prendere una posizione molto netta davanti alla Focsiv, l’ong che raggruppa gli organismi cristiani di volontariato: «I poveri non possono diventare una occasione di guadagno». Del 5/12/2014, pag. 6 Quel patto di sangue tra il Rosso e il Nero “I miei soldi sono i tuoi” CARLO BONINI Per arrivare al cuore del Mondo di Mezzo , illuminarne le complicità e pesarne gli interessi, conviene sapere cosa dica di Massimo Carminati il cassiere e Grande Elemosiniere di Mafia Capitale, Salvatore Buzzi, in una delle sue tante confidenze catturate dalle cimici del Ros dei carabinieri nel marzo dello scorso anno. «Il rapporto che c’ho con Massimo? Io c’ho i soldi suoi. E lui sai cosa m’ha detto quando c’aveva paura che l’arrestavano? Viene da me e dice “Guarda, qualunque cosa succede, i soldi ce l’hai te, li tieni te e li gestisci te. Non li devi da’ a nessuno, a chiunque venisse qui da te. Nemmeno mia moglie”. Non so’ soddisfazioni?». E ancora: «Massimo si fida al punto tale di me che se io muoio, neanche viene a chiederli i soldi. E se muore lui, già me l’ha detto che devo fare». Massimo Carminati e Salvatore Buzzi sono dunque la stessa cosa. Non fosse altro perché “il Cecato”, invecchiando, ha ormai una sola ossessione: il grano. Quello che muove e anima gli ingranaggi del suo Mondo tripartito — di Sopra, di Mezzo e di Sotto — e che Buzzi gli porta. A palate. Il tipo è capace di moltiplicare i pani e i pesci e ha messo insieme un giocattolo da stropicciarsi gli occhi. Un castello di 68 società controllate, con complessi incroci azionari, da due holding: la “Cooperativa 29 giugno” e la “Sarim Immobiliare srl”. Una roba che, solo tra il 2011 e il 2013, vede salire il fatturato da 32,6 a 50,9 milioni di euro. Con punte di “eccellenza” come la “Eriches” che, nello stesso periodo, moltiplica del mille e cinquecento per cento le entrate: da 1 a 15 milioni di euro. Una giostra che gira a pieno regime grazie anche alle “cure” del braccio destro di Buzzi, tale Carlo Maria Guarany, vicepresidente della Cooperativa 29 giugno e azionista all’1% della “Sarim”, la società da cui, per altro, partiranno parte dei 75 mila euro versati alla fondazione Nuova Italia di Gianni Alemanno in concomitanza con l’assegnazione di lucrose commesse. Un tipo, questo Guarany, per il quale il gip Flavia Costantini spende, nelle pagine della sua ordinanza di custodia cautelare, la certezza dell’indicativo: «È stabilmente inserito nell’associazione a delinquere di stampo mafioso e partecipa consapevolmente alla commissione dei reati», tanto da preoccuparsi di attivare il jammer che dovrebbe rendere impossibile alle cimici ascoltare le “riunioni di lavoro” che Carminati, Buzzi e, appunto Guarany, apparecchiano negli uffici della “Cooperativa 29 giugno” in via Pomona. I LEGAMI CON FINMECCANICA Sappiamo bene ormai quale sia il segreto di tanta fortuna imprenditoriale e di tanto ascolto in Campidoglio. Ma c’è qualcosa di più. Perché, aprendo le scatole della galassia 22 societaria di Buzzi, non si rintraccia solo la linfa degli affari, ma, innanzitutto, la storia di Carminati e il peso del suo sistema di relazioni e interessi. Con qualche nome più importante e curioso di altri. Accade per esempio che, sfogliando la margherita delle compartecipazioni della holding “Sarim”, si inciampi nelle figlie dell’ex capo delle Relazioni istituzionali di Finmeccanica, Lorenzo Borgogni, già perno del “Sistema Guarguaglini” e oggi “in esecuzione pena” nei cinque ettari della sua tenuta “la Madonna nera”, in quel di Siena. Attraverso la società “Total Care”, Salvatore Buzzi, risulta infatti socio della Renco Health Care in cui, appunto, figurano al 5% del capitale Elisabetta e Benedetta Borgogni. Renco Health Care che — vale la pena ricordare — fa capolino nell’inchiesta sui fondi neri e la corruzione di Finmeccanica per gli appalti pilotati della società Selex, già guidata da Marina Grossi, moglie dell’ex ad Guarguaglini. LA SORELLA DI MOKBEL “Un caso”, si potrebbe dire. E invece, ecco che spunta in un diverso angolo della ragnatela societaria di Buzzi un secondo cognome del coté Finmeccanica e dei suoi rapporti con il mondo dei Neri, di cui il “facilitatore” e collezionista di mirabilie naziste Lorenzo Cola era il passepartout. Parliamo di un altro fascista con i fiocchi: Mokbel. Gennaro, si intende (unico sopravvissuto alla tempesta giudiziaria di martedì scorso, ma già travolto dall’indagine sulla frode carosello da 1 miliardo e 200 milioni di euro conosciuta come caso Telekom Sparkle-Fastweb e da quella del caso Digint-Finmeccanica). Ma non da solo. È di sua sorella Lucia, infatti, la società “Luoghi del Tempo”, una srl partecipata dalla “Cooperativa 29 giugno” e a sua volta azionista e proprietaria del 25% della Rogest, altro ingranaggio societario chiave della galassia 29 Giugno. La “Luoghi del Tempo” ha un particolare interesse. Perché è qui che finiscono i 16 milioni di euro ottenuti dalla “Banca di Credito Coo- perativo” per la gestione di un punto verde a Roma. Un finanziamento che la Mokbel non ha mai restituito e per il quale ha risposto in solido e con la propria cassa il Comune di Roma. L’UOMO DELLA PALESTRA Le coincidenze Nere non finiscono qui. Lasciando per un momento da parte infatti la galassia di Buzzi, ma continuando a tirare il filo di Mokbel e quello delle società coinvolte nell’affare Telecom Sparkle, si finisce infatti di nuovo al nostro Carminati. Il proprietario di una delle società coinvolte nella truffa carosello (I-Globe) è infatti tale Manlio Denaro. Un manager, si dirà. Quantomeno un commercialista. No. Un personal trainer. Che, per un periodo, gestisce la palestra “Flex Appeal” di via Marco Besso, una stradina che ci riporta nel cuore della Terra del “Cecato”: Corso Francia. In quella palestra, infatti, si ritrovano dopo anni di galera Carminati e Riccardo Brugia. E in quella palestra nasce il loro nuovo patto. “Pijiamose Roma”. Del 5/12/2014, pag. 8 “In sei mesi famo doppietta”, prometteva Carminati a imprenditori interessati a “fare affari” con l’immigrazione. Così, tra false fatturazioni, insediamenti abusivi e corruzione, guadagnavano “più che con la droga” “Noi fatturiamo 40 milioni l’anno” Il clan si arricchiva su profughi e rom FABIO TONACCI E MARIA ELENA VINCENZI Quello che per l’Italia è emergenza, per Mafia Capitale è business. «In sei mesi famo doppietta », prometteva il “guercio” Carminati agli imprenditori, ingolositi dall’idea di 23 guadagnare il doppio di quanto investivano nell’affare dell’accoglienza dei profughi e dei campi rom. «Abbiamo chiuso con 40 milioni di fatturato, gli utili li facciamo sugli zingari, sull’emergenza abitativa e sugli immigrati», calcolava l’anno scorso Salvatore Buzzi, l’uomo delle cooperative sociali. Quel «fruttano più della droga» captato dalle cimici del Ros, poi, ne era il logico corollario. Eccolo il sacco di Roma, è cominciato così. Lucrando sui posti e sugli spazi che la città non aveva, prima che intervenisse la mano “amica” di Luca Odevaine. 117MILA EURO ALLA FAMIGLIA ODEVAINE Oggi i profughi e i richiedenti accolti a Roma sono 2.581, nel 2014 costeranno allo Stato circa 35 milioni di euro più altri 7 messi dal Campidoglio. Metà di questa torta è stata, fino al giorno degli arresti, roba loro. Anche e soprattutto grazie al lavoro che Odevaine, ex segretario di Walter Veltroni, ha fatto con il Viminale, lui che, da ex capo della polizia provinciale, sedeva nel Tavolo di coordinamento nazionale per l’accoglienza dei rifugiati. «I posti Sprar che si destinano ai comuni — spiega Odevaine al suo commercialista il 27 marzo scorso — fanno riferimento a una tabella, tanti abitanti tanti posti... Per quella norma a Roma toccherebbero 250 posti.... Un mio intervento al Ministero ha fatto in modo che fosse portato a 2.500». Aggiungendo un dettaglio che dettaglio non è. « Loro... secondo me ce n’hanno almeno un migliaio». Loro sono Carminati e Buzzi e il “disturbo” di Odevaine si paga. Sul libro nero della contabilità parallela di quella che i pm definiscono Mafia Capitale, risulta percepire uno “stipendio”. «Cazzo gli diamo 5mila euro al mese da tre anni! — si sfoga Buzzi con sua moglie Alessandra in un’intercettazione — c’abbiamo gli appartamenti affittati alla moglie, che paghiamo il figlio e i soldi se li piglia lui! Ma dai...». E infatti, annota il gip nell’ordinanza, la “Eriches 29 giugno”, la capogruppo del consorzio di cui Buzzi è amministratore, «versa sui conti della moglie e del figlio di Odevaine una somma pari a 117.200 euro, senza una plausibile giustificazione economica ». E con false fatturazioni. OCCUPAZIONI IN PERIFERIA Ottenuti i profughi, il compagno B. e il “guercio” devono trovare dei campi e delle strutture, e farsi dare poi gli appalti per la gestione. Si attrezzano soprattutto per organizzare Misna, cioè quelli per minori stranieri non accompagnati, perché da tariffario del Viminale, un adulto costa allo Stato “solo” 35 euro, un minorenne invece 91 euro. Più bambini, più soldi. Buzzi arriva addirittura a organizzare un’occupazione abusiva. «Ha individuato un edificio disabitato nella disponibilità del comune di Roma da occupare in via del Frantoio — scrive il gip — risulta essere stata progettata per trasferirvi un numero imprecisato di minori (a partire dal 19 febbraio 2013 saranno circa 230, ndr), previo interessamento del presidente del V Municipio affinché dopo l’occupazione non si sarebbe proceduto allo sgombero». Carminati intuisce subito dove andare a parare. «Al mese c’hai due o tre sacchi di guadagno... capito? Stiamo a parlà deinte-ressi al 40 per cento», dice a uno degli imprenditori collusi, Giuseppe Ietto, “l’ingegnere”, per i sodali di Carminati. I PASTI PRECOTTI La galassia di cooperative di Buzzi ottiene, grazie all’intercessione di Odevaine, la gestione dei centri per minori di Anguillara Sabazia (fino al 22 febbraio 2013, poi è stato chiuso dal sindaco per inagibilità dei locali), di via del Frantoio, di via Silicella (dal giugno 2013 in poi, 600 posti), di via Maremmana. Altri due nei comuni di Ciampino e Licenza, fuori Roma. Buzzi lavora anche per organizzare la cucina del carcere femminile di Rebibbia. Appalti su cui i carabinieri del Ros e i finanzieri del nucleo di polizia di tributaria di Roma stanno ancora indagando. Anche perché i pasti in queste strutture, (16.240 al mese solo per quello di via del Frantoio), li prepara sempre, o quasi, un’a- zienda: la Unibar di Giuseppe Ietto, uno degli imprenditori collusi con la Mafia Capitale finiti nell’inchiesta. «Un ragazzo nostro», lo definisce Carminati che gli ha anche fatto assumere 24 sua sorella, Micaela Anna Maria. È proprio il “guercio” a spiegargli il “giochino” per fare di un’emergenza umanitaria, un bancomat per la banda. «Loro (l’amministrazione pubblica, ndr) sono disposti a pagare il pasto 7 euro per dire, invece di 5 o 4... lì devi avere dei margini da spavento». E poi: «Lo so sembra una cazzata ma alla fine quando fai i grandi numeri so’ soldi eh!». IL CAMPO DI BUZZI Chi lavora con Carminati, però, sa che il 20 per cento di quello che guadagna sulla piazza di Roma, finirà a lui. Oltre a Ietto, tra i collusi c’è Agostino Gaglianone, che ha un’azienda di movimento terra, la Imeg. Nelle carte dell’inchiesta i magistrati annotano anche l’esecuzione del parco giochi per bambini fatta dalla Imeg nel terreno di Marco Staffoli, marito di Rosella Sensi, ex presidente della A. S. Roma. È a Gaglianone che la banda affida l’ampliamento e la manutenzione dei fabbricati mobili del grande campo rom di Castel Romano gestito dalla Eriches 29, il più grande della città (989 nomadi, 5 milioni di euro di fondi ricevuti solo nel 2013). L’uomo è «a disposizione », non muove un passo che il guercio non voglia. Nelle cucine, invece, mettono come al solito la Unibar. «Io me so’ prefisso, me deve fa 500mila all’anno », dice Ietto alla moglie. 500mila euro di guadagno, meno i 100.000 per il boss. Era Carminati a gestire personalmente «la faccenda degli zingari», con la complicità di funzionari del Campidoglio. Il suo gancio era Emanuela Salvatori, responsabile del Coordinamento amministrativo per l’attuazione del piano nomadi. Una figura centrale da avvicinare per mettere le mani sul business e da remunerare facendo assumere la figlia della donna, Chiara Derla, in una delle aziende nelle mani della Mafia Capitale. Del 5/12/2014, pag. 13 Il racconto. “ Denaro”, “tangenti” e “debiti” Tra turpiloquio, enfasi, verbi troncati di un romanesco contaminato da “aziendalese” (ma con pochi aggettivi “per andare dritti al sodo”) si esprimono gli uomini del clan “Sordi”, “stecche” e “strisciate” Quelle parole in lingua predona della nuova mafia capitale FILIPPO CECCARELLI PIGLIÀ ’ », « paga’ », « guadagna’ », « compra’ », « prosciuga’ », oltre naturalmente a « rubba’ », tutto questo in linea di massima « pe’ sistemasse », ma forse il proposito è soltanto un auto-inganno e ogni dialogo corrisponde in realtà a una concezione piuttosto elementare e famelica dell’esistenza. Sia come sia, gli abitanti del «mondo di mezzo», espressione di controversa derivazione tolkeniana, troncano i verbi all’infinito, come succede a Roma, usano pochissimi aggettivi, vanno al sodo, all’osso, con il che dalle intercettazioni viene fuori una lingua sostanzialmente selvatica, predona. Che tuttavia, nel mentre si avvicina alle istituzioni, per così dire, si fa ambigua, sfuggente, perciò banditi e faccendieri si ritrovano e si riconoscono l’un l’altro nella comune condizione di « campà de politica », e allora occorre « da’’ na mano », « da’ ‘ na spinta », « tene’ in caldo », « crea’ » o « chiude un quadro », come pure « bussacchia’ », cioè andare a bussare nelle anticamere, pratica per molti versi necessaria, ma per alcuni dei protagonisti assai mortificante. Gli uomini veri, infatti, quelli 25 potenti, non devono nemmeno chiedere. Il rispetto gli è dovuto dalla loro storia, anche criminale. E i « sordi » pure, secondo logiche di accumulazione abbastanza primordiale. È comunque un mondo straordinariamente maschile, in questo quasi irreale, quello che viene fuori dalle carte, per ora non c’è nemmeno una donna che parli, giusto un paio di segretarie che dicono «buongiorno ». Dalle frasi e dalle parole si capisce che i protagonisti adorano il comando e giocano sui suoi effetti primari, tra cui incutere paura. Ma in questo, sia pure imbastardito, il romanesco dell’inchiesta mafia-capitale ondeggia irrimediabilmente tra l’enfasi («gli faccio caca’ sangue », « o famo strilla’ come un’aquila sgozzata »), l’automatico turpiloquio (« li mortacci »), la classica meraviglia infantile («mamma mia!») e la consueta ricaduta nella commedia. Notevole a questo proposito lo «scherzo» che il cooperatore sociale Buzzi riferisce di aver rivolto a uno che traccheggiava o faceva finta di non capire: «Gli ho parlato in francese stretto e gli ho detto: “Senti, o è sì o è no: non ce poi rompe er cazzo così, eh! ». Così come ricorrono — e non si direbbe per delicatezza d’animo — le bestemmie cosiddette di secondo grado ovvero camuffate: oltre ai classici «porco due» e «mannaggia alla madosca» si ritrova un inconsueto «mannaggia alla madoro». Per non dire della fuga, anch’essa tutta romana, verso l’indeterminatezza, donde la frequenza di « coso » e di « cosi » e la menzione, probabilmente riferita a un dispositivo antiintercettazioni, designato «il fregno ». Per il resto, se il gangster neofascista Carminati pare decisamente a suo agio con il gergo della malavita aggiornato e corretto (il telefono intercettabile è detto « storto », le chiavi false « pongate », le tangenti « stecche », i debiti « strisciate » e per dire che lui e i complici si sono lasciati arrestare usa « se semo fatti beve »), è anche vero che nel suo complesso i confini tra la lingua in uso nelle carceri e quella della politica paiono davvero labili, come se nell’inchiesta le sedi deputate e la strada si fossero unificate anche a livello lessicale. Di più: la lingua di mezzo rispecchia con suprema evidenza l’immiserimento e il degrado del potere. E peggio: parole e frasi danno la misura della più definitiva scomparsa di qualsiasi idealità, la desertificazione di ogni progetto collettivo. In pratica il nulla o quasi — là dove quel pochissimo che rimane trova immediato riferimento al mondo della prostituzione: «Mettiti ‘ a minigonna e vai a batte ... «, in tal modo Carminati incoraggia il suo compare a sedurre i successori di Alemanno Del resto il «Cecato» chiama spesso gli interlocutori « compa’ », che dati i trascorsi del soggetto non sta certo per «compagno ». Mentre al telefono i comprimari si salutano ilari: «Mister!», «Grande!», «Bello!», «Maestro!». L’abbondanza di soprannomi — alcuni anche vivaci: «er Cicorione» e «Kapplerino», ad esempio, più scontati «er Cane» e «er Mandrillo» — denuncia la dimensione sempre più chiusa dei circuiti, un giro ormai così stretto da certificare il tribalismo. Si direbbe che questo abbia indebolito qualsiasi fantasia ed energia popolaresca, limitata alla comparsa di una figura immaginaria quale «Fraccazzo da Velletri». Ogni tanto si capisce che qualcuno fa il moderno o lo spiritoso. Il giovane Gramazio, per dire, a proposito dell’azienda dei rifiuti, in sigla Ama, proclama: «Lassù qualcuno ci Ama»; come pure il troppo pratico Buzzi vanamente si sbilancia: «Tutto under control ». Non solo non c’è nessuno che faccia ridere, ma tutti sono talmente preoccupati di arraffare entrature, quattrini e commesse che finiscono per assomigliare l’uno all’altro — a parte forse Gramazio senior che a un certo punto riconosce di essere « rincojonito ». In realtà, questo mondo di bande voraci esprime un linguaggio spurio e contaminato. Solo in fondo si avverte l’ombra remota del vecchio politichese. Ben più determinanti paiono gli influssi dell’aziendalese, del giornalese («emergenza-neve», « te do una news »), dell’universo del tifo (l’immancabile «squadra»), della pubblicità («l’uomo del monte ha detto sì»). Con qualche malizia pare anche di cogliere l’eco di edulcorazioni di derivazione meta-berlusconiana, tra cui spicca l’uso del termine «carinerie». Un discorso a parte merita le denominazione delle attività del mondo di mezzo: l’onlus 26 «Piccoli passi», per dire, o «Il Sorriso». Qui la Grande Menzogna appare per una volta nuda e senza pudore — e la speranza è che almeno a questo servano le inchieste e quel che ne deriva. del 05/12/14, pag. 4 POLETTI, ROVINATO DA UNA COOP NEGLI ANNI HA FREQUENTATO PIÙ VOLTE LA “29 GIUGNO”. OGGI SI DICE “INDIGNATO DELL’ACCOSTAMENTO ” Salvatore Cannavò Sto male nel vedere il mio nome messo vicino alle schifezze che ci sono. Sono indignato”. La reazione di Giuliano Poletti di fronte alla foto che lo vede a tavola con una parte dei componenti di “Mafia Capitale”, è netta. L’immagine ha fatto il giro di giornali e tv e raffigura il ministro, all’epoca (2010) presidente di Legacoop, insieme a Salvatore Buzzi, Gianni Alemanno, Franco Panzironi, Daniele Ozzimo e altri protagonisti di questa storia criminale. “È intollerabile”, dice il ministro, vedersi associato a certe persone e a certe “schifezze”, “è ovvio che chi ha un ruolo pubblico incontri tante persone. Ero convinto che Buzzi fosse una persona perbene”. La reazione è comprensibile, soprattutto dopo la lettura, ieri mattina, dell’articolo di Roberto Saviano, su Repubblica , con cui lo scrittore chiede al ministro di “spiegare quella cena”. EPPURE, DI FOTO CON SALVATORE BUZZI, Po - letti ne ha fatte altre. Più volte. Basta prendere il Magazine della cooperativa “29 giugno”, la creatura dell’uomo del Pd che, secondo l’accusa, “si occupa della gestione della contabilità occulta della associazione e dei pagamenti ai pubblici ufficiali corrotti”. La foto di Poletti campeggia proprio accanto a quella di Buzzi nel numero dedicato all’approvazione del bilancio 2013. Nell’editoriale di apertura, Buzzi spiega la scelta di dedicare la copertina a Poletti non è casuale, e “all’amico ministro” invia un caloroso saluto. Giuliano Poletti, all’epoca della cena, era ancora il presidente della Legacoop e quindi, come spiegano anche nella potente associazione nazionale, era piuttosto normale che presenziasse alle assemblee delle strutture associate. La cosa curiosa, però, è che anche l’anno precedente, Poletti abbia trovato il tempo di andare alla “29 giugno”. La Legacoop conta 12.234 cooperative, ma nella struttura romana, che si è rivelata uno dei pilastri del sistema della banda Carminati, i rapporti sono più che buoni. E infatti, la sua foto si ritrova nella prima pagina della rivista, ancora accanto a Buzzi. Questa volta, inoltre, nel numero del Magazine, troviamo anche una sua intervista “esclusiva” in cui indica nel sistema delle cooperative sociali un orizzonte obbligato per tutto il sistema delle cooperative. Il rapporto con Buzzi è così solido che ancora, nel 2014, in occasione dell’approvazione del bilancio 2013, l’uomo, già in cella per omicidio (uscito dal carcere e in grado di creare la nuova attività) non dimentica l’amico, ormai ministro, e conclude la sua relazione con un “augurio di buon lavoro: al ministro Giuliano Poletti, nostro ex Presidente nazionale che più volte ha partecipato alle nostre assemblee; al governo Renzi affinché possa realizzare tutte le riforme che si è posto come obiettivo, l’unico modo per salvare il nostro Paese dalla stagnazione e dall’antipolitica”. POLETTI NON È INDAGATO e non ha compiuto nessun illecito. Buzzi, probabilmente, lo ha utilizzato come fiore all’occhiello da esibire in pubblico. Particolare che si può desumere da un altro particolare. Nell’ottobre del 2013 il presidente della “29 giugno” 27 scrive all’amministratore del gruppo finanziario Ugf (Unipol), Carlo Cimbri per lamentare il mancato ottenimento di un finanziamento. “Troppo esposti” risponde l’Uni - pol alla richiesta di un prestito a medio termine di 800 mila euro. I debiti della cooperativa, in effetti, ammontano a 18 milioni e con Unipol la “29 giugno” ha, a quella data, linee di credito già aperte per 18,8 milioni. Buzzi invia la lettera “per conoscenza” a due persone: al presidente della Repubblica (niente di meno) ma anche al presidente di Legacoop, Giuliano Poletti. Per far capire l’importanza della propria situazione, poi, invia a Cimbri la relazione di approvazione del bilancio, sottolineando che questa “si è tenuta alla presenza del presidente nazionale di Legacoop Giuliano Poletti e dell’ad di Banca Prossima, Marco Morganti”. Sarà proprio Banca Prossima, del gruppo Intesa Sanpaolo, specializzata in progetti “no profit”, a mettere a disposizione la propria piattaforma Terzo valore, per un progetto di raccolta fondi da 900 mila euro avviato dopo il rifiuto di Unipol. Per Poletti non c’è nulla da sospettare, le cose gli accadono intorno “a sua insaputa”. Il ministro, del resto, nella sua presidenza di Legacoop era sembrato sonnecchioso anche nel caso del coinvolgimento di Manuntecoop, e del suo presidente, Claudio Levorato, nelle inchieste relative a Expo 2015. Anche in quel caso, la casa-madre non riusciva a capire cosa avveniva nella, corposa, periferia del sistema cooperativo. AD ATTACCARE POLETTI non c’è solo la destra ma, soprattutto, il sindacato una volta parte integrante del mondo delle coop. La Cgil sta conducendo da tempo una campagna contro “una progressiva opacità, un’assenza di legislazione sulle cooperative spurie, sul terzo settore” che caratterizza il sistema degli appalti pubblici. In tutti gli incontri sono avanzate richieste in tal senso “ma finora non è accaduto nulla” fanno sapere da Corso Italia. Ieri Susanna Camusso ha ventilato anche la possibilità che Poletti risponda in Parlamento di quanto avvenuto. Anche perché, secondo l’ex assessore della giunta Alemanno, Umberto Croppi, in quella cena si festeggiava “un trucco contabile” tramite il quale il Comune stanziò finanziamenti per le cooperative sociali. Anche di questo Poletti non si è accorto. Del 5/12/2014, pag. 1-2 Il Paese che vive nella Terra di mezzo ROBERTO SAVIANO SU“ Mafia capitale” sappiamo tutto, abbiamo letto le cronache dell’operazione condotta dai Ros del generale Parente e dalla Procura di Roma guidata da Giuseppe Pignatone, abbiamo letto l’ordinanza del gip Flavia Costantini, ma non so se è chiaro a tutti cosa sia accaduto a Roma. ECOSA molto probabilmente sta accadendo altrove in Italia. Succede alla politica italiana ciò che sta accadendo alla società civile che guarda alla politica con schifo, senza riuscire a percepire le proprie responsabilità. Accade che in politica ci si venda, si ipotechi la propria anima per pochi spiccioli (ci sono mazzette da 750 euro prese senza la reale percezione della gravità della situazione come una legittima e piccola regalia). Accade che la politica non abbia autorevolezza e idee proprie, accade che la politica venga percepita come una occasione di guadagno, un mestiere che arriva senza dover studiare, senza curriculum ed esperienza. La domanda è: ma come fanno personaggi che definiremmo “dalla storia ambigua”, come Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, a diventare artefici, attori, protagonisti di vicende che assumono connotazioni grottesche? Un assassino e un ex terrorista, ex Nar, organico alla banda della Magliana. Il primo, Buzzi, aveva scontato la sua pena, il secondo 28 Carminati era stato assolto, ma su di lui esistono pagine e pagine di informative e una stretta osservazione. Ebbene Buzzi e Carminati in qualsiasi altro Paese condurrebbero la loro vita lavorativa sotto una strettissima sorveglianza, dovrebbero avere un comportamento talmente ligio da provare che si può uscire diversi dal carcere, da dimostrare che le assoluzioni sono opportunità di reinserimento e non salvacondotti. E invece a Buzzi e Carminati la politica dà massima fiducia senza chiedere in cambio nessuna trasparenza. Ci si fida di loro, ciecamente. Vi siete chiesti come sia stata possibile una tale idiozia? In questi giorni il mantra è: colpevole è non solo chi è consapevole, ma anche chi non vuole vedere. E allora noi da che parte stiamo? Tra i colpevoli o tra quelli che non vogliono vedere? Dobbiamo scegliere, perché una terza via non esiste. Come possono personaggi come Carminati e Buzzi apparire “affidabili”? Possono farlo perché siamo in Italia. Possono farlo perché in Italia ciò che si rifiuta e rifugge non è il rapporto con chi tutto sommato è peggio di noi, ma con chi è meglio. Con chi ha una immagine pulita si fa il tiro al bersaglio: il gioco è far cadere il simbolo positivo dal piedistallo. Ed ecco che chi si distingue per professionalità e rettitudine in una giunta comunale viene allontanato, con maggiore o minore clamore mediatico, a seconda delle circostanze, ma se intralci i giochi sei fuori. I politicanti utilizzano e si legano a personaggi che non sono figure da poter demolire e che non vogliono cambiare il sistema e che abitano quel “mondo di mezzo” che Carminati, ha preso in prestito da Tolkien. «Ci stanno i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo. E allora vuol dire che ci sta un mondo, un mondo in mezzo, in cui tutti si incontrano. Anche la persona che sta nel sovramondo ha interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia delle cose che non le può fare nessuno. Questa è la cosa… e tutto si mischia». Non è da leggere come è stato fatto sino ad ora come una “cerniera” tra teppa criminale e colletti bianchi. Questa è una vera e propria sintesi di filosofica economica. Si parla chiaramente di un luogo trasversale dove ci si affida a chi “sa fare le cose”, chiunque egli sia. E qui arriva Salvatore Buzzi con le sue cooperative di disperati, di marginali, ex detenuti, immigrati che in un’Italia che non produce nulla, in un’Italia in cui le aziende muoiono, in un’Italia strangolata da un sistema fiscale irrazionale che in larga parte deve sopperire ai costi enormi e agli sprechi della politica, diventano una miniera d’oro. In Italia è inevitabile che le emergenze diventino vere e proprie occasioni di profitto. La crisi dei rifiuti a Napoli ha irrorato la politica, la camorra e l’imprenditoria per oltre un decennio. Mare nostrum è stata una tragedia per tutti tranne che per Carminati e Buzzi. Per loro i barconi della speranza piuttosto che emergenza umanitaria, sono diventati un’enorme opportunità. «Ci fanno guadagnare più della droga», dicono. Quindi l’organizzazione mafiosa con a capo Carminati non guadagna con attività che tradizionalmente sono considerate criminali, ma con attività che invece godono di un’aura di nobiltà. Attività intoccabili, insospettabili. Ma di umanitario e ideologico non è rimasto proprio nulla: l’ideologia non c’entra, gli affari sui rom, sull’emergenza case, sugli immigrati, li fanno paradossalmente proprio gli uomini di Alemanno, coloro i quali hanno partecipato alla giunta che meno si è distinta per solidarietà verso gli ultimi, verso i bisognosi e i disperati. Non c’è più colore politico, ecco perché verso gli estremisti della prima e dell’ultima ora non posso fare a meno di provare pena; non c’è colore: basti pensare che Carminati che proviene dalla estrema destra, si sceglie Buzzi come braccio destro, un uomo che proviene dalla estrema sinistra. E poi ancora: dal momento che a predisporre e coordinare l’emergenza migranti è il tavolo di coordinamento nazionale presieduto dal ministero degli Interni, lì deve sedere un uomo che sia al soldo del duo Carminati-Buzzi. Quest’uomo è Luca Odevaine, che ricorda Mister Wolf di Pulp Fiction, il problem solver. Luca Odevaine è stato vice capo di Gabinetto della giunta Veltroni, poi capo della Polizia provinciale, poi capo della protezione civile con Zingaretti e infine al tavolo di Coordinamento nazionale sull’accoglienza per i richiedenti 29 asilo. È lui, per intenderci, che prende in gestione la capitale quando muore Giovanni Paolo II. La trasversalità del sistema si basa su una macchina oleata fatta di mazzette grandi e piccole. Odevaine, secondo l’accusa, avrebbe percepito una mazzetta da cinquemila euro al mese. Ma la cosa più interessante è che leggendo le carte dell’inchiesta si ha la sensazione che nessuno abbia reale consapevolezza del proprio status di corrotto. Quello che molti hanno preconizzato, ovvero che Tangentopoli fosse solo il punto di partenza di un’apocalisse politica e sociale definitiva si sta avverando. Ora i corrotti non solo si sentono legittimati a commettere illeciti, ma non hanno neanche più la consapevolezza della gravità dei loro comportamenti. In tutto questo Matteo Renzi arriva tardi a commissariare il Pd di Roma. Prima della magistratura, la politica dovrebbe avere occhi, orecchie, dovrebbe ascoltare ogni sussulto, ogni sospiro. I segnali c’erano. E invece Renzi, che aveva tutti gli strumenti per sapere e per azzerare il Pd romano prima di questo terremoto giudiziario, lo fa dopo. Dall’altra parte — o dalla stessa parte anche se sembra si facciano guerra — c’è una destra sempre più disinvolta nell’occupare posizioni per trarne vantaggio, per condizionare la democrazia, anche usando la stampa locale che si presta al gioco, come è successo con Il Tempo diretto da Chiocci, che è arrivato a incontrare Carminati. Mafia capitale è solo l’inizio. Altre inchieste in altre città dimostreranno che Roma non è un caso isolato. In altri Paesi europei esiste la corruzione, ma la corruzione non arriva a compromettere l’istituzione stessa: il corrotto è espulso dall’istituzione che è percepita come sacra e va salvaguardata. In Italia l’istituzione invece è utilizzata, lordata e non viene difesa. Ma perché questo accade? Perché ormai si è impadronita di chiunque una consapevolezza: senza brigare non si va da nessuna parte. Senza forzature non succede niente, non cambia niente. Quindi in fondo la posizione bipartisan sembra essere questa: è inutile fingere di essere al di fuori o al di sopra. Tutti dobbiamo compromettere una parte del nostro lavoro, della nostra integrità, per ottenere qualcosa. Questa è la logica che emerge da “Mafia capitale”. Questa è la teoria del “Mondo di mezzo” di Carminati non portata alle estreme conseguenze, ma applicata a tutti noi. Da questo meccanismo nessuno si senta escluso, le mazzette trovate nelle buste con il logo di Roma Capitale ci riguardano, perché Roma Capitale siamo noi. In questo Paese che non è capace di difendere il talento e l’impegno, dove tutti odiano tutti, dove tutti detestano chi ce la fa, in questo Paese tra il mondo dei vivi che sta sopra e il mondo dei morti che sta sotto, in mezzo ci siamo noi. In mezzo c’è l’intero Paese che non riesce a reagire. Del 5/12/2014, pag. 1-3 Quando Berlinguer annunciava la palude Questione morale . Un ruolo-chiave, in questo disastro, lo ha svolto anche l’ideologia o, meglio, la sedicente liquidazione delle ideologie Alberto Burgio <<I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela. Gestiscono talvolta interessi loschi, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello. Non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile: sono piuttosto federazioni di camarille, ciascuna con un boss e dei sotto-boss. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi e di soffocare in una palude». A quanti sono tornate in mente in queste ore le parole di 30 Enrico Berlinguer nella famosa intervista alla Repubblica del febbraio 1981? Sono trascorsi più di trent’anni e la palude ormai ci sommerge. Nel venticinquesimo della morte ci si ricorda finalmente di Leonardo Sciascia. Anche Sciascia lanciò l’allarme. «La palma va a nord», scrisse: marcia alla conquista del paese. Alludeva al modello siciliano d’impasto tra politica e mafia. Un impasto nel quale dapprincipio la mafia intimidisce e corrompe, poi penetra le istituzioni e si fa Stato. Ripetutamente Sciascia mise in guardia dal rischio che questo modello si generalizzasse. Oggi fingiamo di scoprire che mafia e ‘ndrangheta si sono stabilite a Milano e controllano vasti settori dell’economia nazionale. E guardiamo atterriti al nuovo romanzo criminale della mafia romana, edizione aggiornata di quell’universo orrendo che ruotava intorno alla banda della Magliana, coinvolgendo anche allora mafia, politica e terrorismo neofascista. In questi trenta-quarant’anni non solo non si è fatto argine contro il malaffare. Lo si è assecondato, lo si è favorito. Gli anni Ottanta dell’«arricchitevi!» di craxiana memoria. Della Milano da bere e del patto scellerato tra Stato e capitale privato che aprì le voragini del debito pubblico e dell’evasione fiscale. Poi venne l’unto di Arcore: la politica usata (con la complicità di gran parte della «sinistra») per salvare le aziende di famiglia; la legalizzazione dei reati finanziari; l’esplosione delle ineguaglianze. E vennero le «riforme istituzionali» che, proprio per iniziativa della sinistra post-comunista, diedero avvio allo stravolgimento maggioritario-presidenzialistico della forma di governo disegnata in Costituzione. Il presidenzialismo negli enti locali ha reso le istituzioni più fragili e permeabili ai clan anche per effetto di un apparente paradosso. L’accentramento monocratico del comando è andato di pari passo con la disarticolazione dei partiti politici, culminata nella farsa delle primarie aperte. Questo processo ha da un lato azzerato la dimensione partecipativa e la funzione di orientamento culturale svolta in precedenza dai partiti di massa; dall’altro ha promosso una selezione perversa del ceto politico-amministrativo, premiando chi aveva le mani in pasta nel mondo degli affari. Così i partiti – soprattutto i maggiori – si sono ritrovati sempre più spesso alla mercé delle consorterie e delle cupole, secondo un meccanismo analogo a quello che in altri tempi permise a Cosa nostra di comandare nella Palermo di Lima, Ciancimino e Gioia. Ma un ruolo-chiave, in questo disastro, lo ha svolto anche l’ideologia o, meglio, la sedicente liquidazione delle ideologie: l’avvento di una politica che si pretende post-ideologica, che ha significato in realtà il congedo di gran parte della sinistra italiana dalle lotte del lavoro e da una prospettiva critica nei confronti degli spiriti animali del capitalismo. Non è necessario, certo, essere comunisti per comprendere che moralità e buona politica sono strettamente connesse tra loro nel segno del primato della giustizia e del bene comune. Né in linea di principio aderire senza riserve alle ragioni del capitalismo impedisce di riconoscere l’importanza della questione morale e di essere «onesti», per riprendere un lemma sul quale si è ancora di recente dibattuto. Ma se della moralità e dell’onestà non si ha una concezione povera e astratta, allora si comprende facilmente che entrambe coinvolgono direttamente il modo in cui si giudicano l’ingiustizia sociale e il persistere dei privilegi. Non è un caso che, riflettendo sulla questione morale, Berlinguer in quella stessa intervista parli proprio di questo. Della necessità di difendere «i poveri, gli emarginati, gli svantaggiati» e di metterli davvero in condizione di riscattarsi. Non è un caso che rivendichi le lotte del movimento operaio e dei comunisti, non soltanto contro il fascismo e con gli operai, ma anche al fianco dei disoccupati e dei sottoproletari, delle donne e dei giovani. Né è casuale che insista sulle gravi distorsioni, gli immensi costi sociali, le disparità e gli enormi sprechi generati dal «tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico». Per concluderne che esso – «causa non solo dell’attuale crisi economica, ma di fenomeni di barbarie» – deve essere superato, pena il verificarsi di una catastrofe sociale «di proporzioni impensabili». Oggi come allora la questione morale investe frontal31 mente la politica anche per questa via: è una faccia della sua complessiva degenerazione. Non si tratta soltanto di illegalità, ma anche di irresponsabilità di fronte alla devastazione sociale provocata da trenta e passa anni di dominio del mercato, del capitale privato, dell’interesse particolare. Questione morale e irresponsabilità sociale della politica non sono, qui e ora, fenomeni indipendenti tra loro, bensì manifestazioni della stessa patologia. Del 5/12/2014, pag. 13 Allarme riciclaggio: economia criminale vale 12% del Pil ROSARIA AMATO ROMA . È un’industria prospera: secondo alcune stime il giro d’affari dell’economia criminale arriva fino al 12 per cento del Pil. Ma è anche ben connessa: i proventi del traffico di droga, estorsione, gioco d’azzardo, sfruttamento della prostituzione vengono immessi con facilità nell’economia sana, grazie soprattutto al sommerso e all’uso eccessivo del contante, una caratteristica tutta italiana. Nel nostro Paese infatti, ricorda il Comitato di Sicurezza Finanziaria, presieduto dal direttore generale del ministero dell’Economia Vincenzo La Via, il contante viene usato nell’85 per cento delle transazioni contro una media Ue del 60 per cento. Non è soltanto un problema di arretratezza sul fronte dei pagamenti elettronici: il rischio di riciclaggio è altissimo e i controlli sono praticamente impossibili, visto che i pagamenti in contante non sono “tracciabili”, una banconota è uguale all’altra. Negli ultimi anni, riconosce il Comitato nell’ Analisi nazionale dei rischi di riciclaggio e finanziamento del terrorismo , l’uso di contante ha subito «una costante contrazione dovuta sia alle crescente diffusione di strumenti alternativi, sia all’effetto delle politiche restrittive». Ma non è abbastanza: la criticità rimane ancora alta, soprattutto in alcune province italiane, prevalentemente meridionali. Anche l’economia sommersa, che pur concentrandosi in attività legali sfugge ai controlli del fisco e degli istituti di previdenza, è un canale di passaggio ideale per il riciclaggio. Tanto più che il sommerso ha raggiunto in Italia, secondo alcune stime, una quota del 22 per cento del Pil, contro il 19 per cento della media europea. Ci sono attività economiche che più di altre sono esposte al rischio di riciclaggio: i giochi, e non soltanto il gioco d’azzardo, anche le piattaforme online legali oppure le scommesse a quota fissa. I compro-oro, che si sono diffusi con la crisi e attualmente tenuti al solo obbligo di segnalazione di operazioni sospette. Il settore immobiliare, da sempre «uno dei settori privilegiati per il reimpiego dei ricavi illegali delle organizzazioni mafiose e dei capitali illeciti stranieri». I trust, società non regolate ancora a sufficienza dal diritto italiano. A vigilare, oltre alle forze dell’ordine, l’accurata rete di controlli finanziari che include anche la Banca d’Italia, la Guardia di Finanza e la Consob. del 05/12/14, pag. 15 Procura di Palermo: la politica 32 spacca il Csm, decide il Plenum NESSUN ACCORDO SUL NUOVO CAPO: 2 VOTI PER SERGIO LARI, 2 PER FRANCESCO LO VOI E UNO PER GUIDO LO FORTE. IL VERDETTO DEFINITIVO DOVREBBE ARRIVARE IL 17 DICEMBRE di Antonella Mascali Era nell’aria la spaccatura avvenuta ieri al Csm sulla nomina del procuratore di Palermo. Quella poltrona non appartiene a un ufficio giudiziario qualsiasi. E il processo sulla trattativa Stato-mafia pesa come un macigno, così come il conflitto di attribuzione contro la procura sollevato dal presidente Giorgio Napolitano davanti alla Corte costituzionale, sulle intercettazioni con l’ex ministro Nicola Mancino. La Quinta commissione si è divisa in tre sul candidato da proporre al Plenum. Il procuratore di Caltanissetta, Sergio Lari, ha avuto i due voti dei consiglieri di Area, la corrente di sinistra, Fabio Napoleone e Lucio Aschettino; altri due voti li ha ottenuti Franco Lo Voi di Eurojust. È stato votato dal togato di Magistratura Indipendente (corrente di destra) Claudio Galoppi e dalla consigliera laica di Forza Italia, Elisabetta Casellati. Il procuratore di Messina, Guido Lo Forte, ha avuto un solo voto, quello della presidente della Commissione, Maria Rosaria Sangiorgio, di Unicost (corrente centrista). Significativa l’astensione del laico del Pd, Giuseppe Fanfani. È la conferma che il dado non è tratto. Sul voto, probabilmente il 17 dicembre, peserà molto quello dei laici e potrebbe non rispecchiare, almeno in parte, l’appartenenza di partito ma la volontà, espressa nei corridoi dal vicepresidente Giovanni Legnini, che ricalca quella del presidente Giorgio Napolitano, di avere a Palermo un procuratore che sia prudente. Riflessione che sembra incarnare il ritratto di Lo Voi. L’ex pm di Palermo, però, non ha mai diretto un ufficio giudiziario. Se prevarranno alcuni giochi politici, nonostante debba guidare una procura ad alto rischio come quella Palermo, questa sua inesperienza non conterà. LEGNINI in questi giorni medierà fra i gruppi perché ci sia un procuratore con più consensi possibili. Può farcela anche Lari, ex procuratore aggiunto di Palermo. Oltreché su Area potrebbe contare su una parte di Unicost e di laici. Proprio gli otto laici, Legnini, il presidente e il procuratore generale della Cassazione, Giorgio Santacroce e Gianfranco Ciani saranno determinanti. Infatti, tra i togati la maggioranza ce l’ha Area, sette consiglieri, a seguire Unicost, cinque, e Magistratura Indipendente quattro. Ma la partita di Palermo si incrocia anche con quella di Milano. Bruti è un esponente di spicco di Magistratura democratica e se dovesse rimanere al suo posto, secondo la logica correntizia, Palermo, che ha anche il procuratore generale Roberto Scarpinato, espressione della sinistra, non potrebbe avere anche un procuratore della stessa area. Un vantaggio, in astratto, per Lo Voi, anche se diversi togati, non solo di Area, non sarebbero disposti a votarlo. NEL PRECEDENTE Csm la commissione aveva attribuito tre voti a Lo Forte, due a Lari e uno a Lo Voi. Dunque, la nomina di Lo Forte sembrava quasi fatta. Ma è stata fermata da una lettera del Quirinale che ha chiesto di occuparsi delle nomine in ordine cronologico. In questi giochi ancora aperti non si può escludere l’effetto sorpresa Lo Forte, ma al momento appare improbabile. Il padre dell’inchiesta sulla trattativa, l’ex magistrato Antonio Ingroia ha espresso la preoccupazione che possa prevalere una volontà di normalizzazione e perché questo non accada ha auspicato la nomina di Lo Forte, ex aggiunto a Palermo, che fu tra i pm del processo Andreotti, oppure di Lari, nonostante Ingroia da procuratore aggiunto palermitano abbia avuto con lui dei contrasti in merito alla gestione di Massimo Ciancimino e alla trattativa Stato- mafia. 33 SOCIETA’ del 05/12/14, pag. 25 Fondi tagliati del 70% e pochi asili nido L’Italia si arrende alla povertà dei bimbi In miseria 1,5 milioni di minori. Le ricerche: cattiva alimentazione e offerta educativa carente Una spending review implacabile l’han fatta davvero: sui fondi per combattere la povertà. Dal 2008 a oggi hanno tagliato il 69,4%. Proprio mentre crescevano gli affanni delle famiglie: la metà di quelle con tre figli, nel Sud, è in miseria. Lo dicono la Fondazione Zancan e un rapporto della Commissione parlamentare sull’infanzia: la crisi pesa soprattutto sui bambini. Gli ultimi dati del Centro studi veneto mettono i brividi: tra il 2011 e 2013 «la percentuale di famiglie con almeno un figlio minore relativamente povere è aumentata di quasi 5 punti percentuali, dal 15,6% al 20,2%». A dispetto di tutte le chiacchiere sulla famiglia («Ci vuole ben altro che qualche spot coi cuccioli in braccio, bambini o cagnolini che siano», ha scritto furente il direttore di Famiglia Cristiana Antonio Sciortino) il quadro è drammatico. «La situazione è particolarmente grave per le famiglie con tre o più figli minori», insiste il dossier: per oltre un terzo sono «relativamente povere». Nel Mezzogiorno, come dicevamo, il quadro è ancora più fosco: è povera più di una famiglia su tre (36,4%) con almeno un figlio minore e poverissimo il 51,2% di quelle che hanno tre o più figli piccoli o adolescenti. «I bambini sono un segno. Segno di speranza, segno di vita, ma anche segno “diagnostico” per capire lo stato di salute di una famiglia, di una società, del mondo intero», ha ricordato mesi fa papa Francesco. Se è così, allarme rosso: le famiglie con almeno un bambino sprofondate nella povertà assoluta, spiega il dossier «La povertà infantile in Italia» della Fondazione, negli ultimi tre anni sono raddoppiate, dal 6,1 al 12,2%, e sono oggi il triplo rispetto al 2007, l’ultimo anno prima della crisi. E così, conferma l’Istat, sono aumentati i bambini e gli adolescenti che versano in condizioni di miseria: erano 723 mila nel 2011, sono quasi un milione e mezzo oggi. Ancora più dura però, per certi aspetti, è la bozza del rapporto finale dell’«Indagine conoscitiva sulla povertà e il disagio minorile» della Commissione parlamentare per l’infanzia, che ha come presidente Michela Vittoria Brambilla e come relatrice Sandra Zampa. Dove si riconosce la capitolazione dello Stato in quella che dovrebbe essere una guerra alla miseria, alla fame, al degrado del nostro capitale più prezioso: i bambini. Dopo avere ricordato il progressivo smottamento della società, compreso il dato che la povertà assoluta è aumentata perfino «tra gli impiegati e i dirigenti» e «anche in vaste aree del Nord», la relazione spiega che «nel 2007 i bambini che non potevano permettersi un pasto proteico una volta ogni due giorni erano il 6,2%, nel 2013 tale numero risultava già più che raddoppiato, raggiungendo la percentuale del 14,4». Un bambino su sette. In un Paese che ancora si fa vanto di appartenere al G8. Certo, la drammaticità di oggi è diversa da quella denunciata dall’inchiesta parlamentare sulla miseria di Stefano Jacini nel 1880 o da quella analoga ripetuta nei primissimi anni 50 del Novecento. Proprio perché ricordiamo quei nostri nonni bambini ai tempi in cui il medico Luigi Alpago Novello scriveva nel 1900 che nelle famiglie di Conegliano la perdita di un figlioletto causava a volte «minor dolore non dirò di un grosso animale bovino ma di una semplice pecora», riscoprire questa Italia povera getta sale su ferite antiche. 34 Che cosa hanno fatto i governi per contenere questa nuova ondata di povertà? Risponde la Commissione parlamentare d’inchiesta: troppo poco. Soprattutto rispetto agli altri: «Con riferimento all’anno 2011, la Francia ha ridotto del 17% la povertà dei minori, la Germania del 17,4%, il Regno Unito del 24,4%, la Svezia del 17,5%» e noi solo del 6,7%. Peggio perfino della Spagna (7,6%) che certo meno in crisi non è. A farla corta: nel 2009 lo Stato stanziava per le politiche sociali, complessivamente, due miliardi e 523 milioni e oggi, come dicevamo, meno di un terzo. Il 7° «rapporto aggiornamento Crc», citato nella relazione, fornisce dettagli in più: il Fondo per le politiche della famiglia, ad esempio, nel 2009 era a 186 milioni e mezzo, oggi meno di 21. Nove volte di meno. Anche l’ultimo «Report Card» dell’Istituto degli Innocenti, dal titolo «Il benessere dei bambini nei Paesi ricchi», ci inchioda: «Nella classifica generale l’Italia occupa il 22º posto, alle spalle di Spagna, Ungheria e Polonia...». Di più, incalza il rapporto parlamentare: nel Mezzogiorno «tende ad affermarsi un modello nutrizionale sempre più simile a quello esistente nei Paesi del Sud del mondo, in cui si abbandona la tradizione alimentare nazionale a favore di un consumo eccessivo del cosiddetto junk food , il cibo ipercalorico a scarso valore nutrizionale, che però vanta un costo basso». Per non dire della povertà educativa, strettamente legata a quella economica: la regione più povera sotto questo profilo, «cioè dove si riscontra la minore presenza di servizi educativi, è la Campania, seguita ex aequo da Puglia e Calabria e poi dalla Sicilia». Nessuno, però, può chiamarsi fuori: «Si osserva che le regioni definite “ricche” di offerta educativa in Italia, vengono qualificate come “povere” nel confronto con altri Paesi europei. Volendo operare un esempio concreto, per la copertura dei nidi, il target europeo è il 33%, mentre in Italia, al di là dell’Emilia Romagna, che risulta la prima Regione, con il 28%, la media nazionale si attesta intorno al 17». Cosa fare? Forse la soluzione giusta, rispondono sia la Commissione e sia la «Zancan», non sono i «bonus bebè». Cioè la distribuzione a pioggia di manciate di soldi: molto meglio, ad esempio, concentrare gli sforzi e spostare 1,5 miliardi dagli assegni familiari su un progetto per raddoppiare i «nidi» così da accogliere 403 mila bambini. Cosa che consentirebbe, tra l’altro, di «creare oltre 40 mila posti di lavoro». Gian Antonio Stella Del 5/12/2014, pag. 38 OCCUPIAMOCI DELLE CASE TITO BOERI FORSE Matteo Salvini ha posato per Oggi credendo di avere indosso i nuovi abiti del sindaco. La sua strategia è ormai chiara: prepara la candidatura scatenando guerre fra disperati. Non ci risulta che quando era capogruppo in Comune o adesso da segretario federale della Lega, abbia fatto alcunché per spingere le maggioranze di cui faceva parte in città e in Regione ad ampliare l’offerta di alloggi popolari e a ristrutturare il patrimonio di edilizia abitativa pubblica. Eppure, fin quando ci sarà una sproporzione così forte fra domanda e offerta di alloggi popolari, il problema rimarrà ingestibile. In Italia ci sono circa 700mila famiglie in attesa di assegnazione a fronte di 45mila alloggi di edilizia residenziale pubblica disponibili ogni anno. Come dire che una famiglia su 15 viene accontentata ogni anno, con liste d’attesa che durano quanto un terzo della vita lavorativa. Più di un quarto degli italiani che dormono per strada o nei centri di assistenza a Milano e Roma hanno fatto domanda per una casa popolare e, nonostante debbano 35 avere priorità, sono mediamente in attesa da 6 anni. Molte case popolari sono degradate, fino a un terzo quelle sfitte. Renderle disponibili ridurrebbe lo squilibrio fra domanda e offerta, ma le agenzie territoriali che le gestiscono (l’Aler a Milano e l’Ater a Roma) non hanno i soldi per ristrutturare gli alloggi sfitti. Hanno fatto investimenti sbagliati e non riescono a riscuotere gli affitti, dopo che la crisi ha fatto lievitare tassi di morosità già elevati in partenza e i canoni sono bassi (in media meno di 100 euro al mese). In questo contesto, le occupazioni abusive sono spesso l’unico modo per avere una casa in tempo utile e chi occupa può sperare di rimanere a lungo nell’alloggio. A Roma, ad esempio, ci sono mediamente 300 sgomberi all’anno su circa 5mila alloggi abusivi, come dire che si può aspirare a rimanere fino a 16 anni in una casa abusiva. Mentre la popolazione degli immigrati aumentava avvicinandosi alla media europea, il nostro Paese ha ridotto lo stock di case popolari. Dapprima ha destinato i fondi della Gescal, edilizia residenziale pubblica, al pagamento delle pensioni. Poi ha proceduto a vendere gli alloggi pubblici, mediamente 20mila alloggi alienati ogni anno per pochi soldi (in media 23mila euro l’uno). Svenduti senza ristrutturarli. Lo Sblocca Italia continua su questa linea, incentivando le dismissioni. Abbiamo, nel frattempo, smesso di costruire nuove case popolari, quando nel Regno Unito e in Francia, in previsione degli effetti della crisi, si facevano massicci investimenti in nuove case popolari. Certo, avevamo vincoli di bilancio stringenti, ma anche quando i fondi erano disponibili, come nel caso dei piani per l’Expo a Milano, si è scelto di ignorare l’edilizia popolare. Il risultato è che l’Expo rischia di aprirsi con le barricate in strada. Vedremo se i piani per l’Olimpiade a Roma che Renzi vuole rilanciare contempleranno interventi a Tor Sapienza. Fatto sta che il nostro Paese ha un patrimonio di edilizia residenziale pubblica fatiscente e in diminuzione mentre lo stock del cosiddetto social housing (che comprende gli alloggi di edilizia popolare o convenzionata forniti in cooperazione con il privato) è, in rapporto alla popolazione, il più basso d’Europa, ad eccezione di Ungheria, Grecia ed Estonia. Paradossalmente le colpe di questo stato di cose sono proprio di chi oggi ne ottiene un tornaconto elettorale. Il deterioramento delle case popolari, l’ampliarsi del divario fra domanda ed offerta, hanno coinciso con la regionalizzazione dell’edilizia residenziale abitativa. Le agenzie regionali non sono all’altezza e men che meno le società municipali (come Metropolitana milanese) che ne rilevano quote pur non avendo la struttura per riscuotere gli affitti e ristrutturare le case. Bisognerebbe revocare funzioni e patrimonio di edilizia residenziale pubblica agli enti locali che hanno dimostrato di non saperli gestire, invocando i “poteri sostitutivi” previsti dall’art. 120 della Costituzione. Gestendo questo patrimonio centralmente, si potrebbe meglio resistere alle pressioni delle lobby locali che hanno impedito che le case andassero ai più bisognosi. Sarà anche possibile beneficiare dei fondi europei per fare gli investimenti nella ristrutturazione delle case sfitte che possono, in tempi brevi, ridurre il divario fra domanda ed offerta. Perché una cosa è certa: se vogliamo continuare a puntare sull’immigrazione per tappare i buchi del nostro stato sociale nell’assistere i minori e gli anziani non autosufficienti, se vogliamo attrarre immigrati più istruiti e che possano integrarsi nel nostro tessuto sociale, non possiamo ignorare il problema di chi una casa non ce l’ha, non ha i mezzi per comprarsela e, almeno in una fase iniziale, non riesce a pagarsi gli affitti nelle aree metropolitane in cui il lavoro è concentrato. Se invece non vogliamo investire in nuove case popolari e avere chi se ne occupa veramente, non rimane che essere espliciti sui criteri di razionamento. La Lega ne propone uno che è già stato in gran parte attuato: escludere gli immigrati dall’accesso alle case popolari. I non italiani sono nettamente sottorappresentati quando si tenga conto del loro livello di reddito. Siamo uno dei paesi Ocse in cui il gap fra immigrati e autoctoni nell’accesso a case popolari o con fitti convenzionati è più forte. Escludendoli dalle nuove assegnazioni ridurrebbe solo marginalmente la lunghezza delle liste d’attesa 36 per gli altri. La criminalità organizzata raziona i beneficiari di occupazioni abusive in base ai servizi che le vengono forniti da chi cerca casa. A Roma un fantomatico Comitato di Lotta per la Casa si faceva pagare dagli occupanti abusivi estorcendo da loro servizi in cambio di protezione. I centri sociali hanno criteri di razionamento basati sulla cooptazione e la militanza. Se si vuole ripristinare la legalità, lo Stato deve proporre un criterio di razionamento e metterlo in atto. Oggi non è così. Sulla carta conta il reddito, ma il 15% di chi alloggia in case popolari è al di sopra della linea della povertà, mentre in Paesi in cui ci sono molte più case popolari, ai non-poveri non va più del 2-3%, una percentuale che probabilmente corrisponde a persone che sono da poco uscite dallo stato di bisogno. del 05/12/14, pag. 8 Stefano Rodotà La parola chiave degli esclusi Roberto Ciccarelli Un'intervista al giurista italiano in occasione dell'uscita del nuovo saggio sulla solidarietà. Un concetto e una pratica da riscoprire nel lungo inverno della crisi. E un possibile strumento per dare forma politica alla critica del neoliberismo La solidarietà è un’utopia necessaria. Stefano Rodotà spiega il titolo del suo nuovo libro (Laterza, pp. 141, 14 euro) con la storia di Sandra, l’operaia interpretata da Marion Cotillard nel film Due giorni e una notte dei fratelli Dardenne. «Nel film c’è la scomparsa della solidarià tra persone che lavorano nella stessa fabbrica e l’impossibilità di riaffermarla — racconta Rodotà — Sandra dice di non volere “fare la mendicante” quando chiede ai suoi compagni di lavoro di rinunciare al bonus di mille euro per impedire il suo licenziamento. C’è un referendum che ha un esito negativo. Sandra però riacquista la sua dignità perché respinge la proposta di essere riassunta a tempo pieno al posto di un giovane collega africano precario con un contratto a termine. La solidarietà verso questo giovane, che ha votato per lei pur sapendo che l’avrebbe danneggiato, restituisce la dignità dell’essere. Sandra scopre che attraverso la lotta può riaffermare la solidarietà. Nel film c’è un compendio di quello che stiamo vivendo». Perché si torna a parlare di solidarietà? La crisi economica ha fatto crescere le diseguaglianze e ha diffuso le povertà. Affidarsi alle forze del mercato è un’opzione debole ben al di sotto della necessità di trovare nuovi principi di riferimento. La solidarietà riemerge nei modi più diversi e supera le distanze esistenti. Ad esempio nel discorso sulle pensioni quando si pone il problema della solidarietà tra le generazioni. Nella salute dove non è possibile limitarsi all’oggi per garantire le condizioni minime di vita. Non è un processo facile. Nelle situazioni di difficoltà le distanze possono crescere insieme all’impossibilità di essere solidali. Si può essere solidali nelle periferie di Roma o Milano tra crisi, sentimenti xenofobi e sgomberi delle case occupate? A me sembra che questi conflitti siano indotti anche da chi vuole sfruttare le tensioni esistenti. Ma c’è un’altra ragione: finché le persone erano in condizione di pagare una casa non ritenevano intollerabile il fatto che ci fosse qualcuno in difficoltà che occupava un alloggio o non pagava l’affitto di una casa popolare. Con la crisi ci si è ritrovati in una situazione conflittuale. Pagare un affitto è intollerabile, mentre altri non lo pagano. Le condizioni materiali della solidarietà sembrano distrutte, mentre registriamo un 37 rovesciamento del principio: si costruiscono solidarietà di prossimità o vicinanza e si diventa solidali con chi rifiuta la solidarietà agli altri, ai più lontani, agli stranieri o ai rom. Qual è la sua definizione di solidarietà? Mi sembra che il commento di Luigi Zoja sulla parabola del buon samaritano sia calzante. Qui Cristo mostra il contenuto rivoluzionario del suo messaggio: bisogna amare lo straniero, non il prossimo. Amare lo straniero è il punto chiave della solidarietà. La solidarietà per vicinanza, per appartenenza, sono facili. La solidarietà dev’essere praticata in tempi difficili che spingono anche a rotture. Se viene abbandonata, vengono meno le condizioni minime della democrazia, cioè il riconoscimento reciproco e la pace sociale. Con Jürgen Habermas dico che la solidarietà è un principio che può eliminare l’odio tra gli stati ricchi e quelli poveri. La solidarietà serve infatti a individuare i fondamenti di un ordine giuridico mancando il quale tutte le nostre difficoltà si esasperano sul terreno personale e su quello sociale. La solidarietà è, infine, una pratica che mette al centro i diritti sociali. Questo è un altro punto del libro: i diritti sociali non possono essere separati dagli altri. Qual è stato il contributo del movimento operaio alla storia della solidarietà? L’Internazionale ha mostrato che la solidarietà non è un sentimento generico di compassione nei confronti dell’altro, né un elemento storicamente indeterminato. La solidarietà dei moderni è una costruzione che ha avuto sempre bisogno di un soggetto storico. Quello per eccellenza è stato il movimento operaio. C’è un canto rivoluzionario che dice: «Sebben che siamo donne, paura non abbiamo, per amor dei nostri figli, in lega ci mettiamo». Qui c’è la consapevolezza orgogliosa della dignità delle donne che diventa principio di azione collettiva. Su questi principi gli esclusi si sono autorganizzati, le loro leghe hanno permesso ai socialisti e ai cristiani di trovare punti di convergenza non compromissoria. Nell’Internazionale si voleva costruire un’umanità che non era la somma di persone, ma la congiunzione di una serie di soggetti che agiscono collettivamente in vista di un interesse comune. Questo ha portato al riconoscimento dell’esistenza libera e dignitosa di cui parla la nostra Costituzione. Lo Stato sociale ha modificato questa idea del movimento operaio. La sua crisi permetterà alla solidarietà di sopravvivere? Ragionare sulla solidarietà come principio significa riconoscerne la storicità. La solidarietà c’era prima dello stato sociale e ci sarà anche dopo. Per questo oggi si può dire che è il principio di riferimento per la ricostruzione del tessuto politico istituzionale e sociale. La solidarietà va ripensata oltre lo stato sociale. Per questo è essenziale fondare un nuovo spazio costituzionale europeo ispirato a questo principio. In che modo si può costruire uno spazio simile? Il riferimento è alla carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, la Carta di Nizza alla cui scrittura ho partecipato. Quella carta nacque nel 1999, in una temperie politica e culturale diversa da quella attuale. Allora si voleva andare oltre lo stato sociale nazionale e si fece una diagnosi più radicale di quella che generalmente si fa oggi sull’Europa. L’Unione europea non ha solo un deficit di democrazia, ma un deficit di legittimità. Questo deficit può essere recuperato attraverso i diritti fondamentali, ispirati alla dignità e alla solidarietà, e non al mercato. Ricordo che i laburisti di Tony Blair fecero molta resistenza e si opposero persino al diritto di sciopero. A tanto era arrivata la loro rottura con la tradizione operaia. So bene che sulla Carta di Nizza ci sono state polemiche. Oggi dovrebbe però far pensare il fatto che è stata messa da parte quando all’Europa è stata imposta un’altra costituzione basata sulle politiche dell’austerità. Esiste un soggetto capace di riportare la solidarietà al centro dell’attenzione? Siamo legati ad una modernità che ha riconosciuto il creatore di diritti in un soggetto sociale: la borghesia fece nascere i diritti civili, gli operai quelli sociali. Poi c’è stata una scomposizione dei soggetti, si è parlato di una classe precaria, di quella degli hacker. Ci 38 sono altre definizioni che dimostrano l’esistenza di condizioni umane che superano il fatto personale e sono fatti politici. Ma da sole non bastano. Per questo la solidarietà è importante. Questa è la dimensione utopica: è la condizione che ci permette di non rassegnarci alla frammentazione sociale e ai meccanismi di esclusione. Il reddito universale può essere considerato uno strumento per affermare la solidarietà a livello europeo? Ne sono convinto. Molti sostengono che entra in contraddizione con l’articolo 1 della nostra costituzione. C’è un’altra obiezione: il riconoscimento del reddito affievolisce la lotta per il lavoro. In queste prospettive vedo un errore. Si considera che la disoccupazione sia sempre una fase transitoria e la piena occupazione resta un obiettivo a portata di mano. Ma questi discorsi oggi sono lontanissimi. Del reddito universale è possibile fornire varie gradazioni: da quello minimo a quello di base. Tutte possono essere usata per liberare i singoli dal ricatto del lavoro precario o non pagato; a condurre un’esistenza libera e dignitosa; a eliminare la competizione tra i poveri. Montesquieu diceva che abbiamo bisogno di istituzioni, non di promesse né di carità. Il reddito universale dimostra che la solidarietà è un’utopia profondamente piantata nella realtà. del 05/12/14, pag. 8 L’attitudine che ricostruisce il legame sociale Roberto Ciccarelli Saggi. Neo-mutualismo, cooperazione, condivisione, dignità e lotta alle diseguaglianze nel nuovo libro sulla solidarietà di Stefano Rodotà Dopo avere registrato l’impossibilità di trovare un interlocutore nella logica di mercato, scrive Stefano Rodotà in Solidarietà, un’utopia necessaria (Laterza, pp.144, euro 14), la solidarietà ha ritrovato una forza autonoma. Si sta sciogliendo il lungo inverno che l’ha ristretta nel terzo settore, nel volontariato, nei legami corporativi. Questo principio ritorna in libri, film e nelle pratiche del lavoro autonomo, in quelle dei dipendenti, del precariato. Si parla di neo-mutualismo, di coalizioni sociali, di lotte per l’uguaglianza e per la dignità delle persone. Non stiamo tornando alle origini, avverte Rodotà. Eppure la durezza della crisi economica induce a confondere la solidarietà con l’assistenzialismo o la pura beneficenza. Ai più deboli viene negata la loro qualità di soggetti di diritto, mentre la loro dipendenza sociale viene istituzionalizzata. Si parla di «poveri», e non di vittime della lotta di classe. La loro situazione viene affrontata con la logica del dono, mentre invece bisogna riscoprire gli strumenti dell’organizzazione politica e dell’emancipazione degli oppressi. Bisogna trovare cioè un’alternativa al «comunitarismo», l’opzione politica dei populisti per i quali la piccola patria dei simili si rafforza contro gli stranieri e i più deboli tra i deboli. La solidarietà va ripensata in un contesto almeno europeo, l’unico possibile per evitare di alimentare la frammentazione sociale generale. L’utopia concreta di Rodotà si nutre di un pensiero cosmopolita, considera l’umanità come parte agente di un disegno politico universale, non il rifugio nelle vecchie sovranità dello Stato nazione. Come sempre in Rodotà, politica e costituzione, pratiche e principi giuridici, legami sociali e parità dei diritti, camminano insieme. Ripercorrendo la storia del movimento operaio, il giurista valorizza la solidarietà degli oppressi che sprigiona una forza dinamica che trascina oltre la logica della fratellanza. A sinistra tale solidarietà è stata considerata uno strumento troppo debole per scalfire l’ordine dominante. Rodotà propone una controargomentazione convincente: senza 39 questo legame non esiste una forza sociale. Questa forza non impone un principio alternativo rispetto alle relazioni commerciali e non afferma valori irriducibili alla mera convenienza economica. La domanda principale di questo libro è sul soggetto protagonista della solidarietà. Per lungo tempo la sua posizione è stata ricoperta dalla classe operaia. La solidarietà permise di superare la sua eterogeneità, la spinse alla cooperazione e ad affermare i diritti sociali. Oggi questo ruolo propulsivo è venuto meno. Rodotà avanza una tesi: ieri, come oggi, la solidarietà è una pratica che riforma i legami, ricompone un soggetto necessariamente più ampio del precedente, produce un’attitudine cooperativa lì dove sembra scomparsa. La solidarietà è «un movimento» che mantiene l’orizzonte aperto oltre le miserie del presente. Questo è un antidoto al realismo dei rapporti di forza che demoliscono la nuda logica del potere. Del 5/12/2014, pag. 28 Un milione di firme contro il libero scambio dagli Ogm ai farmaci le paure degli europei Successo dei comitati per lo stop al Trattato atlantico Ttip Nessun valore legale, ma la Ue dovrà tenerne conto ANDREA BONANNI In due mesi hanno raccolto più di un milione di firme di cittadini europei contrari al trattato di libero scambio con gli Usa e il Canada, il cosiddetto Ttip. Ma la Commissione non riconosce la legittimità dell’iniziativa, e così ora I responsabili di “Stop Ttip”, che unisce 320 organizzazioni di 24 Paesi, hanno presentato un ricorso alla Corte di Giustizia europea per bloccare il negoziato o per ricominciarlo su basi completamente diverse. Da un punto di vista legale, non hanno molte probabilità di riuscirci, perché le leggi di iniziativa europea non si applicano ai trattati o ai negoziati internazionali. Ma un numero così elevato di firme raccolte in così poco tempo pone comunque un problema politico enorme, di fronte al quale né la Commissione né il Parlamento europeo possono restare indifferenti. Il Ttip, acronimo di Transatlantic Trade and Investment Partnership, è il Trattato che dovrebbe far compiere alla globalizzazione uno storico e decisivo passo in avanti unendo Europa, Canada e Stati Uniti in un unico mercato di quasi un miliardo di consumatori. Ma, grazie anche ad una cattiva presentazione da parte della precedente Commissione Barroso, è divenuto rapidamente il capro espiatorio su cui si sono concentrate ogni sorta di critiche e di accuse. Tanto che, in occasione della sua ultima visita a Bruxelles pochi giorni fa, il segretario di stato americano John Kerry ha spiegato che il Trattato è « vittima di un malinteso che dobbiamo risolvere e risolveremo nei prossimi mesi. Questo è un accordo che punta ad elevare gli standard al massimo livello, non ad abbassarli al minimo». Nelle ambizioni dei negoziatori, il Ttip dovrebbe essere qualcosa di molto più ampio di un accordo commerciale. Esso prevede tre campi di intesa tra europei e americani: la liberalizzazione dell’accesso ai mercati, con l’abolizione delle tariffe doganali; la convergenza dei regolamenti, in base al principio che un prodotto autorizzato in Europa può essere venduto negli Usa e viceversa, senza ulteriori trafile burocratiche; la definizione di nuove regole commerciali per abolire le barriere non doganali e garantire, per esempio, la tutela dei marchi di origine anche al di là dell’Atlantico. Secondo la Commissione, che ha appena ricevuto dai governi il mandato per aprire un nuovo round di negoziati e concluderli possibilmente entro il 2015, prima delle elezioni 40 presidenziali americane, i benefici di un accordo sarebbero enormi: 119 miliardi all’anno per l’Unione europea e 95 miliardi per gli Stati Uniti. Le esportazioni dall’Ue verso gli Stati Uniti crescerebbero del 28 per cento, con un aumento di 187 miliardi di euro. In totale le esportazioni europee aumenterebbero del 6 per cento e quelle americane dell’8 per cento. Ma è evidente che un accordo di questo genere, basato sul principio del riconoscimento reciproco delle autorizzazioni commerciali, comporta una rivoluzione nel mondo dei consumi. I nemici del Trattato sostengono che gli europei saranno invasi da carne agli ormoni, o trattata con antibiotici, di polli sterilizzati con la varechina, di grano e verdure prodotti da colture geneticamente modificate. E che in generale l’Europa subirà la concorrenza sleale dell’industria agroalimentare americana che si avvantaggia di una legislazione meno severa di quella europea. I difensori dell’accordo sostengono che gli europei saranno liberi di scegliere grazie ad un dettagliato sistema di etichettatura, e ribattono dicendo che la produzione europea, di qualità mediamente superiore, sarà finalmente tutelata su un mercato americano che si sta ormai orientando verso prodotti più sani e più raffinati. Naturalmente l’ago della bilancia penderà da una parte o dall’altra in base alle conclusioni concrete a cui arriveranno i negoziatori. Alcuni settori, per esempio, come l’audiovisivo, sono già stati esclusi dal tavolo delle trattative proprio per tutelare le normative poste a salvaguardia della specificità culturale europea. In altri campi, fa molto discutere la cosiddetta clausola Isds, che consentirebbe alle multinazionali americane di ricorrere ad arbitrati internazionali per aggirare specifiche normative europee. Ma quello che conta, sottolinenano i difensori del Trattato, è che solo mettendosi insieme America ed Europa potranno fare fronte alla concorrenza delle nuove economie emergenti, imponendo a Cina, India o Brasile di adeguarsi ai loro standard qualitativi. 41 BENI COMUNI/AMBIENTE Del 5/12/2014, pag. 4 Il grande business del «cartello» dei rifiuti Mondo di mezzo. Gian Mario Baruchello è indagato per corruzione aggravata e turbativa d'asta. Quello dell'immondizia è l'altro filone dell'inchiesta romana. Sulla gestione un presunto monopolio Marco Omizzolo, Roberto Lessio Ha un curriculum lungo 30 pagine Gian Mario Baruchello, professore di Ingegneria Ambientale e Sanitaria all’Università Roma Tre e indagato nell’inchiesta Mondo di Mezzo dalla Procura di Roma sulla Mafia capitolina. Le accuse nei suoi confronti sono di corruzione aggravata, turbativa d’asta e illecito finanziamento. In realtà dietro al suo nome si cela il grande «cartello» della lobby dell’immondizia nostrana e dei suoi compromessi con la politica, i traffici illeciti e la criminalità organizzata. In sostanza quello che la Commissione Parlamentare d’inchiesta sul traffico dei rifiuti individuò già alla fine del secolo scorso come «un oligopolio tendente al monopolio» e rimasto nel frattempo invisibile per l’Antitrust. Da quasi trenta anni Baruchello progetta impianti di smaltimento dei rifiuti in giro per l’Italia; soprattutto al centro-sud ma anche con qualche puntatina in Veneto e in Piemonte. Gli incarichi gli sono stati affidati, dietro lauto compenso, soprattutto da amministrazioni pubbliche, ma i suoi referenti finali sono l’avvocato Manlio Cerroni e la famiglia napoletano-milanese dei Colucci (proprietari dei gruppi Daneco e Aspica) dei quali è il tecnico di fiducia. Il suo ruolo «double-face» si può riscontrare proprio dalle attività della stessa Commissione Parlamentare d’inchiesta. In una relazione del marzo 2000 (Presidente Massimo Scalia) che descriveva l’intenso intreccio societario esistente all’epoca tra società che si occupavano di rifiuti, Gian Mario Baruchello appariva come uno dei personaggi chiave nei CdA delle varie «scatole cinesi» che da sempre caratterizzano il settore. Appena sette anni dopo lo stesso professore è divenuto consulente proprio di quella Commissione; ovviamente pagato con soldi pubblici. Con i suoi progetti Cerroni e i Colucci hanno realizzato proprio intorno alla Capitale un monopolio impiantistico grazie al fattivo appoggio delle amministrazioni locali. Basti pensare al Consorzio Conea (soci Cerroni, Ama e Acea) che dovrebbe realizzare un inceneritore a Cecchina, nel Comune di Albano Laziale, dove ci sono gli impianti appartenenti all’ottavo Re di Roma. A tale «cartello» infatti appartengono anche le discariche e gli impianti di selezione di Malagrotta (con relativo gassificatore), di Guidonia-Montecelio, di Borgo Montello — Latina (gestione Ecoambiente) e di Viterbo (che serve anche la Provincia di Rieti). Un cartello che vede male la chiusura di tali impianti attraverso la raccolta differenziata, che sarebbe dovuta arrivare al 65% in tutta Italia entro il 31 dicembre 2012. La maxi multa da 42,8 milioni di euro inferta dalla Corte di Giustizia Europea al nostro paese nei giorni scorsi era stata preceduta il 15 ottobre da analoga sentenza che riguardava proprio queste discariche laziali dove non è mai mancata la firma progettuale del Prof. Ing. Gian Mario Baruchello. In tal senso il «capolavoro» è stato realizzato a Latina con il decisivo contributo iniziale del defunto Sindaco «repubblichino» Ajmone Finestra e con il perfezionamento attuato dal suo successore Vincenzo Zaccheo, il cui fratello troverà posto nei Collegi Sindacali di alcune società dei Colucci. Era il 1996 quando l’ingegnere fu nominato membro della Commissione che doveva valutare le offerte per la costituzione della Latina Ambiente SpA (51% delle azioni in mano al Comune e 49% ai privati); società della quale fu nominato poi Consigliere di Amministrazione anni dopo. L’odore di un accordo di cartello era presente già in quell’occasione. Le offerte ammesse 42 alla fase finale della gara, oltre a quella della Manutencoop (Legacoop) eliminata per un vizio di forma, furono quelle della Slia di Manlio Cerroni e della Colucci Appalti; quest’ultima all’epoca non disponeva del certificato antimafia perché i suoi amministratori erano sotto indagine a Napoli (vicenda poi finita nel nulla). Per quanto assurdo possa sembrare la legge prevedeva l’obbligo di tale certificato solo in caso di vittoria della relativa offerta. E così fu. Come primo atto il Consiglio di Amministrazione, dove i privati sono in maggioranza, indebitò pesantemente la società. Passò appena un anno quando le Guardie Provinciali riscontrarono che dai vecchi siti dismessi della discarica di Borgo Montello (S zero, S1, S2 e S3) c’era uno sversamento di percolato nell’adiacente fiume Astura. Dai controlli risultò che la società proprietaria dei siti era fallita e che mancava la fidejussione bancaria garante della gestione «post mortem» degli impianti. Invece di perseguire i responsabili, l’amministrazione comunale passò da una «bonifica urgente» alla realizzazione di una nuova discarica realizzata sopra a quella precedente. L’inquinamento non cessò mai. A firmare il progetto e a dirigere i relativi lavori fu Gian Mario Baruchello. Nacque così la gestione Ecoambiente Srl, controllata al 51% dalla Latina Ambiente (e quindi dal Comune) e per il 49% da Cerroni e dai Colucci, nel cui CdA (anno 2000), siederà anche l’Ing. Achille Cester. Quest’ultimo ex uomo di fiducia dell’altro «re» delle discariche italiane: il defunto Giuseppe Grossi titolare della Green Holding i cui familiari sono stati arrestati nei giorni scorsi per un’altra inchiesta svolta dalla Procura di Latina relativa a truffe realizzate a danno dei Comuni locali. E intanto il business del «cartello» continua come se nulla fosse. 43 CULTURA E SCUOLA del 05/12/14, pag. 49 Persi 5 milioni di libri in un anno ma i ragazzini salvano il mercato L a crisi del settore c’era. E c’è ancora. Anche quest’anno infatti un segno meno generalizzato caratterizza l’intero mercato del libro, non solo quello prodotto dalla piccola e media editoria i cui marchi principali, circa quattrocento, sono riuniti da ieri e fino all’8 dicembre nel Palazzo dei Congressi dell’Eur, a Roma, per la tredicesima edizione della fiera «Più libri più liberi». Si comprano dunque sempre meno volumi: in calo sia le vendite per numero di copie, che «a valore» (il fatturato in base al prezzo di copertina), come risulta chiaramente dall’annuale indagine che la società Nielsen conduce basandosi sul cosiddetto «scontrinato» (dati dunque relativi a numeri e soldi) e presentata ieri pomeriggio nel corso della kermesse romana. I piccoli e medi editori (lo studio considera tali quelli che hanno un venduto nei canali trade libri per un valore non superiore ai dieci milioni di euro) non vanno in sostanza né meglio né peggio dei grandi. Ma tutti vanno male. Considerando infatti l’intero mercato — grandi e piccoli insieme, tutti i canali di vendita compresa la grande distribuzione — nei primi dieci mesi di quest’anno (da gennaio a ottobre) la perdita segna un meno 4,6 per cento di fatturato (pari a circa 43 milioni di euro) e un meno 7,1 di copie di volumi di carta venduti, che equivale a cinque milioni e mezzo di libri in meno rispetto al 2013. Numeri che vanno a sommarsi a quelli di un crisi già forte negli anni precedenti: considerando i dati del biennio 2012-2014 il fatturato è infatti passato da un miliardo di euro circa (1,012,614) ai 904 milioni odierni, e le copie vendute da 79 milioni circa a 72 milioni. In controtendenza, sia pure in questo generale clima di perdita, il dato ristretto al campione degli espositori presenti con uno stand a «Più libri più liberi» (fino all’anno scorso l’indagine Nielsen era condotta solo sulle piccole case editrici presenti in fiera, da quest’anno la ricerca si è invece allargata a tutti i 5.663 marchi con venduto inferiore ai 10 milioni di euro annui). Esclusa la grande distribuzione, i marchi presenti in questi giorni a Roma crescono infatti, rispetto al 2013, di un 1,1 per cento nella vendita di copie e di un 2,2 quanto a fatturato (tutti i piccoli insieme invece, i presenti e non all’Eur, registrano un calo del 3,4 per cento per copie vendute e del 2,5 per cento per fatturato). «Anche nelle difficoltà — ha commentato ieri Marco Polillo, presidente dell’Associazione Italiana Editori (Aie) — esiste una punta di diamante innovativa e attenta in grado di segnare il mercato nel suo complesso. Sia il nostro Rapporto sulla piccola e media editoria, sia l’indagine Nielsen indicano infatti, al di là dei segni meno generalizzati, che esiste un dieci per cento circa di piccoli e medi editori che non solo crescono, ma crescono quel tanto da smorzare i segni meno complessivi. E quel dieci per cento di editori sta qui». Nella tendenza generale del mercato (negativa) — tutto il mercato, grandi e piccoli insieme — sono comunque interessanti alcuni dati emersi dall’indagine e che concernono i diversi generi più o meno venduti: cresce ancora, ad esempio, il peso dei volumi per bambini e ragazzi, al punto che le copie raggiungono il 20,5 per cento del totale e si avvicinano sempre di più al segmento della fiction straniera, il genere più venduto in assoluto e che pesa per il 26,1 per cento (in calo però rispetto agli ultimi anni). Il mondo salvato dai ragazzini, si potrebbe azzardare giocando con un celebre titolo di Elsa Morante: un libro 44 su cinque tra quelli che si vendono in Italia è pensato per loro. E il genere infanzia si piazza al secondo posto anche nel mercato specifico dei piccoli editori: per loro un quarto delle copie vendute riguarda la non fiction pratica (manualistica, cucina, salute, tempo libero, guide), ma a seguire sono i libri per bimbi: 18,3 per cento. Terza posizione per la non fiction specialistica, leggermente al di sotto, con il 17,9 per cento. All’ultimo posto (11,3 per cento del campione) romanzi e racconti italiani. Edoardo Sassi Del 5/12/2014, pag. 5 Università, Renzi incentiva l’esodo dei ricercatori precari Legge di stabilità. La denuncia di Flc-Cgil e dei dottorandi dell'Adi: nella manovra c'è un codicillo che moltiplicherà di contratti precari nell'università Nella legge di stabilità c’è un codicillo (il 29 dell’articolo 28) che moltiplicherà di contratti precari nell’università. Nella bozza che si sta discutendo in parlamento, il governo intende eliminare il vincolo di attivazione di un ricercatore a tempo determinato «di tipo B» (l’unico con prospettiva di stabilizzazione) a fronte dell’assunzione di un nuovo ordinario. Se il comma verrà approvato, ogni volta che si bandirà un posto da ordinario, per essere in regola basterà assumere un ricercatore «di Tipo A», cioè a scadenza breve. Questa misura velocizzerà l’esodo dei giovani ricercatori italiani dall’università. Secondo alcuni dati ricavati dall’indagine in corso «Ricercarsi», infatti, negli ultimi 10 anni su 100 ricercatori l’università italiana ne ha espulsi più di 93, mentre gli assunti sono stati solo il 6,7%. Non solo: nel 2014 l’università italiana è «dimagrita» di 2183 docenti e ricercatori. A fronte di 2324 pensionamenti sono stati attivati solo 141 ricercatori «di tipo B». Nel frattempo sono aumentati i precari, le figure che permettono alle facoltà di sopravvivere. Gli assegni di ricerca attivati annualmente sono passati da circa 6 mila nel 2004 a oltre 14 mila nel 2014. Quest’anno la legge Gelmini provvederà a tagliarli: quelli attivati nel 2011 hanno infatti un limite massimo di 4 anni. Tra poco niente altri ricercatori diventeranno disoccupati. Stessa sorte toccherà nel 2015 per i contratti da ricercatori a tempo determinato di «tipo A». Anche loro sono in scadenza secondo i parametri della legge 240 del 2010. In una lettera inviata alla Commissione Istruzione del Senato l’associazione Dottorandi Adi ha chiesto il ritiro della norma e dei tagli ai fondi per gli atenei (34 milioni nel 2014): «La ricerca non può essere ostaggio della mentalità da sensale». Per Mimmo Pantaleo, segretario Flc-Cgil, è indispensabile superare i limiti temporali imposti ai ricercatori, ripensare il sistema di reclutamento. eliminare il contratto di assegno di ricerca, senza diritti né tutele e la divisione in ricercatori di «tipo A» e «B», oltre a misure immediate di rifinanziamento dell’università. 45
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