RASSEGNA STAMPA

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giovedì 4 novembre 2014
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del 04/12/14, pag. 15
Una scelta contro i migranti
Filippo Miraglia
Con il processo di Khartoum l'Europa finirà col favorire i trafficanti di
uomini e le aziende della guerra. Meglio sarebbe adottare politiche
comunitarie di ingresso per chi fugge delle dittature
Si è tenuta nei giorni scorsi a Roma la conferenza ministeriale Eu-Horn of Africa Migration
Route Initiative, meglio conosciuta come Processo di Khartoum, dal nome della capitale
del paese in cui è stata organizzata la prima riunione di questo percorso che ha come
obiettivo la «gestione delle rotte migratorie in provenienza del corno d’Africa». La
conferenza è stata presieduta dal ministro degli Esteri Gentiloni e dal ministro dell’Interno
Alfano e si è svolta sotto la presidenza italiana dell’Ue. Il governo ha spiegato che si
vogliono promuovere progetti concreti per una più efficace gestione dei flussi migratori nei
paesi del Corno d’Africa e nei maggiori paesi mediterranei di transito (Libia, Egitto e
Tunisia). Al processo, oltre ai 28 stati membri Ue, partecipano Libia, Egitto, Sudan, Sud
Sudan, Etiopia, Eritrea, Gibuti, Somalia, Kenya, Tunisia, paesi nei quali in molti casi i diritti
umani non sono tutelati o, come in Eritrea e Sudan, sono retti da sanguinose dittature.
L’Italia ha sostenuto che «la gestione dei flussi in provenienza dal Nord Africa non può
avvenire unicamente con operazioni umanitarie, come Mare Nostrum, o di controllo delle
frontiere, come l’operazione Triton, gestita dall’agenzia europea Frontex». Il Processo di
Khartoum deve concentrarsi, secondo il nostro governo, su un tema di grande urgenza: la
lotta al traffico di migranti (‘smuggling’) e alla tratta (‘trafficking’). Successivamente potrà
coinvolgere anche altri temi, in coerenza con le priorità dell’Ue (migrazione regolare,
migrazione irregolare, migrazione e sviluppo e protezione internazionale).
Anche in questo caso viene proposta la politica dei due tempi, laddove la certezza di
impiego di risorse e di strumenti riguarda solo la parte di controllo e blocco dei flussi,
mentre sulla parte di accesso regolare permane una totale incertezza su tempi e modi. Il
primo passo sembra essere quello di coinvolgere, attraverso progetti di cooperazione da
finanziare con fondi Ue, l’Organizzazione internazionale per la Migrazione (Oim) e l’Unhcr
con l’obiettivo di creare e gestire campi per migranti nei paesi di partenza e di transito.
Accanto a questo, che non è una novità (il campo di Chucha nel sud della Tunisia è stato
aperto a lungo proprio con gli stessi obiettivi, e non è l’unico), si pensa a una campagna di
informazione, già promossa in passato con evidente insuccesso, per dissuadere le
persone a partire, informandole dei rischi che corrono. E poi progetti per finanziare la
formazione delle guardie di frontiera.
In concreto l’obiettivo dell’Ue, con in prima fila il governo italiano, è provare a trasferire nel
nord Africa, se non direttamente nei paesi di partenza, le nostre frontiere, bloccando alla
partenza sia i migranti «economici» che i richiedenti asilo, cioè coloro che fuggono da
guerre e persecuzioni. Per raggiungere questo obiettivo (che farà contenti il nostro Salvini,
la signora Le Pen e tutti i razzisti fuori e dentro le istituzioni), l’Ue è pronta a discutere
anche con il dittatore eritreo Isaias Afewerki, che dal 1993 governa il paese dal quale
arriva uno dei gruppi più numerosi di persone in cerca di protezione, proprio a causa della
mancanza di qualsiasi parvenza di democrazia e di rispetto dei diritti umani. È utile
ricordare fra l’altro che c’è una commissione d’inchiesta Onu sui crimini commessi in
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Eritrea. Ma non molto migliori di quelle dell’Eritrea sono le condizioni della democrazia in
Somalia e Sudan, da cui c’è un esodo costante di migliaia di profughi.
L’idea di esternalizzare le frontiere è già stata promossa in passato da altri governi
democratici. Il primo a farlo ufficialmente fu Tony Blair, ed è un’operazione che rischia di
ottenere grande consenso perché, mistificando l’obiettivo con la lotta al traffico di esseri
umani, in realtà rilancia le ragioni del razzismo istituzionale, oltre a rappresentare un
grande business per le aziende che producono armi e sistemi di controllo. Ricordiamo che
solo un anno fa l’allora governo Letta siglò un accordo col già traballante governo libico
per l’installazione di un moderno sistema di monitoraggio radar della frontiera sud di quel
paese per una spesa di 300 milioni di euro andati a Finmeccanica.
Questo Processo punta quindi a fermare, lontano dagli occhi dell’opinione pubblica e
usando strumentalmente anche argomenti apparentemente a favore dei profughi («se non
partono non rischiano la vita»), quel flusso di uomini, donne e bambini che ottengono
sempre una forma di protezione dallo stato italiano considerati i paesi da cui provengono.
Nel 2013 l’Eritrea è stato il decimo paese di provenienza dei rifugiati di competenza Unhcr
a livello globale e nella prima metà del 2014, l’Eritrea, insieme a Iraq e Afghanistan, è
stato il secondo paese di provenienza di tutte le richieste d’asilo presentate. Le percentuali
di riconoscimento tra le persone provenienti da Siria, Eritrea, Iraq, Somalia e Afghanistan
variano tra il 62 e il 95 per cento.
Fermare i profughi attraverso l’istituzione di campi nei paesi di transito (per esempio in
Libia) vuol dire chiudere gli occhi di fronte alle gravissime, e ampiamente denunciate,
violazioni dei diritti umani che lì si compiono. In Libia, peraltro, è in atto una guerra civile e
la gestione dei migranti è controllata dalle milizie armate che usano gli stranieri,
detenendoli, come fonte di introito economico, oltre alla pratica diffusa dei rapimenti alle
frontiere sud, a Kufra e Sebha.
Come Arci, insieme a tanti altri, continuiamo a sostenere che, per evitare altre migliaia di
morti e scomparsi in mare, è necessario aprire subito canali di ingresso legali e tra questi,
data l’attuale situazione di crisi intorno al Mediterraneo, canali di ingresso umanitari. Il che
è evidentemente cosa assai diversa dall’attribuire a paesi inaffidabili o con regimi
dittatoriali la responsabilità di accogliere e farsi carico delle domande d’asilo.
L’Ue e l’Italia devono abbandonare le politiche proibizioniste, che rendono possibile
l’accesso solo attraverso canali illegali, anche dei richiedenti asilo, promuovendo invece
una riforma della legislazione che ne cambi completamente il segno per consentire ai
migranti di non doversi più mettere nelle mani dei trafficanti e della criminalità.
Rendere comunitarie le politiche di ingresso, rendendo possibile la circolazione delle
persone che arrivano in Europa per ricerca di lavoro o per chiedere protezione, vuol dire
combattere concretamente coloro che fanno affari o speculano a fini elettorali sul
proibizionismo dei governi. Il Processo di Khartoum è una scelta che va nella direzione
opposta e che può favorire nei fatti, oltre agli affari delle aziende della guerra, oltre al
razzismo politico e istituzionale, anche il business dei viaggi della speranza, che spesso si
trasformano in viaggi della morte.
* Vicepresidente nazionale Arci
del 04/12/14, pag. 2
Mafia capitale dell’emergenza
Eleonora Martini
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Roma. Il «pericolo» rom, l'allarme immigrati e gli sbarchi di minori non
accompagnati dal Nord Africa. Occasioni ben colte dal sistema di
corruzione politico-criminale ricostruito nell'inchiesta «Mondo di
mezzo».Dai «campi nomadi» ai centri di accoglienza: il giro d'affari dei
solidalizi «mafiosi» indagati dalla procura di Pignatone. E gli enti che si
sono arricchiti
«Lo sai quanto ci guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende meno», dice
Salvatore Buzzi, presidente della Cooperativa 29 giugno (aderente alla LegaCoop),
durante una telefonata intercettata dai Ros nell’ambito dell’inchiesta sulla «mafia capitale».
Poi, in un’altra conversazione: «Tutti i soldi utili li abbiamo fatti sui zingari, sull’emergenza
alloggiativa e sugli immigrati». Nell’ordinanza di arresto firmata dal Gip Flavia Costantini si
riportano i contatti dei sodali di Buzzi con Emanuela Salvatori, responsabile rom e sinti del
V Dipartimento del Campidoglio.
Gli investigatori in più parti riferiscono «la capacità» dei sodalizi indagati «di interferire
nelle decisioni dell’Assemblea Capitolina in occasione della programmazione del bilancio
pluriennale 2012/2014 e relativo bilancio di assestamento di Roma Capitale, avvalendosi
degli stretti rapporti stabiliti con funzionari collusi dell’amministrazione locale, al fine di
ottenere l’assegnazione di fondi pubblici per rifinanziare “i campi nomadi”, la pulizia delle
“aree verdi” e dei “Minori per l’emergenza Nord Africa”, tutti settori in cui operano le
società cooperative di Salvatore Buzzi».
E in effetti è sulle «emergenze», lo sappiamo — in questo caso rom, rifugiati e minori non
accompagnati, altre volte sono state le calamità naturali — che si costruisce la fortuna
della criminalità organizzata. Non a caso il 21 maggio 2008, l’allora premier Silvio
Berlusconi firmò il decreto per dichiarare lo «stato di emergenza in relazione agli
insediamenti di comunità nomadi» che venne poi prorogato fino a tutto il 2011. Ed è la
Capitale il laboratorio per la realizzazione del “sistema campi”, più volte stigmatizzato dalle
istituzioni europee.
Fu «proprio nel triennio 2009–2011 che la giunta Alemanno — racconta Carlo Stasolla,
presidente dell’Associazione 21 luglio — spese, per la gestione degli 11 insediamenti
istituzionali nei quali vivono circa 5.000 degli 8.000 rom presenti a Roma e per le 54 azioni
di sgombero forzato che hanno coinvolto circa 1.200 rom, oltre 34 milioni di euro l’anno».
Un conto presto fatto se si aggiunge alla gestione corrente del “sistema campi”, che costa
al Campidoglio circa 24 milioni l’anno, i 32 milioni reperiti dal Viminale per accompagnare il
triennio dell’emergenza, durante il quale tutto era permesso, e i soldi venivano erogati ad
affidamento diretto, senza bandi di concorso. «In realtà è prassi anche della gestione
corrente dei campi», continua Stasolla.
Prendiamo per esempio il “villaggio della solidarietà” di Castel Romano, il più grande di
Roma, quello che tra il 2010 venne ampliato per accogliere le famiglie rom sgomberate dai
“campi tollerati” di La Martora e Tor de’ Cenci. E per il quale, secondo l’ordinanza di
arresto, Buzzi avrebbe chiamato il Comune per chiedere «l’allargamento
dell’allargamento». Secondo il dossier redatto dalla “21 luglio”, per ospitare 989 abitanti
sono stati spesi nel 2013 (cifra simile anche negli anni precedenti) 5.354.788 euro, di cui il
70,7% per la gestione, il 17,1% per la sicurezza, il 12% per la scolarizzazione e zero per
l’inclusione sociale. Il 93,5% dei fondi sono stati erogati in affidamento diretto ai 16
soggetti operanti. Ma è Eriches (l’Ati della cooperativa di Buzzi, la 29 giugno) che si
aggiudica la maggior parte del malloppo: il 36,1% dei fondi.
Complessivamente, per segregare 4391 rom negli 8 villaggi attrezzati, si sono spesi 16,4
milioni di euro l’anno; per concentrare 680 persone nei 3 «centri di raccolta rom», i romani
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hanno pagato altri 6,2 milioni circa; e per allontanare 1231 persone nei 54 sgomberi forzati
del 2013 se ne sono andati altri 1,5 milioni.
L’altro grande affare è quello dei rifugiati e richiedenti asilo, per ciascuno dei quali gli enti
gestori che vincono i bandi emessi dal Viminale attingendo ai fondi Sprar (il Sistema di
protezione per richiedenti asilo) percepiscono 35 euro al giorno. Secondo l’inchiesta di
Pignatone, Luca Odevaine, il capo gabinetto di Veltroni, si sarebbe adoperato (ma questo
non è un crimine) per orientare i flussi di smistamento sul territorio italiano dei rifugiati
facendo levitare da 250 a 2500 i posti assegnati a Roma.
Ma è sui minori non accompagnati che il «Mondo di mezzo», secondo gli inquirenti,
concentra maggiormente le attenzioni. Ovvio, perché per ogni ragazzo straniero il budget
erogato sale a circa 50 euro al giorno. Durante l’«emergenza Nord Africa» del 2011, a
Roma arrivarono circa duemila minori, anche se «a volte, quando arrivavano nei centri, ci
accorgevamo che in realtà erano adulti e dovevamo rifiutarli», racconta Gabriella Errico,
presidente della cooperativa Un sorriso che gestisce il centro di Tor Sapienza balzato agli
onori delle cronache. L’assegnazione della gestione delle strutture, in quel periodo, veniva
fatta «solo ed esclusivamente dal Comune» senza bandi.
«Re incontrastato dell’assegnazione dei progetti per l’accoglienza rifugiati e minori è il
consorzio Ericles che fa capo alla Coop. 29 giugno — racconta Claudio Graziano,
responsabile rifugiati dell’Arci — seguita dalla Domus caritaris, del Vicariato e da Axilium e
Arciconfraternita, eredi della vecchia La Cascina, di Comunione e liberazione». Tutti gli
altri enti gestori arrivano largamente dopo. «Anche se — aggiunge Graziano — districarsi
nel ginepraio di enti che gestiscono i centri per minori è difficilissimo perché cambiano
continuamente nome».
Non solo: tra centri affidati dagli enti locali con i fondi Sprar e quelli aperti dalla prefettura
nei periodi di “emergenza” «nessuno sa bene quante siano le risorse e come vengono
distribuite». «In tanti anni che lo chiediamo — conclude Graziano — non siamo mai riusciti
ad ottenere un tavolo di coordinamento di questi servizi di accoglienza».
del 04/12/14, pag. 7
Da Nord a Sud l’ombra del malaffare
sull’immigrazione
Nello Scavo
L'inchiesta romana sulle infiltrazioni politco-mafìose nella gestione dell'accoglienza degli
immigrati promette di scoperchiare il business miliardario dei centri per immi- Nonostante
appalti al massimo ribasso, la corsa alla gestione dei centri di accoglienza per immigrati
non perde concorrenti. Perché i controlli sono pochi e con un po' di astuzia si possono
moltìplicare gli utili. A Bologna, Modera e Trapani, negli ultimi dodici mesi i Cie sono stati
chiusi dopo che si era scoperto che la cooperativa incaricata di governare i centri
d'accoglienza, non solo pagava a singhiozzo i dipendenti, ma forniva agli ospiti un servizio
ben al di sotto di quanto previsto dai contratti. «La cosiddetta emergenza Nord Africa - è
la. denuncia di Filippo Miraglia, vicepresidente nazionale Arci - ha per esempio consentito,
con il ricorso ad affidamenti diretti al di fuori del sistema ordinario dei bandi pubblici,
l'ingresso nel settore dell'accoglienza rifugiati di tanti soggetti che mai se ne erano
occupati e che non avevano nessuna competenza specifica». Da Lampedusa un anno fa
fecero il giro del mondo le immagini con i migranti nudi nel cortile del centro di prima
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accoglienza,"disinfestati" dalla scabbia con una pompa, hanno fatto il giro del mondo e
obbligato il governo ad intervenire, rescindendo il contratto con la cooperativa che gestiva
la struttura. A Bologna e Modena i centri di identificazione erano affidati alle Misericordie.
A trapani se ne occupava il consorzio Connectìng People, che gestiva anche altre
strutture, come quella di Gradisca d'Isonzo. Un caso che ha suscitato interrogazioni
parlamentari trasversali. Rita Bernardini (Pd) ricordava come alcuni dei nomi ai vertici
dell'Oasi, fossero a capo di "Alma Mater", associazione «che gestiva il Centro di
accoglienza per richiedenti asilo di Cassibile (Siracusa)», poi chiuso dal Viminale. Nel
2008 la cooperativa nera finita sotto inchiesta per truffa ai danni dello Stato - scrive
Bernardini -, per una serie di fatture gonfiate per l'acquisto di arredamenti, lavori di
ristrutturazione e servizi di lavanderia ». L'indagine venne poi archiviata, ma a Cassibile
'Alma Mater" non potè più metterci piede. Una vicenda sui cui, dopo le inchieste di
Avvenire, stanno indagando almeno tre procure. Fino ad ora si è scoperto che perfino
l'abbigliamento da fornire agli immigrati veniva riciclato dai gestori, quando il capitolato
d'appalto prevedeva la consegna di vestiti nuovi ad ogni nuovo arrivato. Il ministro
dell'interno Angelino Alfano aveva annunciato la costituzione di una task force che
avrebbe vigilato sugli appalti, ma il lavoro per gli ispettori non è facile. È' il caso del Cara di
Mineo, il centro per richiedenti asilo che può arrivare ad ospitare oltre quattromila persone.
I fondi governativi vengono poi gestiti dagli enti locali, attraverso consorzi, su cui il
ministero dell'Interno non ha un controllo diretto. L'istituzione della commissione
d'inchiesta è stata approvata a metà novembre dalla Camera dei deputati con una
maggioranza larghissima: 348 voti favorevoli contro 59 contrari. I parlamentari dovranno
indagare sul sistema di accoglienza e di identificazione nonché sulle condizioni di
trattenimento dei migranti nei centri destinati all'accoglienza e al trattenimento di immigrati,
vale a dire i Centri di identificazione ed espulsione (Cie), i Centri di accoglienza (Cda) ed i
Centri di accoglienza per richiedenti asilo (Cara). Tra gli obiettivi dell'inchiestala verifica
delle procedure per l'affidamento della gestione dei centri.
Da Radio Popolare del 03/12/14
Intervista ad Alessandro Cobianchi sulle infiltrazioni mafiose nella gestione di migranti e
rifugiati e sul traffico di esseri umani
Da Corriere.it del 04/12/14
Fiaccolata contro il razzismo
«Roma deve essere accogliente»
Promossa dalle associazioni come Acli, Arci, Centro Astalli e Comunità
Sant’Egidio e dai sindacati Cgil, Cisl e Uil. Sarà presente l’assessore
Cutini. Sul tema mercoledì è intervenuto l’Unchcr: «Accoglienza è
dovere non merce per affari»
di MANUELA PELATI
ROMA - «Questa è la risposta più bella che Roma può dare agli episodi di violenza e
razzismo» ha dichiarato l’assessore al sostegno sociale Cutini che sarà in piazza per la
fiaccolata dal Colosseo al Campidoglio, organizzata dalle associazioni per condannare
ogni tipo di violenza e intolleranza. L’iniziativa che è dedicata all’accoglienza e in
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particolare a quella «ai rifugiati, richiedenti asilo, fra i quali molte donne e bambini» è stata
organizzata «Per praticare la via del dialogo, avviare concretamente un processo di
recupero e riqualificazione delle periferie romane». I promotori oltre all’Arci sono Acli,
Centro Astalli, Cnca, Comunità Sant’Egidio, Forum Terzo Settore, Libera , Fondazione
Internazionale Don Luigi di Liegro, Social Pride e dai sindacati Cgil, Cisl e Uil. «Non è
ammissibile che le diverse comunità di immigrati, in fuga dalle persecuzioni e dalle guerre,
non trovino nell’Europa e nello Stato italiano la garanzia prevista dai trattati e dalle
normative internazionali».
L’Unhcr: «Accoglienza un dovere, non merce per affari»
All’appuntamento del 4 dicembre alle 18 sulla scalinata del Campidoglio hanno aderito
anche gruppi politici e Legambiente. «Ci saremo per far vedere che c’è a Roma una
cittadinanza civile e solidale che lotta ogni giorno per costruire un ambiente migliore e che
rifiuta tutte le mafie» ha dichiarato Legambiente. Ma ad intervenire nel dibattito è anche
Unhcr per il sud Europa: «L’accoglienza è un dovere ineludibile per una società civile, non
merce per affari criminali a danno dei rifugiati» dichiara il delegato Laurens Jolles
riferendosi alla cupola affaristica che a Roma aveva il suo principale business nei centri di
accoglienza per stranieri. Aderisce anche l’assessore alle politiche sociali, sanitarie e pari
opportunità del Municipio Roma XV Michela Ottavi: «Roma è una città aperta, solidale e
inclusiva».
«Impediamo tensioni in città»
Dal capogruppo di Sinistra e Libertà in Campidoglio, Gianluca Peciola mercoledì è giunto
l’annuncio di un sopralluogo al campo nomadi di Monte Mario proprio la mattina del 4
dicembre. Ma l’allerta è sulla tensione sociale: «A quanto apprendiamo numerose
organizzazioni di estrema destra hanno indetto una fiaccolata xenofoba e razzista il 13
dicembre nel XIV Municipio. Non è tollerabile, che in questo particolare momento di
tensione sociale nelle periferie, le formazioni neofasciste continuino a fare propaganda e
cercare di acquisire consensi sulla pelle dei migranti. Chiediamo al Questore e al Ministro
dell’Interno di impedire ulteriori concentramenti dell’estrema destra e occasioni di tensione
in città».
http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/14_dicembre_03/fiaccolata-contro-razzismo-romadeve-essere-accogliente-cf7ff61c-7b05-11e4-825c-8af4d2bb568e.shtml
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ESTERI
del 04/12/14, pag. 6
188 condanne a morte in Egitto
Giuseppe Acconcia
Giza. Pene severissime per l'assalto alla polizia di Kerbasa dopo
l'eccidio di Rabaa
La Corte penale di Giza ha condannato a morte 188 sostenitori dell’ex presidente
Mohammed Morsi per l’uccisione di 11 poliziotti, il saccheggio di una stazione di polizia e
per aver dato fuoco a veicoli dei poliziotti. L’episodio si riferisce al 14 agosto 2013: la notte
dell’orrore di Rabaa al Adaweya, il massacro in cui sono morte forse duemila persone in
seguito allo sgombero delle strade occupate dai Fratelli musulmani per protestare contro il
golpe militare del 3 luglio 2013. L’attacco alla stazione di polizia di Kerdasa è diventata per
i media pubblici e i sostenitori del presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi il simbolo
dell’uso della violenza da parte degli islamisti contro la polizia. Quelle immagini brutali
sono state per mesi rilanciate dalla tv di Stato per giustificare la repressione del regime
contro tutti gli islamisti, come se non esistano distinzioni tra moderati e terroristi. Il verdetto
è stato pronunciato dallo stesso giudice che ha condannato a sette anni i tre giornalisti di
al Jazeera, responsabili di aver raccontato i giorni di occupazione di Rabaa.
Dei condannati solo 135 erano presenti in aula. Per l’avvocato della difesa, Bahaa AbdelRahman, due imputati sono morti durante il processo e non sono stati rimossi dalla lista
dei condannati, incluso un minore. A conferma dell’approssimazione dei processi e di una
giustizia diventata il braccio politico del presidente Sisi. «Le condanne a morte di massa
stanno facendo perdere velocemente la reputazione di indipendenza che il sistema
giudiziario egiziano un tempo aveva», ha commentato Sarah Leah Whitson, direttore di
Human Rights Watch per il Medio oriente e il Nord Africa. «Anziché valutare le prove caso
per caso, i giudici condannano in massa gli imputati senza riguardo per gli standard del
giusto processo», ha aggiunto il think tank espulso dal paese dopo aver redatto un report
dell’eccidio di Rabaa, che puntava il dito direttamente contro l’allora generale al-Sisi. Ora
sulle condanne si pronuncerà il gran-mufti della massima istituzione sunnita, al-Azhar, che
potrebbe commutare le pene in ergastolo. Lo stesso era avvenuto con i 528 e 683
imputati, inclusi i principali leader della Fratellanza (lo stesso Morsi rischia la forca),
condannati a morte dalla Corte di Minya per gli scontri che hanno avuto luogo nella città
dell’Alto Egitto dopo lo sgombero di Rabaa. Di queste, 220 pene capitali sono state
approvate in via definitiva dai giudici egiziani. Nell’ultima analisi periodica all’Onu sui diritti
umani in Egitto, Germania, Ungheria, Francia, Svizzera e Uruguay hanno sottolineato le
violazioni sistematiche commesse chiedendo al governo di cancellare la pena di morte dal
codice penale.
Il maggior movimento d’opposizione, i Fratelli musulmani, subisce una delle repressioni
più gravi dalla sua fondazione negli anni Venti. Il partito Libertà e giustizia è stato messo
fuori legge, insieme al movimento e alla Coalizione per la legittimità che protestava per la
deposizione di Morsi. Il movimento è stato dichiarato gruppo terroristico dopo l’attentato
alla stazione di polizia a Mansura, il 24 dicembre 2013. Le elezioni parlamentari,
tradizionale veicolo di cooptazione degli islamisti nel sistema, sono state fin qui cancellate.
Scuole, organizzazioni caritatevoli e ospedali, diretti da esponenti del movimento, sono
stati chiusi o messi sotto stretto controllo dell’esercito, come la scuola di Mansura, gestita
dalla sorella del leader del movimento in prigione, Khairat al Shater. La Commissione
parlamentare, incaricata di congelare i beni della Fratellanza, ha sequestrato i fondi di
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decine di ong legate al movimento, decidendo il trasferimento di oltre mille associazioni,
ora sotto controllo governativo. I beni di migliaia di esponenti della Fratellanza sono stati
sequestrati, molti attivisti continuano a marcire in prigione senza accusa e a morire per le
condizioni detentive o dopo lunghi periodi di sciopero della fame.
del 04/12/14, pag. 15
L’INTIFADA DEI COLTELLI
SPINGE NETANYAHU AL VOTO
ISRAELE, ELEZIONI ANTICIPATE A MARZO. POLEMICHE INTERNE E
TENSIONI ESTERNE HANNO SPAZZATO VIA IL COMPROMESSO FRA
CENTRO E NAZIONALISTI
di Roberta Zunini
Non sorprende l'annuncio di elezioni anticipate in Israele il prossimo 17 marzo. Che
Netanyahu non amasse la disomogenea coalizione che presiedeva da un anno e mezzo, è
stato chiaro fin da subito. Il faticoso compromesso che ha messo assieme ministri centristi
e dell'estrema destra ultranazionalista, senza la stampella del partito religioso ortodosso
Shas – uscito dopo numerose legislature dall'esecutivo – non lo ha mai fatto sentire
sicuro. A maggior ragione ora che l'approvazione del “pericoloso” bi - lancio messo a
punto dal ministro “ribelle” Yair Lapid era alle porte e “l'intifada dei coltelli e delle
macchine” ha rinvigorito gli ultranazionalisti. Ieri in un supermercato nei pressi dell'enorme
colonia di Ma'ale Adumim, a pochi chilometri da Gerusalemme, un sedicenne palestinese
ha accoltellato due israeliani: le vittime sono sopravvissute e l’assalitore è stato arrestato e
portato in ospedale, dopo che gli agenti di sicurezza lo hanno ferito. “Nella attuale
situazione, con l’attuale governo, è impossibile guidare il Paese”, aveva detto due giorni fa
Bibi, dopo aver silurato oltre a Lapid anche la ministra della Giustizia, la moderata Tzipi
Livni: entrambi avevano votato contro l'approvazione della controversa legge che intende
dichiarare Israele “Stato ebraico” voluta dall'ala destra dell'esecutivo.
SECONDO I DUE ministri centristi “questa legge è solo un tentativo di Netanyahu di
ingraziarsi le formazioni ultra-ortodosse”. E garantire al suo partito, il Likud, più voti. I
sondaggi danno le formazioni più a destra ancora del Likud in progressiva ascesa. Livni ha
rincarato la dose di critiche al premier dopo lo scioglimento del parlamento votato dalla
stessa Knesset (parlamento, ndr) ieri pomeriggio: “La verità è che dietro la sue parole
isteriche abbiamo un premier che ha paura: paura dei suoi ministri e del mondo esterno”.
Yair Lapid invece ha sottolineato che a causa di questo scioglimento non potrà presentare
il bilancio statale. Il ministro delle Finanze avrebbe voluto anche istituire degli aiuti per i
tanti giovani israeliani che non possono permettersi di acquistare la prima casa. Il mondo
esterno che farebbe “paura a Bibi” è invece composto non solo dai noti nemici di Israele
ma dai parlamenti europei, come quello britannico, svedese, francese e belga che in
questi giorni hanno votato uno dopo l'altro il riconoscimento dello Stato palestinese.
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del 04/12/14, pag. 23
Iraq, i caccia iraniani contro l’Isis
Guerra parallela al fianco degli Usa
Primi raid oltreconfine di Teheran: cresce la (tacita) collaborazione tra i
due avversari
WASHINGTON Sono guerre parallele. Condotte in modo separato ma con qualche forma
di collaborazione. Tacita e, a volte, imbarazzata. Le combattono gli Usa insieme agli
alleati, poi i rivali, ossia gli iraniani, i siriani. Tutti affratellati dalla necessità di piegare l’Isis.
Ambiguità di una crisi dove mai nulla è chiaro o lineare.
Il Pentagono ha confermato che caccia iraniani hanno colpito, a fine novembre, posizioni
jihadiste nella provincia irachena di Diyala. Attacchi condotti all’interno di una fascia di
sicurezza che Teheran ha creato lungo il confine per prevenire infiltrazioni.
Protagonisti dei raid i vecchi F4, i famosi Phantom, velivoli acquistati in Usa all’epoca dello
Scià che l’Iran ha mantenuto in servizio cercando pezzi di ricambio sul mercato nero o
dove ha potuto.
La comparsa degli F4, filmati anche dalla tv Al Jazeera , è un’evoluzione di quanto
avvenuto a partire dall’estate. Teheran ha mandato i consiglieri ad assistere curdi e milizie
irachene, quindi ha prestato dei Sukhoi 25 a Bagdad — si dice insieme ai piloti —, infine
ha ostentato la presenza del generale Qasem Soleimani, il responsabile della Divisione
Qods, l’apparato speciale dei pasdaran. Lui si è fatto fotografare su tutti i fronti per dire:
siamo noi a coordinare la controffensiva sul terreno.
In parte è vero, come è vero che le operazioni hanno goduto della protezione aerea degli
Usa. Si è così creata una collaborazione di fatto tra due avversari, pronti a negarla ma
disposti ad accettarla. Ieri il segretario di Stato Kerry ha smentito che vi sia una
cooperazione, però ha definito i raid «un evento positivo». E non è un mistero che proprio
il capo della diplomazia americana avesse auspicato un’azione comune con gli ayatollah
nel nome della lotta all’Isis.
Più cauti gli iraniani — almeno in pubblico —, timorosi di irritare gli ambienti oltranzisti
della Repubblica Islamica, ma comunque a loro agio in questa situazione. Hanno ridotto le
distanze con gli Stati Uniti, hanno irritato due alleati importanti dell’America, Israele e
l’Arabia Saudita, hanno provocato un attacco di bile a quella parte del Congresso che non
vuole il dialogo con Teheran.
Dichiarazioni a parte, è impossibile pensare che l’Iran mandi i suoi Phantom senza
qualche forma di comunicazione, magari via Bagdad, con gli Usa. Troppo alto il rischio di
incidenti, con caccia e droni di molte nazioni che sfilano in uno spazio abbastanza
contenuto. Se non lo facessero sarebbero degli irresponsabili. Per questo stesso motivo è
plausibile che il Pentagono «parli» con i siriani. Gli aerei americani colpiscono spesso
l’area di Raqqa, così come lo fanno i Mig di Damasco. Ecco dunque la campagna
parallela, ancora più contraddittoria, perché Washington per lungo tempo si è mossa per
cacciare Assad.
Ora l’obiettivo sembra sbiadito, anche se gli amici degli Usa nella regione pretendono la
rimozione del raìs che, furbescamente, imita Teheran e manovra per mettersi vicino agli
Stati Uniti. Non potendolo fare politicamente, usa la carta militare per sottolineare che il
vero nemico è l’Isis.
Guido Olimpio
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del 04/12/14, pag. 6
Kiev, il governo è atlantico. Tre i ministri
stranieri
Fabrizio Poggi
Ucraina. «Incidente» in una centrale atomica. I tecnici escludono
qualsiasi fuoriuscita radioattiva: un semplice guasto
Tre stranieri su meno di 20 ministri nel nuovo governo di Kiev, la cui lista è stata approvata
dalla Rada nella tarda serata di martedì. Vengono da Stati Uniti (Natalia Jaresko, alle
Finanze; è stata AD di società di investimenti USA), Georgia (Aleksandr Kvitashvili, alla
Sanità; è stato rettore dell’Università di Tbilisi e, prima, direttore del EastWest Institute—
EWI a New York) e Lituania (Ajvaras Abromavichus, Sviluppo e commercio; ha lavorato al
Dipartimento di Stato USA): in sostanza, tutti preparati alla scuola di Washington, per
dirigere il nuovo governo atlantico di Kiev.
Chissà se nella formazione del governo avranno pesato più i suggerimenti del
vicepresidente Usa Joe Biden o quelli del comandante americano delle forze Nato in
Europa Philip Breedlove? In ogni caso, le ripetute visite a Kiev – quelle che non è proprio
possibile far passare inosservate – degli altolocati amici americani hanno dato
un’accelerata alle contrattazioni d’affari per accontentare, per un po’, tutti e cinque i partiti
di destra (a questo punto, definirli nazionalisti, è quantomeno fuori luogo) entrati alla Rada
con il voto del 26 ottobre. E se l’accordo per la coalizione ha avuto una gestazione lunga,
almeno su un punto l’intesa era già da tempo raggiunta: l’abolizione dello status di paese
fuori dai blocchi, per riprendere il percorso di adesione alla Nato. Se gli obiettivi, a parole,
dei golpisti usciti da Euromajdan erano adesione alla Nato e ingresso nella Ue, sembra
ora che il primo abbia avuto un’accelerazione decisiva, sulla scia delle recenti dichiarazioni
del segretario generale Nato Jens Stoltenberg sulla probabile ammissione di Georgia e
Ucraina.
In ogni caso, sul nuovo governo è subito caduta la tegola energetica. Ora che le cose
sembravano andare a posto coi pagamenti del gas russo, il Ministro per l’Energia Vladimir
Demcishin ha dovuto chiarire le cause dello spegnimento del terzo blocco alla centrale
elettronucleare di Zaporozhe (la più grande d’Europa) che, dalla scorsa settimana,
costringe Kiev a ridurre l’erogazione di energia elettrica. I tecnici, che escludono qualsiasi
fuoriuscita radioattiva, dicono trattarsi di un semplice guasto. Più forti timori non erano
fuori luogo (senza dimenticare Chernobyl): la centrale, non lontana dal Donbass, lo scorso
maggio era stata presa di mira da un battaglione neonazista.
Comunque, a sostegno della lista dei ministri, hanno votato 288 deputati dei 5 partiti di
«Ucraina europea». Alcuni deputati non hanno votato, per protesta contro la nuova figura
del Ministro per la politica dell’informazione, che anche l’Osce vede come minaccia alla
libertà d’espressione. Il replicante premier Arsenij Jatsenjuk e i Ministri degli esteri e della
difesa (rispettivamente Pavel Klimkin e l’ex Capo della Guardia nazionale Stepan Poltorak)
sono stati indicati da Poroshenko; gli altri ministri, su indicazione del premier. Confermato
agli Interni l’ex ricercato dall’Interpol (fu estradato a suo tempo dall’Italia) Arsen Avakov,
mentre un’altra straniera, la georgiana Eka Zguladze, potrebbe essere la sua vice.
Pëtr Poroshenko ha dovuto far approvare in fretta dalla Rada una legge che concedesse
ai neoministri stranieri la cittadinanza ucraina e, già che c’erano, i deputati hanno conferito
la cittadinanza anche ai mercenari stranieri che combattono nei battaglioni neonazisti. Ora,
dato che la legge ucraina non prevede la doppia cittadinanza, per quale opteranno
neoministri e mercenari? E ancora: dato che il russo non è più ammesso (nemmeno quale
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lingua regionale), in quale dialetto si svolgeranno le sedute del consiglio dei ministri?
Colgono nel segno le parole con cui il Segretario del Pc ucraino Petr Simonenko ha
caratterizzato la situazione «Il potere ha legalizzato la direzione straniera del paese». Un
paese il cui governo, a dispetto delle intese sul cessate il fuoco, ha spostato ieri truppe e
mezzi corazzati a ridosso del Donbass. E la crisi torna al Consiglio di sicurezza dell’Onu.
del 04/12/14, pag. 38
Inferno Messico dove la vita di un giornalista
non vale niente
Ottanta cronisti uccisi in 14 anni perché indagavano sui narcos. Le loro
storie in un docu-film
ATTILIO BOLZONI
E’ UN viaggio in un luogo del mondo dove la vita di un giornalista vale meno di niente.
Nelle strade deserte del Tamaulipas stavamo seguendo le tracce di un grande reportero
che si chiama Diego Enrique Osorno e con lui abbiamo ritrovato anche tutti gli altri, i vivi e
i morti.
Li ammazzano i narcos ma soprattutto li ammazza il potere. Trafficanti e governatori che
fanno affari insieme, militari corrotti, pubblici ufficiali assassini, stragi di mafia e stragi di
Stato che si confondono nel sangue. L’ultima appena due mesi fa nel Guerrero, 43 ragazzi
rapiti, uccisi e bruciati da mafiosi con la complicità della polizia e su mandato di un sindaco
che nel suo pueblo viveva come un re. Sono loro, i giornalisti messicani, i protagonisti di
un film documentario che non poteva avere che un solo titolo: “Silencio”.
Silencio perché nessuno deve ascoltare. Silencio perché nessuno deve parlare. Silencio
perché nessuno deve sapere. Chi scrive la verità è «socialmente pericoloso» in quello
sterminato Paese che sopravvive nel terrore.
Ne hanno uccisi ottanta di giornalisti in Messico negli ultimi quattordici anni. E altri sedici
sono scomparsi, i loro corpi non li hanno mai ritrovati. Più di quanti ne siano caduti in Iraq,
71. Più di quanti ne siano caduti in Vietnam, 66. Più di quanti ne siano caduti durante tutta
la Seconda guerra mondiale, 68. E non c’è mai un colpevole per un giornalista che muore
in Messico. Mai.
Nessun colpevole per Regina Martinez, corrispondente del settimanale Proceso da Xalapa
, la capitale dello Stato di Veracruz. La notte del 28 aprile del 2012 l’hanno trovata morta
nella sua casa, torturata e strangolata. Nel suo ultimo articolo aveva scritto di nove
poliziotti al servizio di un Cartello di narcotrafficanti. Hanno detto che Regina era stata
uccisa per una rapina. Hanno detto che era stata uccisa per «motivi passionali ». Hanno
detto che se era finita così, in fondo era per colpa sua. Poi non hanno detto più niente. Per
le autorità messicane il movente per i delitti dei reporteros è sempre e solo uno: sesso,
corna.
Luis Roberto Cruz, reportero, asesinado. Paulo Pineda Guacan, reportero, asesinado.
Alfredo Jimenez Mota, reportero, desaparecido. Rafael Ortiz Martinez, reportero,
desaparecido. Maria Isabel Cordero Martinez, reportera asesinada. Miguel Morales
Estrada, reportero, desaparecido..
L’elenco è lungo, molto più lungo. Tre quelli che hanno ucciso a Oaxaca, sette quelli uccisi
nel Guerrero, cinque nel Michoacán, dieci a Veracruz, cinque nel Chihuahua.
Dai confini violenti con il Texas e dai gironi infernali di Veracruz siamo scesi fino alle
spiagge bianche della Riviera Maya, dove tutto deve sembrare quieto, tranquillo,
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divertente. Dove è sempre festa ed è sempre vacanza. Dove i Cartel della droga
messicani fanno commercio e fanno traffico con camorristi napoletani e soprattutto con
calabresi che riciclano i proventi della cocaina nel lusso di Cancun o a Playa del Carmen,
una Little Italy — lì vivono almeno 20 mila nostri connazionali — con tanti ristoranti bar,
pizzerie e gelaterie di italiani perbene e poi «loro », i boss che comprano tutto in contanti.
Residence, hotel, terreni. Nessuno indaga, nessuno chiede mai niente. E’ facile arrivare a
Playa del Carmen, dall’Italia ogni giorno partono tre voli per questa nostra colonia che sta
dall’altra parte del mondo.
Cronache violente su nel Nuovo Leon e nel Tamaulipas, denaro e sfoggio di ricchezze
sulla Rivera Maya. I due volti della mafia, di tutte le mafie.
E poi, inseguendo le orme di boss e dei loro prestanome, con il regista Massimo Cappello
siamo precipitati nella parte più “messicana” del nostro Paese, in quella Calabria dove
decine di giovanissimi cronisti sono corrispondenti di guerra a casa loro.
Nei paesi della Locride, fra il porto e le macerie industriali della Piana di Gioia Tauro. E
nella Reggio che è non è Sud e non è neanche Calabria, Reggio che è solo Reggio,
protesa sullo Stretto con i suoi segreti.
Abbiamo attraversato campagne e città parlando con questi colleghi che sopravvivono in
terra di ‘Ndrangheta. Dopo tanto silenzio anche loro diffondono un’informazione scomoda.
In cambio ricevono minacce, attentati, pallottole calibro 12. Fino alle intimidazioni dei preti
— un’estate fa — quando alcuni giornalisti scrivono di Madonne che pagano il pizzo ai
capobastone locali con gli inchini davanti alle loro case. Infami. Comunità religiose,
sindaci, comitati civici tutti contro di loro per difendere «l’onore dei calabresi onesti». Altre
minacce, altri giornalisti finiti sotto scorta come Michele Albanese. Una notizia in più porta
sempre guai.
Alla fine del viaggio che è cominciato a Città del Messico ed è continuato in fondo all’Italia,
abbiamo scoperto chi sono in realtà Diego Osorno, Anabel Hernàndez, Jorge Carrasco e
tutti gli altri colleghi messicani, sconosciuti e famosi, giovanissimi reporteros e inchiestisti
di robusta esperienza. Sono ribelli, sono diventati ribelli per continuare a fare i giornalisti.
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INTERNI
del 04/12/14, pag. 28
Addio all’articolo 18 il Jobs act è legge
scontri prima del voto
Il governo ha incassato la fiducia al Senato Il premier: l’Italia cambia.
Poletti: testo migliore
ROMA .
Il Jobs act è legge. Il Senato ieri sera ha votato la fiducia, posta dal governo - la numero
32, un record in soli nove mesi con 166 sì, 112 no e un astenuto (maggioranza a 140). Il
testo quindi passa in terza lettura senza modifiche rispetto alla versione della Camera,
grazie anche al voto favorevole della minoranza dem, 27 senatori del Pd allineati per
«senso di responsabilità». «L’Italia cambia davvero», esulta il premier Renzi su twitter.
Testo «significativamente cambiato e migliorato», dichiara il ministro del Lavoro Poletti, in
un giorno ad altissima tensione. A pochi metri da Palazzo Madama, mentre i senatori
votano, studenti, precari, disoccupati, movimenti sfilano nelle vie di Roma al grido
“Circondiamo il Senato” e “Chi ha scritto il Jobs act andava a cena con la cricca di
Carminati e Alemanno. Vergognatevi!” (il riferimento è ad una foto del 2010 dove compare
anche Poletti, all’epoca presidente della Legacoop). Quando il corteo prova a sfondare
l’ingente blocco degli agenti di polizia e così portare la protesta davanti al Senato, partono
le cariche. Vola di tutto: uova, petardi, fumogeni. Alla fine decine di contusi, tra
manifestanti e forze dell’ordine.
La protesta contro il Jobs act non è solo romana. A Torino gli studenti occupano la sede
del Pd. A Firenze, lancio di arance, fumogeni e petardi contro la sede regionale del partito
guidato dal premier Renzi, nella sua città. A Genova un gruppo di ragazzi dell’Unione degli
studenti inscenano un blitz pacifico davanti alla prefettura, depositando all’ingresso i
pacchi dono della legge: precarietà, tirocini a vita e lavoro gratuito. «Sono questi i regali
che il Jobs act sta preparando alle nuove generazioni», dicono i ragazzi. E sullo striscione
si legge: «Ci vogliono precari, saremo inflessibili».
Il pallino della riforma ora passa nelle mani del governo, pronto a sfornare i decreti
delegati, il primo entro Natale sul contratto a tutele crescenti. Il Jobs act è una legge
delega, un contenitore che va riempito di contenuti: articolo 18 (di fatto cancellato per le
nuove assunzioni, ma dovranno essere tipizzati i casi di reintegra per i licenziamenti
disciplinari), abolizione dei contratti precari, ammortizzatori per tutti coloro che perdono il
lavoro, stesse tutele alle mamme, incluse le precarie. Il ministero del Lavoro ieri ha diffuso
i dati sull’occupazione, come risultano dal sistema delle comunicazioni obbligatorie.
Ebbene i rapporti attivati nel terzo trimestre sono aumentati di 60 mila unità (+2,4%),
rispetto all’anno prima. Le assunzioni a tempo indeterminato, 401.647, risultano però
inferiori alle cessazioni di contratto sempre a tempo indeterminato del periodo, 483 mila.
Qualche giorno fa, lo stesso ministero parlava di un +7% di contratti stabili.
(v. co.)
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del 04/12/14, pag. 4
Jobs Act, prima del voto vengono i
manganelli
Roberto Ciccarelli
Roma. Fiducia al Senato sul Jobs Act: 166 favorevoli, 112 contrari, un
astenuto. Mineo (Pd) non ha votato, Ricchiuti e Casson assenti. La
manifestazione dello sciopero sociale è stata caricata in via delle
Botteghe Oscure a Roma dopo essere stata accerchiata per più di
un'ora. Entro giugno il governo dovrà approvare i cinque decreti della
legge delega. L'articolo 18 è stato espulso dal diritto del lavoro italiano
Il Senato ha dato il via libera definitivo al Jobs Act con 166 si, 112 no e un astenuto ieri
alle 19,43 . Cinque ore prima a pochi metri di distanza, oltre le linee di un esercito di
centinaia di poliziotti, carabinieri e finanzieri, in via delle Botteghe Oscure, la violenza dei
manganelli. Uno spettacolo gratuito e inspiegabile quello visto ieri nelle strade di Roma. Il
volto più educato, ma ugualmente pregno di contenuti, il governo l’ha mostrato in aula
quando il ministro del Lavoro Giuliano Poletti ha annunciato la fiducia per tagliare le
gambe alla sinistra Dem e zittirla sulla riforma del lavoro. Dopo le 14 tra piazza
Sant’Andrea della Valle e i binari del tram 8, davanti al teatro Argentina, ha mostrato
quello più arbitrario.
Le forze dell’ordine schierate con decine di camionette e un centinaio di uomini hanno
negato a trecento persone di tornare a Sant’Andrea della Valle, la piazza concordata con
la Questura di Roma fino alle 18. Dopo averli tenuti in ostaggio per più di un’ora, davanti
all’insistenza dei manifestanti di uscire dall’accerchiamento, è partita una carica. Due
persone sono state fermate, poi rilasciate. Altre picchiate. Erano inermi. La testimonianza
di numerosi video da ore in rete mostra la durezza delle scene. «Contenimento per
impedire di tornare al Senato» lo definisce una nota della Questura capitolina che sostiene
di avere sequestrato 30 petardi e 26 fumogeni. Oggetti evidentemente pericolosi al punto
da cancellare la clamorosa sproporzione delle forze in campo. Lasciando defluire un
corteo pacifico si sarebbero evitati anche i lanci di petardi e inutili tensioni. Al vaglio ci
sono le immagini riprese dalle telecamere montate sulle uniformi degli agenti. Il corteo era
partito verso mezzogiorno dal Colosseo con più di cinquecento persone.
«In tutta Europa si manifesta contro leggi che sono ipoteche sul futuro di milioni di persone
— ha commentato Francesco Raparelli del laboratorio romano per lo sciopero sociale, uno
dei fermati — A Roma no. è vietato manifestare liberamente». «Il nuovo questore di Roma
ha esordito in maniera ignobile — ha detto il portavoce Cobas Piero Bernocchi — Non
vorrei che quanto accaduto risulti sulla stampa come dipeso da un poliziotto nervoso. Chi
ha deciso queste cariche? Renzi è come il padre del Buddha che nascondeva i fiori morti
al figlio, non vuole vedere contestazioni e su questo ha messo il carico da undici anche
Alfano». «Si è svelata la natura autoritaria del governo, che preferisce far manganellare
studenti minorenni che stanno occupando le scuole contro La Buona Scuola e il Jobs Act
invece di rispondere ai loro reali bisogni» sostiene Danilo Lampis (Uds). «Questa vicenda
non finisce qui — la battaglia proseguirà contro i decreti attuativi della legge delega, per
impedire che vengano cancellati diritti e tutele — sostiene il sindacato Usb — la battaglia
proseguirà contro i decreti attuativi della legge delega, per impedire che vengano
cancellati diritti e tutele».
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Decreti che verranno approvati entro giugno. «Le opinioni espresse in parlamento saranno
tenute in considerazione nella loro stesura» ha detto Poletti. Saranno cinque e riguardano
gli ammortizzatori sociali, i servizi per il lavoro, la semplificazione, il riordino delle forme
contrattuali e la conciliazione. Si cancellerà l’articolo 18 sul licenziamento per i neo-assunti
che verranno sottoposti alla disciplina del «contratto a tutele crescenti». Le loro tutele
saranno vincolate al periodo di lavoro svolto. Meno si lavora, meno soldi si ricevono. Una
svolta nella recente, e tribolata, storia del diritto del lavoro sempre più ricalcato sulle
esigenze delle imprese. In aula, durante la discussione, i senatori di Sel hanno protestato
mostrando cartelli con la scritta: «Jobs Act: ritorno all’800». Per Poletti, invece, «non sono
le regole a produrre posti di lavoro, ma siamo convinti che un buon contesto aumenti
l’opportunità». Il contesto è quello dove la disoccupazione è arrivata al 13,2%, +286 mila
in un anno, e quella giovanile è fuori controllo: 43,3%. Il premier Renzi si è invece
complimentato su twitter: «Questa è #lavoltabuona. E noi andiamo avanti». Nella direzione
vista ieri a Roma. Il senatore Pd Corradino Mineo non ha votato la fiducia. Lorenza
Ricchiuti e Felice Casson (Pd) erano assenti.
del 04/12/14, pag. 28
Decreti delegati in arrivo il tetto all’indennizzo
sarà due anni di stipendio
VALENTINA CONTE
ROBERTO MANIA
IL CASO
ROMA .
Indennizzo monetario al posto del reintegro al lavoro in tutti i licenziamenti economici
ingiustificati e in quasi tutti quelli disciplinari. Reintegro per i licenziamenti discriminatori.
Con i primi decreti attuativi del Jobs Act (saranno pronti intorno alle metà di questo mese)
arriverà il nuovo contratto a tutele crescenti e la riforma radicale dell’articolo 18 dello
Statuto dei lavoratori. Le nuove regole si applicheranno solo ai nuovi assunti, per gli altri
non cambierà nulla, con il rischio, però, che così si blocchi la mobilità da posto a posto. Le
nuove regole scatteranno da gennaio insieme agli sgravi fiscali (eliminazione del costo del
lavoro dal calcolo dell’Irap) e contributivi (azzeramento degli oneri sociali per i primi tre
anni) previsti dalla legge di Stabilità per le nuove assunzioni a tempo indeterminato. Le
tutele saranno crescenti in base all’anzianità di servizio del lavoratore: più anni di lavoro,
più consistente il risarcimento.
Il governo punta a ridurre al minimo la discrezionalità dei giudici nei casi di licenziamenti
individuali disciplinari. I tecnici che stanno scrivendo i decreti attuativi stanno ipotizzando
di limitare la cosiddetta tutela reale (cioè il reintegro) al solo caso in cui un lavoratore viene
licenziato con l’accusa, rivelatasi poi infondata, di aver commesso un reato. Tra le ipotesi
resterebbe comunque anche quella di consentire al datore di lavoro di scegliere, dopo una
sentenza favorevole al dipendente, tra il reintegro e il pagamento di un indennizzo
rafforzato. Al massimo, in ogni caso, le mensilità che il licenziato porterebbe a casa
arriverebbero a 24. Nelle prime bozze, il governo ne ipotizzava 36. Le imprese vorrebbero
scendere ancora di più.
I decreti delegati che il governo sta scrivendo in queste ore sono però due (in tutto ne
occorrono cinque entro giugno). Accanto a quello sul contratto a tutele crescenti, per i
primi giorni di gennaio è atteso l’altro sulla nuova Aspi (Naspi), l’ammortizzatore sociale
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valido per tutti coloro che perdono il posto e hanno lavorato almeno tre mesi. Dunque
anche per i precari oggi non coperti, come i cocopro (in attesa che questa forma
contrattuale sia eliminata assieme ai cococo, come promesso da Renzi, da ultimo ieri sera
in tv). I nodi aperti sono molti, dal costo — circa un miliardo e mezzo di euro in più rispetto
a quanto si spende oggi per tutti gli ammortizzatori — alla platea, volendo includere
almeno un altro milione e mezzo di lavoratori, fin qui reietti. Operazione non facile, ma
essenziale perché il Jobs act funzioni davvero. I nuovi assunti, di fatto senza articolo 18,
senza un sostegno significativo allorquando vengono messi alla porta — anche in modo
illegittimo — rischiano il collasso sociale ed economico. Le prime ipotesi non a caso
prevedono una durata più lunga dell’attuale Aspi: al massimo due anni per i lavoratori
dipendenti, anziché uno o uno e mezzo, e al massimo sei mesi per gli atipici.
del 04/12/14, pag. 1/10
Quirinale, Renzi prepara il metodo Cossiga
“Larga intesa su un Pd”
Salvini apre: “Pronti a discutere se non è di parte” Il M5S: “Mettiamo a
disposizione le nostre quirinarie”
FRANCESCO BEI
ROMA .
Si chiama “metodo Cossiga”, trasuda antica sapienza democristiana, ed è quello che ha in
mente di adottare Renzi quando si apriranno le danze sul Quirinale. È il sistema che
“inventò” il segretario Dc Ciriaco De Mita e che portò nell’85 all’elezione di Cossiga al
primo colpo, con una maggioranza stratosferica di 752 voti. Funziona, questo è provato. E
implica un accordo preventivo, il più largo possibile, su una personalità condivisa.
Ovviamente del partito di maggioranza. De Mita convinse Natta e gli alleati della Dc
presentandosi con una rosa di nomi e andando per esclusione. A Renzi toccherà mettere
d’accordo Berlusconi e la sua riottosa minoranza interna. «Una larga intesa su un nome
nostro», questo è il senso dell’indicazione che si raccoglie a palazzo Chigi. Ieri sera il capo
del governo ne ha parlato da Mentana: «Il Presidente della Repubblica dovrà avere il
massimo consenso possibile. E si sceglie tutti insieme». Anche con i 5Stelle. Da ieri
comunque al tavolo si è autoinvitato un giocatore che finora ne era rimasto fuori: Matteo
Salvini. In un colloquio con l’ Ansa, il segretario leghista ha fatto un’apertura sorprendente.
E senza condizioni impossibili. La Lega è pronta ad appoggiare un candidato proposto da
Matteo Renzi per il Colle a patto che sia «positivo» e «non di parte ». Dovrebbe essere
«un nome serio, non totalmente schierato a sinistra». «A me — aggiunge Salvini dalla
Gruber — piacerebbe del mondo dell’imprenditoria o della cultura».
Una mossa che Renzi valuta con molta cautela. Soprattutto finché non sarà chiusa la
partita dell’Italicum 2.0 il premier teme infatti che ogni apertura sia tattica, che ogni mano
tesa in segno di amicizia ne nasconda un’altra che impugna lo stiletto. Lo spiega bene il
senatore Andrea Marcucci, l’antenna del premier a palazzo Madama: «Ci sono ancora
troppe cose aperte. Per cui alla Lega diciamo: grazie per la disponibilità, ma intanto
pensiamo a portare a casa quello che abbiamo iniziato. Il Quirinale verrà dopo la legge
elettorale ». In ogni caso, se alcuni indizi si possono cogliere in questo pre-partita, uno è la
vocazione politica che dovrebbe avere il candidato ideale di casa Pd. Non quindi, come
chiede Salvini, un nome dell’imprenditoria o della società civile. Un politico puro.
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«Del resto - fa notare il capogruppo Luigi Zanda - è stata proprio la sapienza politica di
Napolitano a consentirgli di gestire gli anni più difficili della crisi. Serve qualcuno o
qualcuna che abbia queste qualità e non improvvisi ». Ieri sera, parlando tra loro in un
corridoio del Senato, i leghisti Roberto Calderoli e Jonny Crosio ragionavano sul nobel
Carlo Rubbia, nominato senatore a vita da Napolitano. Nello stesso momento solcava il
salone Garibaldi un’altra candidata in sonno, l’ex montiana Linda Lanzillotta, e al suo
passaggio più d’uno faceva notare la sua «lunga esperienza istituzionale »». Poco più in là
ecco arrivare Piero Grasso. E in un altro capannello si discuteva sul fatto che la sua
eventuale elezione al Colle libererebbe la carica di presidente del Senato per consentire a
Renzi altre operazioni. Questo per dire che la grande giostra è già in movimento, ben
prima delle dimissioni dell’attuale inquilino del palazzo dei Papi.
Oltre alla Lega, ha iniziato a dare segni di vita anche il Movimento 5 Stelle. Non Grillo, ma
il direttorio a cinque, alla sua prima uscita pubblica, ha aperto ufficialmente la pratica
Quirinale. Per l’indicazione del candidato alla presidenza della Repubblica «faremo le
“Quirinarie” e siamo disponibili a mettere a disposizione delle altre forze politiche il nome
che uscirà dalla nostra consultazione». L’annuncio arriva da Luigi Di Maio, la testa più
politica del pentadirettorio. L’uomo che interloquisce spesso con i renziani alla Camera.
L’unico tra gli ortodossi che non ha paura di “sporcarsi le mani” pur di ottenere un risultato
(come nella pratica Csm). Il metodo Di Maio e il metodo Renzi. Per ora sembrano
utilizzare due codici speculari e opposti, pretendendo ciascuno che l’avversario scelga un
nome della propria rosa. Ma siamo soltanto ai minuetti iniziali. «Chiunque sarà eletto osserva il dem Nicola Latorre - starà lì sette anni a dare le carte. È naturale che Lega e
cinquestelle vogliano entrare nella stanza dove si decide. Ognuno spera di essere il
kingmaker e di poter dire al prossimo Presidente che per l’elezione deve dire grazie al suo
sostegno». Ma Renzi non ha alcuna intenzione di cedere questo privilegio al primo venuto.
del 04/12/14, pag. 12
M5S, venti di scissione fuga di eletti in
Toscana nomi all’indice in Calabria
ANNALISA CUZZOCREA
MASSIMO VANNI
ROMA .
Il direttorio ci prova. Luigi Di Maio presenta in pompa magna al Senato la proposta di
legge più importante dei 5 stelle, quella sul reddito di cittadinanza, e dice senza mezze
misure: «Non è vero che chi andrà a Parma sarà espulso, è una notizia priva di
fondamento». Alessandro Di Battista torna in televisione - in studio al tg la7 di Enrico
Mentana - e inaugura la nuova strategia comunicativa del Movimento: parlare dei temi,
dimostrare di essere diversi dagli altri con proteste eclatanti (come quella di ieri al
Campidoglio). Sui territori, però, tira vento di scissione. In Toscana l’emorragia non si
ferma. Solo nella provincia di Firenze, tra fuoriusciti e intenzionati a farlo, il conto dei
consiglieri comunali è già sopra la decina. Protestano contro l’espulsione di Massimo
Artini, anche se la telefonata di solidarietà di Renzi al deputato 5 stelle - con cui andava
alle medie - intercettata dalle telecamere di Piazzapulita, non è piaciuta a molti. «Ha dato
una motivazione in più per attaccare chi vuole uscire», spiega Saverio Galardi, che oggi comunque - si dimetterà dal consiglio della Città metropolitana fiorentina. Nonostante la
frenata, lo smottamento non è di poco conto. Nel comune di Reggello due eletti e una
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decina di attivisti hanno lasciato in blocco Grillo e Casaleggio: «Totale dissenso con la
deriva anti-democratica del movimento », la motivazione. Subito dopo è toccato al gruppo
di Loro Ciuffenna, nell’aretino. E consiglieri in bilico si contano a Empoli, Borgo San
Lorenzo, Calenzano e Firenze, dove da giorni ci sta pensando l’ex candidata sindaco 5
Stelle Miriam Amato.
Non va meglio in Calabria, dove la guerra per bande va avanti ormai da mesi ed è arrivata
ieri alla richiesta di espulsione del deputato Sebastiano Barbanti e del senatore Francesco
Molinari da parte del meet up di Cosenza. Avrebbero dissentito dalla linea del blog, i due
parlamentari calabresi. Molinari attacca frontalmente il senatore Nicola Morra: «Il gruppo di
Cosenza è in mano a chi fa della delazione un mestiere e del millantare lavoro inesistente
un’opera di distrazione di massa», scrive, attaccando la «visione politico-familisitica del
collega Nicola Morra». Barbanti dice di non temere nulla: «Stiamo parlando di 27 persone
di un meet up. Se questo dovesse dare il via a una procedura di espulsione in Parlamento,
chiunque potrebbe mobilitare il suo meet up di riferimento contro - che ne so - Di Maio! Chi
vuole usare questa storia per spaccare se ne assume la responsabilità».
Andrà a Parma, Barbanti, altro luogo simbolo delle divisioni a 5 stelle (in Emilia ci sono di
fatto due movimenti opposti l’uno all’altro). La rassicurazione di Luigi Di Maio (chi andrà
non sarà espulso) è stata seguita da un annuncio: i cinque “reggenti” stanno lavorando a
un evento che molto presto coinvolgerà i sindaci 5 stelle (probabilmente a gennaio). La
strategia è: disinnescare, non dare alibi a chi vuole andar via. Le adesioni alla convention
di Federico Pizzarotti però continuano a salire: l’organizzazione ha dovuto bloccare le
iscrizioni, che hanno superato quota 350. Tra gli altri, ci saranno i primi cittadini Filippo
Nogarin di Livorno e Fabio Fucci di Pomezia, i deputati Walter Rizzetto, Giulia Sarti, Mara
Mucci, Marco Baldassarre, Tancredi Turco, l’europarlamentare Massimo Astorre, l’espulso
Artini e gli attivisti di Occupypalco.
Gli ortodossi - nel frattempo lavorano solerti alla strategia: l’ex capogruppo alla Camera
Federico D’Incà ieri ha fermato nei corridoi del Transatlantico il deputato pd Matteo
Richetti, tenendolo a lungo a palare di Quirinale. Una partita che - benché Renzi faccia
mostra di non capirlo - interessa più ai fedelissimi di Grillo che ai suoi avversari interni.
del 04/12/14, pag. 19
Bossi boccia la corsa di Salvini: il
centrodestra vince solo con Silvio
«Al Sud meglio di no». Ma in un sondaggio la Lega supera FI e ha il 4%
nel Mezzogiorno
MILANO Sembrava, la giornata, destinata a chiudersi con il vociare (non solo) sui social
network riguardo all’esuberante pelo mostrato da Matteo Salvini. Un’esibizione desnudo,
tranne la cravatta, tra i cuscini di un hotel di Lione, comparsa sulla copertina di Oggi .
Molto se ne è discusso, fuori e dentro la Lega. Poi, Umberto Bossi ha interrotto la tregua
che si era autoimposta riguardo al suo successore. Mentre lo stesso segretario leghista ha
aperto a Matteo Renzi sulla corsa al Quirinale: «Se c’è un nome serio, non totalmente
schierato a sinistra», la Lega è disponibile a votarlo: «Ci tenevo a dirlo, siamo
assolutamente in partita» spiega Salvini. Il che toglie margine di manovra al M5S: un sì
leghista renderebbe superflui i voti stellati.
Dopo mesi in cui il fondatore del movimento aveva misurato le parole nei confronti del
successore, sia pure senza mai dare segni di entusiasmo, ieri il vecchio Capo ha preso la
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parola con un’intervista all’agenzia LaPresse per dire che c’è poco da fare: «Il
centrodestra adesso è fermo, perché Berlusconi è fermo». Non molto lusinghiero nei
confronti del segretario leghista, acchiappa consensi certificato e ormai superstar
mediatica: «Quando Berlusconi entrò in politica il centrodestra volò di colpo, perché lui ne
è il centro, il perno». D’accordo. Ma Salvini? «Lui ha tenuto accesa un po’ la miccia, però
la grande impresa può farla solo Berlusconi. Se si muove lui, tutto si rimette a volare».
Quello che il fondatore della Lega non riconosce a Salvini è la capacità di unire: «Salvini si
propone, poi anche Tosi si propone, sono possibilità. Il centrodestra però non
necessariamente deve annullarsi nello scontro, deve avere la capacità di sommare». E
quindi, Salvini «sarebbe ottimo se fosse capace di sommare. Leader lo si è se si sa evitare
lo scontro, se si sa sommare anziché dividere». Anche i nuovi compagni di strada della
Lega come Marine Le Pen e il suo Front national non entusiasmano l’ex «Capo»: «Il
fascismo è centralista e alla fine non ti porta verso il federalismo e tanto meno verso
l’indipendenza».
Bossi non sembra troppo convinto neppure della «discesa al Sud» della Lega. Anche se
lui stesso, Roma a parte, in passato ha fatto alcune puntate (non indimenticabili) sotto la
linea gotica: «Speriamo che non guadagni voti al Sud per perdere quelli al Nord».
Il tema, a prima vista, non è banale. Le lamentele della vecchia guardia leghista per il
progetto di calata al Sud già si sentono. Però, almeno a giudicare dai sondaggi, la partita
sembra vinta da Salvini. Un’indagine dell’istituto Demopolis per La7 assegna alla Lega il
4% al Sud e il 7% al Centro. Ma ben il 21% al Nord. Secondo Salvini, «questa è la prova
che siamo sulla strada giusta. Il nostro progetto non soltanto interessa in tutta Italia. Ma
questa idea fa anche da traino al Nord, perché il 21% significa un raddoppio dei nostri
consensi rispetto a non molto tempo fa». Tra l’altro, la media nazionale sarebbe del 13%,
superiore a quella di Forza Italia, in ritirata sul 12,5%. La Lega sarebbe dunque il terzo
partito italiano.
Ma le foto al naturale su Oggi ? Salvini è soddisfatto del ribollire mediatico? «Mah, fatti i
conti tra il positivo e il negativo, devo dire proprio di sì. Avevo un po’ di paura, lo ammetto,
anche se l’idea mi faceva ridere. Ma, alla fine, grazie a quelle foto, ho potuto parlare del
nostro progetto a un pubblico assai vasto».
Marco Cremonesi
del 04/12/14, pag. 19
Le nozze (litigiose) tra Ncd e Udc: così Area
popolare peserà per il Colle
ROMA Sono quasi in 70 (ma in 12 al Senato hanno già iniziato a piantare una grana) i
parlamentari ex Udc ed ex Ncd che hanno aderito ai gruppi di Area popolare lanciati,
secondo Angelino Alfano, alla conquista delle «praterie lasciate libere» da Renzi e da
Salvini. «Non è la cosa bianca» né il Terzo polo, puntualizza Gaetano Quaglieriello, ma il
tentativo di ricostruire il polo di centrodestra. Prossimi appuntamenti: organizzare una
discreta massa di manovra (35 voti al Senato e 33 alla Camera) nella partita della legge
elettorale e nella finalissima per l’elezione del nuovo capo dello Stato.
Ad «Area popolare» (che vuole rimanere nel campo del centrodestra ma perde il nome
destra che il Ncd portava con sé) aderiscono 27 deputati alfaniani e sei casiniani mentre i
2 popolari — Mimmo Rossi, sottosegretario alla Difesa, e Mario Caruso — se ne vanno
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con Dellai e Tabacci (Centro democratico Demos). Per il governo il saldo è comunque
zero.
Al Senato, la storia si complica e il caos di sigle fa girare la testa. In Area popolare
confluiscono i 27 alfaniani (ma Azzollini, Gentile, Viceconte Esposito, Giovanardi,
Compagna e altri sei hanno disertato, per i dubbi sull’accelerazione dell’Italicum, la
presentazione all’Hotel Flora di via Veneto) e gli ex Udc Casini, De Poli, Di Biagio e l’ex
popolare Marino (confcooperative). Se ne vanno invece per un’altra strada gli ex popolari
Lucio Romano e Andrea Olivero (viceministro dell’Agricoltura ex Acli) che puntellano il
gruppo delle Autonomie e rinvigoriscono il rapporto stretto con il Pd: la prima ricaduta della
mossa di Romano e Olivero riguarda la prima commissione (quella della legge elettorale)
nella quale lo stesso Romano esce di campo con la maglia dei popolari e per rientrare
(decisione ancora non formalizzata) con quella delle autonomie, assicurando alla
maggioranza quel voto di vantaggio (15 a 14) che viene messo a rischio dal rientro in
prima commissione di Mario Mauro (ex popolari passato a Gal con i colleghi Di Biagio e
D’Onghia). Per chiarire questa deriva balcanica dell’area moderata, Lucio Romano ci tiene
a precisare: «Non c’è stato alcun valzer di casacche. Questa estate Per l’Italia ha deciso
un avvicendamento nella commissione Affari costituzionali fra il senatore Mauro e me, non
ritenendosi rappresentato dalle posizioni espresse dal senatore Mauro. Ora il gruppo che
io presiedevo si è sciolto: dunque non ho cambiato casacca ma semplicemente sono
entrato in un altro gruppo, come prevede e richiede il regolamento del Senato.
Eventualmente spetterà all’assemblea del nuovo gruppo decidere quale commissione
affidarmi».
D.Mart.
del 04/12/14, pag. 11
Nuove navi da guerra per 5,4 miliardi
LE CAMERE STANNO PER APPROVARE L’INVESTIMENTO DECISO
DAL GOVERNO. I SOLDI? QUELLI PER LO SVILUPPO
di Marco Palombi
La notizia in sé è la seguente: il governo sta chiedendo il permesso al Parlamento, che è
intenzionato a concederglielo a breve, di comprare 14 nuove navi militari per una spesa di
5,4 miliardi di euro in 19 anni. Dove li prendono i soldi? Semplice: dal ministero per lo
Sviluppo economico sotto la voce “competitività e sviluppo delle imprese”, “Incentivazione
dei settori industriali”, “Investimenti” e altre missioni di spesa. Lo stanziamento, peraltro, si
aggiunge ai quasi 6 miliardi destinati al progetto italo-francese delle fregate Fremm. Non ci
sono, insomma, solo i 15 miliardi degli F-35, quelli del programma Eurofighter e via
dicendo in un elenco che, al netto di questa nuova spesa, contava già programmi
pluriennali per l’acquisto di sistemi d’arma per oltre 43 miliardi.
UNA BELLA CIFRETTA, non c’è che dire. Assolutamente giustificata secondo il decreto
interministeriale sulle nuove navi da guerra che il governo ha inviato alle commissioni
competenti (e come ripete da un paio d’anni il capo di Stato maggiore della Marina
Giuseppe De Giorgi): bisogna svecchiare la nostra flotta militare. “Nel prossimo decennio dice la scheda tecnica del dlgs - si procederà alla dismissione di 51 unità navali, escluso il
naviglio minore”. In sostanza quasi tutto quello che mandiamo per mare attualmente ed è
ormai - si lamentano gli interessati - obsoleto e persino pericoloso. Per sostituirlo ci si
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mosse ai tempi di Letta, che infatti previde uno stanziamento nella sua Finanziaria: quella
previsione oggi trova applicazione pratica nel decreto del governo Renzi. Il risultato è che
alla fine il settore della difesa non conosce austerità: tra fondi propri del ministero e quelli
infilati nel bilancio dello Sviluppo economico la spesa militare complessiva nel 2015 sarà
all’ingrosso uguale a quella di quest’anno - 23 miliardi e mezzo - mentre tutti gli altri
comparti hanno subito tagli pesanti: all’acquisto di armi tramite i fondi per investimenti del
ministero dello Sviluppo l’anno prossimo andranno più o meno 5,5 miliardi, circa 300
milioni in meno rispetto al 2014 (per dire quanta continuità ci sia tra i governi degli ultimi
anni sulle scelte di fondo). E qui torniamo alle nuove navi che la Marina chiede e il ministro
Roberta Pinotti intende comprare. I soldi - spiega il decreto - vengono dal ministero dello
Sviluppo non solo perché le navi sono attrezzate anche per compiti non militari (antiinquinamento, soccorso, etc), ma soprattutto perché questo è un importante investimento
per la crescita del Pil: “Verranno realizzati investimenti nel settore della cantieristica navale
nazionale (Fincantieri e Finmeccanica, ndr), comparto industriale che rappresenta un
importante volano antirecessivo” anche perché nell’indotto lavorano molte piccole e medie
imprese. Senza contare l’in - vestimento in tecnologia. Tutto vero, ma queste stesse
motivazioni non servirono a evitare la chiusura di Irisbus, che produceva autobus
ecologici.
UNA DOMANDA corretta l’ha posta durante il dibattito in commissione il deputato
Massimo Artini, quello appena espulso dal Movimento 5 Stelle per una faccenda di
scontrini: “Sono curioso di sapere se lo sviluppo di un programma navale come quello
proposto trovi conferma negli scenari previsti dal Libro Bianco della Difesa. Non vorrei che,
com’è accaduto con altri imponenti programmi pluriennali, gli strumenti di cui il nostro
Paese si è dotato richiedessero successivamente la necessità di essere integrati con altri
strumenti”. La notazione è maliziosa per un motivo molto semplice: il Libro Bianco –
chiesto dal Consiglio Supremo di Difesa e annunciato da Pinotti “entro l’anno” - ancora
non esiste. Dovrebbe servire a chiarire lo stato dell’arte, indicare le prospettive delle nostre
Forze Armate e gli strumenti per realizzarle: la redazione fu la risposta di governo, generali
e industrie della difesa all’inaudito oltraggio del Parlamento, che osò ribellarsi alle direttive
votando una moratoria sull’acquisto degli F-35 (una legge del 2012, infatti, consente
finalmente alle Camere di mettere becco anche sui singoli investimenti in sistemi d’arma).
Queste navi, sostengono ora i 5 Stelle, hanno “esplicite capacità offensive, persino
superiori a quelle delle fregate Fremm, che hanno in dotazione lanciamissili, lanciasiluri,
lanciarazzi, cannoni ed elicotteri d’attacco. Francamente riteniamo che un rinnovamento
della flotta italiana sia anche necessario, ma è evidente che tali unità navali, pensate e
progettate principalmente per scenari di guerra anche in mari lontani, non rispondano in
alcun modo alle reali esigenze del Paese”. Magari sì, visto che proteggeranno - per dire anche i giacimenti dell’Eni in Mozambico o le petroliere di ritorno in Italia. Il dibattito
pubblico sul tema, se mai si terrà, avverrà comunque dopo aver stanziato i fondi.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 04/12/14, pag. 2
Mafia a Roma, la scure di Renzi “Subito Orfini
commissario al Pd” Comune a rischio
scioglimento
Alemanno: “Ho sbagliato”. I 5Stelle all’attacco: azzerare la giunta Il
prefetto Pecoraro: leggo le carte e valuto se ci sono gli estremi
TOMMASO CIRIACO
ROMA .
«Sono sconvolto». La bomba esplosa con l’inchiesta “Mondo di mezzo” lascia senza fiato
Matteo Renzi. «Vedere una persona seria come Pignatone parlare di mafia colpisce.
Mancano solo Jack lo squartatore e il mostro di Loch Ness, poi ci sono tutti». Per questo, il
premier annuncia a “Bersaglio mobile” il commissariamento del Pd romano, affidato al
presidente del partito Matteo Orfini: «Noi non mettiamo la polvere sotto il tappeto». Anche
il prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro non resta con le mani in mano: «Abbiamo chiesto
le carte ai magistrati — annuncia — Le leggeremo con attenzione e poi valuteremo con il
ministro se esistono gli estremi per sciogliere il Comune». In tv Renzi non nasconde la
«rabbia» per la vicenda. Indica nell’era di Gianni Alemanno «l’epicentro» dello scandalo,
ma non risparmia i dem della Capitale. «Alcuni di loro non possono tirarsi allegramente
fuori». La mano sul fuoco, però, è pronto a metterla sul ministro del Lavoro Giuliano
Poletti, ritratto in una foto con Alemanno e Salvatore Buzzi, uno degli arrestati: «È
totalmente fuori, è un galantuomo». Il premier promette in ogni caso di andare avanti sulle
cene di autofinanziamento, anche se emerge in queste ore che a quella dell’Eur era
presente Buzzi: «Lui lì? Non ne ho idea, ma sono appuntamenti trasparenti». E si schiera
con le primarie e a favore delle preferenze: «Non sono fonti di inquinamento». Nel Pd è
tempo di mea culpa. «Azzeriamo il tesseramento e gli organismi assembleari», propone il
deputato Roberto Morassut. E l’eurodeputato Goffredo Bettini: «Il partito deve cambiare
radicalmente». I cinquestelle, invece, alzano il tiro. Il direttorio a cinque partecipa a un sit
in ai piedi del Campidoglio, poi chiede lo scioglimento del Comune durante un incontro con
Pecoraro: «Per incapacità, non per connivenza, Marino non è degno di fare il sindaco». E
prova a difendersi anche Alemanno, indagato per associazione mafiosa: «Non ho mai
conosciuto Massimo Carminati — giura a “Porta a porta”, dopo essersi sospeso da Fratelli
d’Italia — Ho sbagliato. Dovevo fare più attenzione nella scelta della squadra».
del 04/12/14, pag. 2
Sequestrati beni per 200 milioni. Le indagini
puntano alla Regione
Andrea Colombo
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Mafia capitale. Decisivo per i pm il ruolo di Carminati. Alemanno: «Ho
sbagliato dal punto di vista umano»
Ieri mattina, a Regina Coeli, sono cominciati gli interrogatori. Nessuno dei 14 indagati
sentiti dai magistrati, tranne l’ex ad dell’Ama Franco Panzironi, ha aperto bocca. Lo stesso
Panzironi non è andato oltre il ribadire la propria innocenza. Ma la vicenda è appena
all’inizio. Filtrano voci su una nuova e imminente ondata di iscrizioni nel registro degli
indagati, e questa volta toccherebbe alla Regione Lazio.
La magistratura, intanto, ha disposto il sequestro dei beni di alcuni indagati: robetta da 204
milioni. Macchine, terreni, appartamenti, negozi, quote societarie: di tutto si può dubitare
tranne che del rapido arricchimento dei presunti aderenti all’organizzazione ribattezzata
dagli inquirenti «Mafia Capitale». Una parte di quei capitali, 40mila euro, sarebbe finita
anche alla Fondazione Nuova Italia dell’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno, che si è
autosospeso da tutte le cariche in Fratelli d’Italia e al Tg1 ha dichiarato: «Sicuramente ho
sbagliato a sottovalutare la componente umana, non ho dato la giusta attenzione alla
scelta della squadra, mi assumo la responsabilità politica». Ma è solo una delle onde che
si avviano a sommergere la politica romana, e neppure la più grossa. Nell’epicentro del
terremoto c’è il Pd.
Il M5S chiede lo scioglimento del Comune, la presidente della Camera Laura Boldrini
esprime«sdegno totale». L’esponente del Pd della capitale Roberto Morassut vuole
«l’azzeramento del Pd romano». Il sindaco Ignazio Marino promette che «con i cittadini
onesti Roma cambierà davvero». Ma non sono gli strepiti, questi e molti altri, a restituire il
senso di quanto profonda sia la scossa. Sono i fatti in sé, senza bisogno di commenti.
L’elemento da alcuni punti di vista più inquietante dell’intera vicenda è la facilità con cui
Massimo Carminati è passato dal controllo quasi totale sugli appalti e sulle nomine nel
corso dell’era Alemanno alla conferma di un potere quasi identico con i successori.
Stando a quanto la magistratura ha deciso di rendere pubblico, proprio del potere
personale di Carminati si tratta. Più che di «Mafia Capitale» si dovrebbe infatti parlare di
«Carminati Capitano». Nella ricostruzione degli inquirenti, l’ex «Nero» della Magliana non
è solo «la figura apicale», ma il perno intorno a cui ruota ogni cosa, tutt’al più in tandem
con Salvatore Buzzi, l’ex detenuto comune (omicidio colposo ai danni della consorte) che
aveva creato un impero nelle cooperative sociali, a partire da quella cooperativa «29
giugno» fortemente sponsorizzata e poi protetta dall’ex assessore regionale al Bilancio
Angiolo Marroni, Pd (non coinvolto, va sottolineato, nell’inchiesta in corso). L’elemento
coercitivo in base al quale la procura di Roma contesta l’associazione mafiosa ex 416bis è
costituito, a conti fatti, solo dalla presenza di Carminati, sufficiente, scrivono gli inquirenti,
a incutere terrore. In realtà di episodi di violenza, per quanto riguarda il «mondo di sopra»,
non ne risultano quasi, e anche le minacce sono limitate. A renderle temibili è solo il fatto
che provengano da tanto criminale.
Almeno stando a quel che se ne sa al momento, l’aspetto dell’associazione mafiosa è
davvero fragile, basato appunto all’80% e oltre sulla partecipazione, anzi sulla direzione, di
Carminati. Con tutta la fiducia possibile nei togati, è un po’ poco. Soprattutto, la
deflagrante accusa di aver costituito una Cosa Nostra romanesca rischia di non mettere
nel dovuto risalto quel che l’inchiesta e le intercettazioni raccontano del livello, che dire
basso è ancora niente, raggiunto dalla politica a Roma, come probabilmente in molte altre
importanti realtà locali. Non a caso una quantità di vicende affrontate dagli inquirenti è
citata nelle carte per dare un’idea della situazione, ma senza che sia stato raccolto il
materiale probatorio necessario per procedere.
A leggere le carte dell’inchiesta non sembra tanto di trovarsi di fronte al Padrino quanto a
una versione all’amatriciana, ma non meno ignobile, di House of Cards. Pressioni,
manovre, anche minacce, corruzione, condizionamenti di ogni tipo per piazzare le persone
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ingiuste al posto giusto. In realtà, più che ai suoi trascorsi criminali con la Magliana,
sembra che Carminati debba il potere e l’influenza di cui gode a quelli di neofascista noto
e stimato in quell’ambiente. Dicono ad esempio che proprio Carminati abbia offerto la
propria alta garanzia a sostegno di Riccardo Mancini, l’ex ad di Eur spa, inviso ai suoi ex
camerati arrivati al potere a Roma per alcune delazioni e accuse ai tempi degli spari. E
ancora Carminati avrebbe speso il suo persuasivo carisma per convincere l’ex capo della
segreteria di Alemanno, Lucarelli, a confermare il ruolo della cooperativa di Buzzi «29
giugno», inizialmente destinata a essere affondata in quanto eredità della passata
amministrazione di centrosinistra.
Ma qualunque fosse il fondamento del potere di Carminati è un fatto che, dopo aver
trasformato gli appalti romani (e non solo) in una fonte inesauribile di arricchimento con la
giunta Alemanno, il gruppo abbia proseguito col vento in poppa anche con
l’amministrazione di centrosinistra. Lo ha fatto, se le accuse saranno confermate, molto
più comprando che minacciando. In diverse intercettazioni Buzzi parla senza mezzi termini
di Mirko Coratti, presidente dell’assemblea capitolina, come di un dipendente a libro paga.
Sarà la magistratura a stabilire quanto il malaffare sia permeato all’interno del Campidoglio
che però, oggi, appare come una fogna a cielo aperto.
del 04/12/14, pag. 1/6
Il tribunale Nero “Spezziamogli le ossa”
CARLO BONINI
LA VOCAZIONE bipartisan della Mafia Capitale non cancella il colore primario delle sue
fondamenta. Il Nero. Perché — documenta l’inchiesta — nera è la violenza di una
generazione di camerati il cui patto di sangue sopravvive alla fine della Prima Repubblica.
ROMA
PER transitare indenne nei trasformismi della Seconda. Nere sono le complicità e la forza
di ricatto su cui Massimo Carminati costruisce il proprio mito e la capacità di intimidazione.
Nera è l’antica obbedienza che lo annoda «a uomini delle forze dell’ordine e dei Servizi».
Nero è l’album di famiglia che consente «agli uomini dell’Associazione — scrive il gip
Flavia Costantini — di presentarsi ai propri interlocutori in una dimensione
“metaindividuale”. Semplicemente come “Noi”».
Sono la forza e la ferocia di questo vincolo, che rendono l’ex sindaco Alemanno organico a
un Sistema dove sul proscenio dei tre Mondi — di Sopra, di Mezzo, di Sotto — affacciano
uomini apparentemente diversi, ma al contrario maschere di una stessa rappresentazione.
Gli ex Nar Riccardo Brugia, Fabio Gaudenzi e Mario Corsi, il “colletto bianco” e già
avanguardista e rapinatore Riccardo Mancini, il “nazista” Gennaro Mokbel, il
commercialista Marco Iannilli, piuttosto che il consigliere regionale e figlio della tradizione
missina Gramazio junior, il già militante della Destra sociale e quindi “manager” a
comando in Enav e Technosky Fabrizio Testa, l’avvocato Pierpaolo Dell’Anno. Del resto,
«l’associazione ha una dimensione reticolare», scrive il gip. E infatti per prendersi Roma,
Carminati si fa ragno. In una tela, nei cui angoli si afferra in cosa declini il Nero di questa
mafia.
“DAMOJE ‘NA MARTELLATA”
Nel Mondo di Sotto, è violenza pura. Fisica. Il 30 maggio 2013, al poveretto che non ce
l’ha fatta a rispettare la scadenza di un prestito a strozzo, vengono spaccate diverse
costole. Lui piange al telefono: «M’avevate detto che non me toccavano...». La risposta è
lapidaria: «Quando uno picchia qualcuno è perché se vede che ha fatto quarcosa. Sennò,
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uno no ‘o picchiano ». Né va meglio al gioielliere che ha la pessima idea di vendere due
orologi di Riccardo Brugia, l’uomo che siede alla destra di Carminati, e ritardare la
consegna del denaro che ne ha ricavato. Accompagnato da Carminati, Brugia lo affronta.
«Ti ho cercato da tutte le parti, figlio mio... Fortunatamente stavi dentro al bar e non è
successo niente di quello che te doveva succedere» Il gioielliere si butta a pietà: «Tu hai
ragione. Mi dispiace perché io sto in torto...». Brugia lo interrompe. «Non me fa’ veni’ a
casa. Non me fa’ scomoda’.
Lo so, tu non c’hai i soldi per far la spesa, ma io che devo fa’?». Carminati, fin lì silenzioso,
dice la sua: «Non c’ha i soldi per fare la spesa.... Dio buono... che noia... C’ho il cuore
debole... non piangere». Quindi, abbandonando il disgraziato ai suoi incubi, decide il da
farsi: «Stavolta, je spaccamo la faccia», Ma Brugia ha un’idea migliore: «No, no. Jè do’
una martellata in testa».
IL SACRIFICIO DI MANCINI
Nel Mondo di Mezzo, spezzare le ossa non serve. La violenza è, per dirne una, il sacrificio
umano di Riccardo Mancini. Scrive il gip: «In occasione del suo arresto nel marzo 2013
per la vicenda Breda-Menarini, al fine di garantire condizioni di omertà, attraverso il
silenzio di costui, l’indagine è stata costantemente monitorata da Carminati,
essenzialmente attraverso l’avvocato Pierpaolo Dell’Anno (imposto a Mancini come
difensore, ndr) », che di fatto impedisce «fuori dal legittimo esercizio di diritti difensivi, che
Mancini eserciti liberamente i suoi diritti di indagato, al fine della tutela di interessi
dell’organizzazione ».
Già, Pierpaolo Dell’Anno. Figlio di Paolino Dell’Anno, già magistrato di Cassazione nel
collegio presieduto da Corrado Carnevale. Un altro frammento della storia avvelenata
degli anni in cui nel palazzo di giustizia di Roma comandava Claudio Vitalone e Massimo
Carminati (che con Vitalone fu coimputato nel processo Pecorelli) girava libero per la città.
Un tempo che l’andreottiano Vittorio Sbardella, ebbe a ricordare così di fronte alla
magistratura palermitana: «Vitalone ha sempre coltivato buoni rapporti con il presidente
Carnevale e con tanti altri magistrati amici della Corte di Cassazione, tra i quali posso
ricordare Paolino Dell’Anno, che è un uomo a lui molto legato ed anzi devoto. Paolino
Dell’Anno, peraltro, credo che sia stato sponsorizzato da Claudio Vitalone per il suo
trasferimento in Cassazione».
LA VOCE DI “MARIONE”.
C’è poi, lo sappiamo, il Mondo di Sopra . Dove conta altro. Magari avere una radio o un
giornale. Il 20 giugno 2013, subito dopo l’elezione di Marino, Carminati conversa con
Mario Corsi, che è il suo scendiletto dai tempi dei Nar (quando viene accusato
dell’omicidio degli studenti milanesi Fausto e Iaio). A Roma lo chiamano “Marione”, e, con
il tempo, si è costruito una singolare fama di giornalista radiofonico del tifo romanista. Ma
con il giornalismo, Corsi non ha nulla a che spartire. La Roma e il calcio sono una scusa.
La “ciccia” sono gli affari di Carminati.
Carminati : «Adesso si va a bussacchiare ».
Cors i: «Adesso è ora de tira’ le reti».
Carminati : «Gli si dice: “E che cazzo... Ora che abbiamo fatto questa cosa, che progetti
c’avete? Teneteci presenti per i progetti che c’avete, Che te serve? Che cosa posso fare?
Come posso guadagnare? Che te serve il movimento terra? Che ti attacco i manifesti?
Che ti pulisco il culo? Ecco, te lo faccio io. Perchè se poi vengo a sape’ che te lo fa un
altro, capito? Allora è una cosa sgradevole...».
LE CAMPAGNE DEL “TEMPO”
Nell’agenda di Carminati ci sono anche il quotidiano Il Tempo e il suo direttore Gianmarco
Chiocci. Si legge a pagina 919 dell’ordinanza: «Il 12 marzo 2014 sul Tempo viene
pubblicato un articolo dal titolo “Centro rifugiati bloccato dai Francesi. Palla al Tar” volto a
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promuovere da parte di Buzzi e Carminati una campagna mediatica favorevole al primo, al
“Consorzio Eriches 29”, che si era aggiudicato la gara d’appalto europea bandita dalla
Prefettura di Roma, nonostante l’esiguità del prezzo; ragione per la quale, in seguito al
ricorso proposto dalla francese Gepsa, il Tar aveva sospeso l’assegnazione».
La campagna del Tempo — argomenta il gip — «è volta a ingenerare dubbi
sull’imparzialità dell’autorità giudiziaria amministrativa » ed è «sollecitata anche
dall’intervento di Alemanno, che viene ringraziato da Buzzi». Ma c’è di più. «Carminati —
annota il gip — si era addirittura mosso di persona, incontrandosi, il 13 marzo 2014, con il
direttore del Tempo ».
del 04/12/14, pag. 1/35
Il darwinismo criminale
ALBERTO STATERA
MANAGER e killer, assessori e spacciatori, imprenditori e rapinatori, ministri e assassini.
Sì, assassini. Perché mentre fu data per scontata ma mai provata in giudizio la
partecipazione di Massimo Carminati all’omicidio Pecorelli, Salvatore Buzzi uccise una
prostituta.
FUcondannato e si fece ventiquattro anni a Rebibbia. Questo è l’uomo che circolava come
un padrone nei corridoi del Campidoglio e delle grandi società municipalizzate
dispensando ordini per conto dell’ottavo “re di Roma”, l’erede della banda della Magliana
Carminati, detto “er Guercio” o “er Cecato”. Assassino e anfitrione dell’ormai famosa cena
nella quale fu fotografato con Gianni Alemanno, un nugolo di reduci fascisti assurti
affamati al potere dopo lustri indelebili di emarginazione nell’eversione nera, con il
presidente della Lega delle Cooperative, oggi ministro, Giuliano Poletti, e buona parte del
centrosinistra romano. Colletti bianchi, camicie nere e fazzoletti rossi. Ma badate, non ha
più senso censire il colore politico, la tessera di partito, men che meno l’ideologia, in
questo sordido minestrone di delinquenza e affari, fatto di appalti, usura, droga, estorsioni,
armi, in una sinergia criminale — dalla strada dei plebei ai palazzi dei potenti — che fa
impallidire Scarface e la Chicago degli anni Venti e rimanda piuttosto al darwinismo
sociale di Cesare Lombroso. Il quale oggi, tralasciando le bozze occipitali, forse direbbe
che sì il delitto ha perduto la crudeltà dell’uomo primitivo, ma per sostituirvi quella
dell’avidità. La truffa gigantesca alle spalle dei gonzi è «garantita — come scriveva in Sui
recenti processi bancari di Roma e Parigi — coi nomi più altisonanti e più e più venerati se
non venerabili». Scorri i nomi degli arrestati e degli indagati nell’inchiesta sul “Mondo di
mezzo”, in cui tutto s’incontra e si mischia, e rabbrividisci per la quantità di pregiudicati
della banda che manovrava i fili dei burattini, politici e alti burocrati, li pagava o li
minacciava: terroristi dei Nar, cui furono attribuiti 33 omicidi, con precedenti per rapine in
banca come Riccardo Brugia, ex fidanzato di Anna Falchi considerato il capo del braccio
militare, o Fabio Gaudenzi, riciclatori di soldi sporchi. Molti di loro vengono dal Fungo
dell’Eur, dove tanti anni fa si riunivano, ma dopo lo sdoganamento della destra con l’era
Berlusconi si misero a loro agio nei palazzi e si trasferirono nei quartieri alti prediletti dal
“Cecato”, con le loro signore “mesciate”: Vigna Stelluti e i Parioli, vicini alla base logistica
nel distributore di benzina tra Corso Francia e via Flaminia Vecchia. Cerchi di collegare i
nomi alle decine di nomignoli con i quali si riconoscono tra loro — “er Cane”, “er
Cicorione”, “Kapplerino”, “Rommel”, “er Paletta”, “er Mandrillo” — e li immagini nel gazebo
del bar Vigna Stelluti, al Malibù, al bar Euclide, o — per gli incontri di più alto livello — da
Celestina ai Parioli, di cui risulta prestanome il commercialista del boss Marco Iannilli, e da
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Assunta Madre in via Giulia, formalmente di Gianni Micalusi, detto Johnny, accusato di
riciclaggio. Fu lì che, registrato dalle cimici sotto il tavolo, Alberto Dell’Utri studiava la
latitanza del gemello Marcello in base ai consigli di Gennaro Mokbel, il fascio adoratore di
Hitler che infeudò la Finmeccanica al tempo di Guarguaglini, insieme a Massimo
Carminati. Buzzi in un’intercettazione esulta: «Ma lo sai che mi dice Massimo? Lo sai
perché Massimo è intoccabile? Perché era lui che portava i soldi in Finmeccanica. Bustoni
di soldi! A tutti li ha portati Massimo».
Non solo neri, per carità, in questo canovaccio che conferma una verità ormai consolidata,
non solo a Roma, a Napoli, a Reggio Calabria, a Milano o a Venezia, ma in tutta l’Italia: la
politica è per pezzi interi al servizio della delinquenza e non viceversa, con l’esclusione
doverosa di quei tanti che la fanno perché veramente ci credono.
Strepitosa, nella sua funesta perversione, è la storia di Luca Odevaine, detto lo “Sceriffo”,
raccontata nei dettagli da Claudio Gatti sul Sole 2-4 Ore. In realtà, questo si chiamava
Odovaine, ma si è cambiato il nome con una “e” probabilmente per nascondere i suoi
precedenti da avanzo di galera. Iscritto da giovane alla sezione del Pci di Ponte Milvio, la
stessa dei Berlinguer, nel 1989 viene arrestato per stupefacenti e condannato a due anni e
nove mesi. Passa poco e viene di nuovo condannato per emissione di assegni a vuoto. Fa
il vice nel gabinetto del sindaco Walter Veltroni e poi con Nicola Zingaretti diventa capo
della Protezione civile e della polizia provinciale, da cui il nomignolo di “Sceriffo” per
confondere ulteriormente i mondi contigui delle guardie e dei ladri nel “Mondo di mezzo”.
L’ultima capriola dello “Sceriffo” è quella che ne fa il presidente della Fondazione
Integra/Azione, che si occupa di accoglienza dei profughi e degli immigrati, dove può far
felice il Buzzi, che nella “dimensione etica” dell’assistenza ai rifugiati con la cooperativa
“29 giugno” ha scoperto l’America: «Ma tu c’hai idea — dice in un’intercettazione — su
quanto guadagno con gli immigrati?». Decine di milioni, più che con la droga, come sa
Odevaine-Odovaine, che riceve 5mila euro al mese dall’ex carcerato Buzzi.
Ora è piuttosto chiaro che Gianni Alemanno, che non è un cuor di leone come sa chi era
presente quando lo “corcò” (così si dice a Roma) Gennaro Mokbel, dopo l’elezione a
sindaco si circondò per amore o per forza nei posti chiave degli antichi camerati
dell’eversione nera, che sapevano troppo di lui fin dai tempi in cui lanciava bombe carta e
chissà che altro. Ma siccome continuiamo a distinguere, non possiamo non chiederci
come è possibile che Veltroni e Zingaretti possano aver affidato ruoli così delicati a un
noto “sòla” — per stare ancora al linguaggio del Mondo di mezzo — di cui dai tempi del
Pci molti dovevano conoscere le gesta.
Ci vorrebbe un altro libro, che forse qualcuno sta già scrivendo, per raccontare le mille
storie di un network criminal-politico che sembra oscurare la Tammany Hall newyorkese di
Plunkitt, la lobby che fino agli anni Settanta sfornò i sindaci di New York basandosi, tra
l’altro, sull’assistenza agli immigrati irlandesi e sull’occupazione manu militari delle cariche
pubbliche. Ma c’è già quanto basta per certificare, attraverso le parole del capobanda
Carminati, il capestro steso da anni e anni sulla capitale d’Italia, che ha bruciato miliardi di
euro di risorse e innescato una tensione sociale che non si sa bene dove andrà a sfociare.
Le grandi municipalizzate ne sono state uno degli snodi, come provano le vicende
criminali di Franco Panzironi e Riccardo Mancini, i due alani da Alemanno che più che al
sindaco rispondevano al capobanda Carminati: sono “sottoposti”, ringhiava “er Cecato”, e
“gli imprenditori devono essere nostri esecutori, devono lavorare per noi”, perché sono loro
che li hanno messi nei posti dove si decide e si spende. Dell’anello debole della politica,
come lo ha chiamato ieri il commissario Anticorruzione Raffaele Cantone commentando i
dati di Transparency International che ci confermano il paese più corrotto d’Europa e tra i
più corrotti del mondo, il network del malaffare capitolino neanche parla, perché
l’asservimento totale è scontato.
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Un dubbio nasce ora che i magistrati hanno scoperchiato scientificamente il termitaio: non
sarà che la campagna della Panda Rossa contro il sindaco Ignazio Marino, fomentata a
destra e a sinistra, nasce nelle spire del Mondo di mezzo che non ha gradito qualche
altolà? Perché Marino non sarà il miglior sindaco possibile per la capitale d’Italia, è
alquanto gaffeur e certe volte sembra il cugino di Forrest Gump. Ma non è uomo di
malaffare.
del 04/12/14, pag. 3
Italia patria della corruzione
siamo il fanalino di coda della Ue
La classifica di Transparency International. I cittadini poco inclini a
denunciare: per sollecitarli nasce un servizio di "alert". Secondo il
procuratore Nordio si deve cambiare la legge Severino. La Cgil chiede
nuove regole su appalti, autoriciclaggio e falso in bilancio
E se vista la cronaca, avevamo bisogno di qualche dato a suffragio, ecco fatto: l’Italia è il
paese più corrotto in Europa. È quanto emerge dal ventesimo rapporto di Transparency
International sull’indice di corruzione percepita in 174 paesi del mondo. L’Italia si classifica
al 69° posto come nel 2013. Sullo stesso gradino troviamo la Romania, la Grecia e la
Bulgaria. I paesi meno corrotti sono Danimarca, Nuova Zelanda e Finlandia. All’ultimo
posto tra quelli meno virtuosi, la Somalia e Corea del Nord precedute da Sudan e
Afghanistan.
«L’Indice di percezione della corruzione (CPI) 2014 evidenzia come il nostro paese non
sia ancora riuscito a intraprendere la strada giusta per il suo riscatto etico — spiega
Virgilio Carnevali, presidente di Transparency International Italia — Non possiamo restare
fermi a guardare ancora per molto, mentre invece altri paesi fanno progressi».
In occasione della pubblicazione dello studio, ieri è stato presentato anche un nuovo
servizio: si chiama «Allerta Anticorruzione» (Alac), ed è indirizzato a «tutti coloro che
vogliono segnalare un caso di corruzione ma sono spaventati o sfiduciati dalle istituzioni».
L’Alac è stato presentato da Transparency insieme a Raffaele Cantone, presidente
dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, Ferruccio Dardanello, presidente di Unioncamere, e
Marcella Panucci, direttore generale di Confindustria. Secondo i dati del Barometro
Globale della Corruzione 2013, solo il 56% degli italiani è disposto a segnalare un episodio
di corruzione, rispetto alla media globale del 69%. I motivi che spingono a rimanere in
silenzio sono soprattutto la paura, la sfiducia e la triste convinzione che nulla può
cambiare.
«La corruzione è alimentata dall’eccessiva e inutile burocrazia», spiega il presidente di
Unioncamere Ferruccio Dardanello, secondo il quale «occorrono azioni volte a
semplificare il rapporto tra Pubblica Amministrazione e impresa». Inoltre, «è indispensabile
aumentare i grado di consapevolezza del fenomeno e fornire agli imprenditori degli
strumenti semplici per prevenirlo».
Secondo Marcella Pannucci, dg di Confindustria, «resta ancora tanto da fare per rafforzare
le politiche di contrasto alla corruzione». Per questo, «Confindustria ha posto il tema tra le
sue priorità e sta portando avanti un’intensa attività di analisi e di proposta per contribuire
a un’azione anticorruzione corale. Il tutto nella consapevolezza che anche il sistema delle
imprese deve fare la sua parte e assumersi la responsabilità».
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Secondo Carlo Nordio, procuratore aggiunto di Venezia, «serve una revisione della legge
Severino per quanto concerne il reato di corruzione». «Lo strumento della repressione
penale serve a poco per combattere la corruzione — ha aggiunto — Serve punire la
concussione: per avere uno strumento tecnicamente efficace non conviene fare di chi
paga le mazzette un indagato ma piuttosto un testimone. In questo modo il soggetto
sarebbe costretto a dire la verità. Per Nordio quindi «serve esattamente il contrario di ciò
che ha fatto la legge Severino».
E di necessità di cambiare le leggi parla anche la Cgil: secondo la segretaria confederale
Gianna Fracassi, la corruzione «affligge in maniera endemica il nostro sistema economico,
sottrae risorse allo Stato contribuendo ad aumentare la povertà e peggiorando la qualità
dei servizi».
«Solo partendo dalla legalità economica e dal lavoro il Paese può riprendere la strada
dello sviluppo. Per questo la Cgil — ricorda la dirigente sindacale — è impegnata nella
campagna nazionale “Legalità, una svolta per tutte”, che sta attraversando la penisola per
chiedere alle istituzioni, governo in primis, atti concreti». «E’ tempo di mettere da parte
spot e tentennamenti — conclude Fracassi — Rinnoviamo le richieste della Cgil
all’esecutivo: introdurre il reato di autoriciclaggio, ripenalizzare il falso in bilancio,
modificare la legge sugli appalti e i termini di prescrizione nel processo penale».
del 04/12/14, pag. 15
Così il governo dimentica la lotta alla
corruzione
Massimo Villone
Questione immorale. E' necessario un intervento legislativo. Ma il
governo si affatica su leggi che entreranno in vigore tra due anni
L’ultima tabella di marcia di Renzi ci dice: Italicum subito, ma vigente dal 2016, elezioni nel
2018. È davvero curioso. Il nuovismo imperante ha vituperato i bizantinismi della vecchia
politica. Ma i nuovi nemmeno scherzano. Una legge da approvare a tambur battente, ma a
vigenza differita, per una prima applicazione a quasi quattro anni da oggi. Che senso ha?
Perché non dare priorità, tempo ed energie a qualche problema più impellente?
Ad esempio, alla corruzione. Si scopre a Roma una palude maleodorante di malaffare. In
casi del genere, oltre ad esprimere il rituale auspicio che la magistratura proceda bene e in
fretta, bisogna in realtà porsi alcune domande. Quanti sapevano e non hanno parlato?
Quanti avrebbero potuto o dovuto, per obbligo giuridico o politico, segnalare la cosa a un
superiore gerarchico, a un responsabile amministrativo o di partito, a un magistrato, e
hanno preferito non farlo? Quanti sospettavano e hanno preferito non vedere e non
sentire? Quanti, anche tra gli eroi che piacciono a Renzi, hanno preferito pensare ai propri
affari e subire piuttosto che denunciare?
Certamente, una folla. Non tutti complici in senso tecnico. Ma accomunati nell’omertà,
nell’indifferenza, nella scelta del quieto vivere e della personale tranquillità. Il male italiano,
che si traduce in un progressivo dissolvimento dell’etica pubblica, del controllo sociale e
della responsabilità politica, è anzitutto nel non ammettere che la corruzione è una delle
vere emergenze del paese, e che non si fa abbastanza per combatterla. Anzi, non manca
chi dice che è una invenzione di magistrati in cerca di notorietà, o una torsione mentale di
pochi grilli parlanti.
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È significativo che nell’ultimo consiglio dei ministri il punto della prescrizione abbia subito
l’ennesimo rinvio. La prescrizione sfuma nelle nebbie della riforma complessiva del
processo penale, incerta nell’an e nel quando. Eppure anche l’Europa ci chiede, e non da
ora, di intervenire, essendo la probabile impunità il più forte incentivo dei fenomeni
corruttivi. Come mai ci viene ricordato – invero a sproposito — che l’Europa ci chiede la
responsabilità dei magistrati, dimenticando invece la sollecitazione europea sulla
prescrizione? Da ultimo, per la sconvolgente sentenza Eternit, Renzi aveva
baldanzosamente dichiarato: «Mai più». Sono bastate poche ore a rimettere i buoni
propositi nel cassetto. Il punto è, come ben sappiamo, che nella traballante architettura
della maggioranza di governo c’è chi – Ncd – storce il naso. E nella parimenti traballante
architettura della maggioranza riformatrice c’è chi – Berlusconi in primis — ha sulla
prescrizione una sensibilità acutissima. Non si sa mai.
Quanto alla prevenzione, qualche passo avanti l’ha fatto l’Autorità anticorruzione,
chiarendo, con la delibera 144/2014 del 20 ottobre scorso, che gli obblighi di trasparenza
quanto agli emolumenti riguardano tutti gli organi di indirizzo politico di tutti gli enti pubblici
non territoriali nazionali, regionali o locali, comunque denominati, istituiti, vigilati, finanziati
dalla pubblica amministrazione che conferisce l’incarico, ovvero i cui amministratori siano
da questa nominati. Ma è significativo il fatto che la delibera vada a sostituire una
precedente sul medesimo oggetto, il cui fondamento legislativo risale al 2013. La richiesta
era stata sepolta dalle richieste di chiarimento delle amministrazioni interessate.
Le resistenze sono grandi, e probabilmente non cesseranno. La stampa riporta che nella
stessa Autorità è stata espressa una contrarietà per il dubbio che la delibera potesse
favorire un «voyeurismo» amministrativo. Il che dimostra l’inconsapevolezza culturale
dell’emergenza in cui il paese vive per la corruzione, e della impellente necessità di
provvedere.
Ma non basta un’Autorità, per quanto interventista. Bisogna arrivare a un cambio, quello
sì, epocale della P.A., che deve essere portata al principio della visibilità di ogni dato
piuttosto che della riservatezza e del segreto d’ufficio. Ora il principio di base è — con
eccezioni — che gli atti siano accessibili per gli interessati. E chi se ne occupa sa come
talvolta sia anche per loro di fatto difficile. Bisogna puntare alla visibilità per tutti, perché
può capitare che gli interessati non vogliano – e questo esattamente accade quando c’è
corruzione – che altri sappiano. La trasparenza in una cerchia ristretta non basta. Inoltre,
bisogna incoraggiare chi sa a parlare, garantendo contro i rischi personali e di carriera. Chi
dà l’allarme – il whistleblower – non è un delatore, ma persona pensosa del bene comune.
Per tutto questo è necessario un intervento legislativo.
Se qualcuno volesse rivoltare il paese come un calzino e rimetterlo in corsa troverebbe qui
un terreno primario di intervento. Invece, noi lietamente ci affatichiamo su leggi che
entreranno in vigore tra due anni e si applicheranno tra quattro. Il tutto per un groviglio
perverso con un senato riformato che si vuole imbottire di personaggi del calibro di quelli
che hanno dato luogo alla peste romana. Non ci meravigliamo, poi, se nel Corruption
Perception Index 2014 di Transparency International siamo al 69° posto, alla pari con
Senegal e Swaziland, e battendo valorosamente il Montenegro. Evviva il nuovo che
avanza.
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 04/12/14, pag. 5
L’affare-zingari vale 24 milioni ogni anno
IL BUSINESS DELL’EMERGENZA PROFUGHI. E GLI STRANIERI
CACCIATI DALLA RIVOLTA DI TOR SAPIENZA SONO FINITI IN UN
CENTRO LEGATO ALLE SOCIETÀ SOTTO INCHIESTA
di Silvia D’Onghia
Ventiquattro milioni di euro in un anno per 4.400 persone. Il business dei rom a Roma
vanta cifre da capogiro. A fare i conti, per il 2013, è stata l’Associazione 21 luglio, che nel
dossier “Campi nomadi spa” ha calcolato quanti soldi entrano nelle tasche delle coop che
lavorano “sui zingari”, come direbbe Salvatore Buzzi, e delle municipalizzate che
avrebbero il compito della sicurezza e della pulizia. Avrebbero, perché basta farsi un giro
nel “villaggio della solidarietà” – così li hanno chiamati, peccato che la solidarietà si sia
persa per strada – per essere travolti da cumuli di immondizia e da colonie di topi.
Nessuno pulisce, men che meno l’Ama (la municipalizzata del Campidoglio), e nessuno
vigila, perché le guardianie non esistono e le telecamere sono rotte.
PRENDIAMO il campo di Castel Romano, quello per cui le coop che fanno capo a Buzzi –
e quindi a Carminati –pretendo - no il pagamento di oltre 2 milioni di euro annui dal
Comune. Il campo, in cui vivono circa 900 persone, costa 5,3 milioni l’anno. Di questi, 2
milioni servono alla gestione ordinaria, affidata – appunto – al consorzio Eriches 29.
All’interno manca l’acqua potabile –le condutture non possono essere fatte perché l’area è
sottoposta a vincolo –, e gli abitanti restano spesso senza corrente. L’associazione 21
luglio ha calcolato che, dal giorno dell’inaugurazione, Castel Romano è costato
all'amministrazione 270 mila euro a famiglia. Il campo della Barbuta, inaugurato nel 2012,
è costato invece 10 milioni di euro, e nel 2013 il Comune ha dovuto tirar fuori 1,7 milioni
per la sola manutenzione. L’Ama ha intascato 160mila euro, ma – come ha spiegato un
servizio di Piazza - pulita – “passa una volta al mese per la sola pulizia straordinaria”.
Infatti gli abitanti vivono tra la “mondezza” e l’amianto. Per il villaggio di Candoni, 820
abitanti e 2,3 milioni spesi nel 2013, sono andati 756 mila euro a Risorse per Roma –la
spa partecipata di Roma Capitale –, 230 mila all’Ama e 86 mila alla cooperativa 29 giugno
per la bonifica fognaria. Tutto, per tutti i campi, ad appalto diretto, tranne la
scolarizzazione, unica voce per cui è previsto un bando.
LA MUSICA non cambia se si parla di profughi. Nel 2012, la direttiva del Viminale stabiliva
un rimborso di 46 euro a persona al giorno (40 per vitto e alloggio e 6 per l'assistenza).
Save the Children ha denunciato però che nelle 14 strutture controllate a Roma, otto delle
quali gestite dalla coop Domus Caritatis, arrivano rimborsi di 80 euro al giorno per
l’accoglienza di minori stranieri non accompagnati. La Domus Caritatis è un nome che non
torna direttamente nelle carte dell’inchiesta sulla mafia capitale, ma che fa parte del
consorzio “Casa della solidarietà” di Tiziano Zuccolo, colui cioè che, parlando al telefono
con Buzzi, gli chiede: “Noi l’accordo... l’accordo è quello al cinquanta, no?”. E la Domus
Caritatis è anche la coop che gestisce il centro di via Salorno, all’Infernetto, dove sono
stati portati i rifugiati sgomberati da Tor Sapienza, il quartiere in cui –poche settimane fa –
è scoppiata la rivolta. Ancora una volta, a beneficiare degli immigrati è stato uno dei
componenti dell’accordo al cinquanta. Ulteriore capitolo, non meno remunerativo, è quello
dell’emergenza abitativa, per la quale le cooperative si danno tanto da fare. Secondo una
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stima approssimativa, il Campidoglio spende 30 milioni di euro l’anno per l’affitto di
immobili da destinare alle famiglie senza casa. Per locazione e gestione, si va da un
minimo di 1.200 euro al mese a un massimo di 3.500 (nel popolare quartiere di Pietralata,
non ai Parioli). A portare a casa gran parte del guadagno è l’Arciconfraternita San Trifone,
che per una sola palazzina intasca oltre 800mila euro e che – dal Giubileo in poi – ha
gestito tra l’altro il centro polifunzionale Enea: 400 profughi per 55 euro al giorno pro
capite. Un fatturato medio totale di 20 milioni annui. Sotto l’Arciconfraternita gravita,
neanche a dirlo, la stessa Domus Caritatis.
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BENI COMUNI/AMBIENTE
del 04/12/14, pag. 34
LA GIUSTIZIA è AGRICOLA
Un miliardo soffre ancora la fame per sconfiggere le diseguaglianze
servono ecologia e biodiversità
La Rivoluzione Verde, termine coniato per indicare un processo basato sull’innovazione
tecnologica applicata all’agricoltura il cui inizio si fa risalire alla seconda metà degli Anni
40, ha mostrato nel lungo periodo i suoi fallimenti. Le stime delle Nazioni Unite, infatti,
mostrano che oggi ancora una persona su otto soffre la fame, e, nonostante le statistiche
in questo senso mostrino un considerevole miglioramento dai primi Anni 90, si tratta
ancora di un livello inaccettabile.
La promessa di avere cibo sicuro, abbondante e nutrizionalmente adeguato per tutti,
quindi, è stata disattesa. Tale fallimento, evidente a decenni di distanza dall’avvio del
processo di innovazione che avrebbe dovuto affrancare l’umanità dalla fame, è nelle
assunzioni sulle quali è stato basato, secondo cui abbondanti risorse idriche ed energia a
basso costo sarebbero sempre state disponibili a supportare l’agricoltura moderna nel
quadro di un clima stabile.
I dati sullo stato dell’agricoltura mondiale mostrano invece criticità nuove, con cui il settore
agricolo non si era ancora misurato. In alcune delle maggiori aree a vocazione cerealicola
il tasso di incremento delle rese delle colture sta diminuendo sensibilmente, in quanto si è
ormai quasi raggiunto il limite della massima resa ottenibile. I sistemi agricoli sono
profondamente cambiati nella loro struttura e, principalmente a causa della mancanza di
meccanismi di regolazione ecologica, le monocolture basate su una alta dipendenza
dall’utilizzo di pesticidi hanno preso il sopravvento. L’impiego di sostanze chimiche negli
ultimi 50 anni è aumentato in maniera drastica fino a raggiungere le 2,6 milioni di
tonnellate all’anno, con un giro di affari su scala globale pari a oltre 25 miliardi di dollari
americani.
Tornando ai numeri della fame mondiale di cui si è accennato, è importante riflettere sul
fatto che quel miliardo di persone che ancora non ha accesso a cibo in quantità e qualità
sufficiente per condurre una vita sana e attiva, non è in realtà legato a una mancanza di
risorse. Globalmente, infatti, viene già prodotto cibo in quantità sufficiente da sfamare tra i
nove e i dieci miliardi di persone, cifra che corrisponde al picco di popolazione previsto per
il 2050. Il vero problema alla base di una ancora così ampia diffusione della fame nel
mondo è la congiunzione di povertà e ineguaglianza che colpisce una porzione assai
ampia della popolazione mondiale.
Appare quindi evidente e necessario che l’umanità elabori un nuovo e alternativo
paradigma di sviluppo agricolo che promuova fortemente dei sistemi produttivi che siano
ecologicamente fondati, altamente biodiversi, più resilienti e sostenibili, e inseriti in un
quadro di maggiore giustizia sociale. La base per questi nuovi sistemi è tutt’altro che
teorica e si ritrova nella miriade di sistemi agricoli fondati sui principi dell’ecologia realizzati
e perpetrati da almeno il 75% degli 1,5 miliardi di piccoli proprietari terrieri, aziende a
conduzione familiare e popolazioni indigene sparsi per il mondo. Il loro contributo alla
produzione agricola mondiale è di inestimabile valore: nelle circa 350 milioni di piccole
unità produttive che coltivano, producono non meno del 50% della produzione globale
destinata al consumo domestico.
Da questi sistemi produttivi l’agroecologia trae il suo fondamento. L’agroecologia si basa
su principi propri dell’ecologia che vengono applicati nella gestione sostenibile degli
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agroecosistemi attraverso la sostituzione degli input esterni con i processi che
naturalmente alimentano un agroecosistema, quali, per dire, la fertilità del suolo e il
controllo biologico delle specie che vi coabitano.
Motore di questo profondo cambiamento che l’agricoltura moderna dovrà intraprendere
sono quindi i sistemi che traspongono nella pratica quella ricca e variegata conoscenza
tradizionale basata su una profonda integrazione con l’ambiente. Determinante è stato il
mantenimento di un’ampia diversità genetica e tecnica che ha consentito negli anni di
costruire e mantenere sistemi stabili nel tempo. È soprattutto nei Paesi in via di sviluppo
che risiede la maggior parte della popolazione contadina indigena depositaria di questo
sapere. Dunque è proprio il Sud del mondo a detenere il maggiore potenziale
agroecologico per produrre abbastanza cibo a livello globale procapite non solo per
sfamare l’attuale popolazione, ma anche quella dei prossimi decenni.
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CULTURA E SCUOLA
del 04/12/14, pag. 19
ROMA, UNA PETIZIONE CHIEDE LE SUE DIMISSIONI: RACCOLTE
QUASI 500 ADESIONI DI PROF E PRESIDI IN 24 ORE
Scuole occupate, rivolta contro il
sottosegretario
Sit-in davanti al Miur, i dirigenti scolastici del liceo Tasso attaccano
Faraone: ªHa incitato all’illegalitàº
Flavia Amabile
Una preside davanti al Miur, un’associazione di dirigenti toscani che ha organizzato una
petizione per chiedere le dimissioni del sottosegretario all’Istruzione Davide Faraone,
l’Associazione Nazionale Presidi fortemente e pubblicamente contraria: la lettera inviata
dal sottosegretario all’Istruzione Davide Faraone alla Stampa per mostrare il volto positivo
delle occupazioni ha davvero scatenato un profondo dibattito nel mondo della scuola. Il
sottosegretario ha al suo fianco in questa battaglia la Flc-Cgil e gli studenti che lo
aspettano a braccia aperte negli istituti occupati ma si ritrova anche una numerosa schiera
di contrari. Maria Letizia Terrinoni, dirigente del Tasso, un liceo classico storico, quello
dove hanno studiato politici come Walter Veltroni o Ignazio Marino, ha l’istituto occupato
da due giorni, una decisione presa lo stesso giorno della pubblicazione della lettera. «In un
Paese che ha un evidente problema di legalità, la presa di posizione del sottosegretario
Faraone è stata francamente troppo». E, quindi, ha organizzato un sit-in e ha anche
chiesto un incontro al sottosegretario. Faraone si era detto disponibile: «Li incontrerò
volentieri, sarò lieto di confrontarmi con loro», aveva assicurato. Ma è sorto un
contrattempo, la delegazione del Tasso è stata ricevuta da un collaboratore del
sottosegretario ed è rimasta molto delusa. Un incontro «inconcludente, un dialogo fra
sordi», è stato il commento all’uscita. «Abbiamo provato a fargli capire che occupare le
scuole è illegale, che non c’è nulla di democratico e che non crediamo che la classe
politica si debba formare in questo modo ma che esistono altri strumenti sempre all’interno
della scuola per formare una coscienza democratica, politica e civile ma siamo rimasti
un’ora e mezza a parlare inutilmente», spiega Patrizia Concetti, docente del liceo. «Ho 23
anni di esperienza nella scuola - aggiunge Maria Letizia Terrinoni, dirigente del liceo - È
possibile che ogni anno sia la stessa storia? Sempre a novembre, sempre e solo un
piccolo gruppo che tiene in ostaggio la maggioranza. Sono venuta qui a chiedere un
intervento: da parte delle istituzioni ci aspettiamo che si difenda la legalità non che si
vanifichino tutti i nostri sforzi di spiegare che le leggi vanno rispettate. Occupare significa
impedire il diritto allo studio per circa 2mila studenti, i nostri e quelli del liceo Righi che è
nella stessa area, e impedire a 300 persone di lavorare». Ha preso le distanze da Davide
Faraone anche l’altro sottosegretario del Miur, Gabriele Toccafondi. «Degli anni delle
occupazioni ho un ricordo negativo. Ho finito la scuola negli anni della Pantera e allora
c’erano minoranze violente che non facevano parlare chi non era d’accordo con loro». Nel
frattempo sta girando una petizione lanciata dal Gruppo di Firenze, un’associazione di
dirigenti toscani. «Chiediamo le dimissioni del sottosegretario che ha elogiato le
occupazioni studentesche per grave inadeguatezza del suo ruolo istituzionale», è scritto
nel documento. Nelle prime 24 ore ha raccolto quasi cinquecento adesioni di prof e presidi
di tutt’Italia
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ECONOMIA E LAVORO
del 04/12/14, pag. 1/14
Piano Bce: sì ai titoli di Stato ma il rischio
resta nazionale mossa per convincere i
tedeschi
Eurotower studia nuove misure per fronteggiare deflazione e
stagnazione Le banche centrali eviteranno che il peso del debito si
sposti tra i Paesi
FEDERICO FUBINI
ROMA .
Quando stamani alla Bce si riunisce il consiglio direttivo, i 22 uomini e le due donne in
quella sala a Francoforte avranno a disposizione un paio di indizi nuovi. Entrambi
dovrebbero lampeggiare nelle loro teste come altrettante spie d’allarme. Il primo riguarda il
bilancio della banca centrale, il secondo la ragione stessa per la quale essa fu creata
sedici anni fa: governare l’inflazione nell’interesse dei cittadini.
Ormai molti analisti, anche di banche globali come Barclays e Nomura, prevedono un
evento che nessuno aveva messo in conto quando l’architettura dell’euro fu messa a
punto vent’anni fa. Non fu disegnata per fronteggiare uno scenario del genere: tra questo
e il prossimo mese l’inflazione di Eurolandia può andare a zero e poi anche sotto. La
disoccupazione, la battuta d’arresto della ripresa e ora soprattutto il crollo dei prezzi del
petrolio portano l’indice generale sempre più lontano dell’obiettivo della Bce, attorno al 2%.
Ma più i prezzi calano, più salgono gli interessi da pagare in termini reali per chi ha debiti,
mentre buona parte dell’area euro rischia si avvitarsi in una spirale di investimenti e
consumi bloccati in attesa di tempi migliori o, domani, di nuovi sconti. Due mesi fa la Bce
ha fatto sapere che reagirà. Lo farà cercando di ampliare il proprio bilancio di circa mille
miliardi, portandolo da due a tremila, immettendo cioè nell’economia il 30% di moneta in
più. Attraverso molti canali diversi, più denaro in circolazione per comprare una uguale
quantità di prodotti dovrebbe generare un po’ d’inflazione. Qui però lampeggia la seconda
spia d’allarme per l’Eurotower: per ora non sta riuscendo a espandere il proprio bilancio,
che anzi tende a contrarsi. Due giorni fa era di 2053 miliardi, inchiodato allo stesso livello
di uno, due e tre mesi fa; rispetto all’inizio dell’estate scorsa c’è stata addirittura una
contrazione di quasi 200 miliardi, una tendenza che provoca probabili (piccoli) effetti
negativi sui prezzi.
I nuovi ingranaggi innescati dall’Eurotower per creare moneta avuto una partenza lenta.
L’interesse delle banche nei nuovi prestiti a lungo termine è ridotto. Anche gli acquisti di
pacchetti di prestiti super- sicuri e di bond garantiti, in teoria per centinaia di miliardi,
procede a fatica: in alcune economie di Eurolandia (Italia inclusa) esistono ben pochi titoli
di quel tipo sui mercati.
Salvo svolte improvvise, tra non molto diventerà chiaro a tutto il consiglio direttivo della
Bce che esiste un solo modo per immettere mille miliardi in più nell’economia: comprare
almeno 500 miliardi in titoli di Stato dei vari Paesi del club, mentre il resto verrebbe dalle
misure già varate sui titoli privati e le aste di liquidità. Visto il peso dell’Italia nell’area euro,
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per la Bce ciò significa prepararsi a comprare fra gli 80 e i 90 miliardi in Btp emessi dal
Tesoro di Roma.
È di fronte a una prospettiva del genere che nasce la resistenza della Bundesbank ma,
adesso, anche per superarla. In Germania la banca centrale e l’opinione pubblica rifiutano
di farsi carico del rischio-Italia attraverso il bilancio della Bce. La Bundesbank è azionista
dell’Eurotower al 30% e le spetterebbe dunque un terzo di tutte le perdite sui titoli comprati
da quest’ultima nel caso (ipotetico) di un default dell’Italia sul proprio debito. A sua volta la
Bundesbank poi retrocederebbe le perdite al proprio governo e al contribuente tedesco.
In questa fase a Francoforte si lavora a un’idea per aggirare quest’obiezione: in caso di
acquisti di titoli di Stato da parte della Bce, il rischio si finirebbe solo sulle banche centrali
nazionali per i bond emessi da ciascun Paese. In caso di mancato rimborso sui Btp italiani
le perdite andrebbero solo alla Banca d’Italia, per i Bund tedeschi alla Bundesbank e così
via. Così verrebbe meno il motivo più radicato di contrarietà della Bundesbank: i tedeschi
non sarebbero più esposti al rischio di trasferimenti del loro denaro verso altri Paesi.
Non è chiaro se questa sarà la strada scelta dalla Bce, ma l’ipotesi è attivamente allo
studio. Esiste un precedente, perché alcuni dei primi interventi della Bce per la Grecia nel
2010 furono decisi sulla base di un accordo simile. Allora rimase segreto e neanche
questo accordo dovrebbe essere reso noto. Presto però potrebbero non esserci
alternative: un’inflazione di segno negativo in inverno, o lo stallo dell’espansione del
bilancio in primavera, rischiano di costringere la Bce a reagire prima di quanto essa stessa
calcolasse.
del 04/12/14, pag. 5
I tedeschi chiudono la Trw, 550 operai a casa
Riccardo Chiari
La multinazionale dell'auto rompe il tavolo delle trattative e annuncia la
cessazione delle attività alla fine dell'anno. La società dice no anche ai
contratti di solidarietà. Il governo prende atto. Proteste Fiom
In confronto, la vertenza dell’Ast di Terni sembra uno zuccherino. Perché dopo averlo
annunciato in lungo e in largo, Trw ha confermato anche al Mise di voler chiudere il suo
stabilimento livornese a fine anno. Per poi smantellare i macchinari nei primi mesi del
2015, e lasciare al loro destino i 500 fra addetti diretti e dell’indotto della storica fabbrica di
componentistica auto. «Non apprezzo la rigidità con cui Trw sta affrontando la vertenza»,
fa sapere il viceministro Claudio De Vincenti. Presa di posizione che sarebbe anche
lodevole. Se non fosse che il governo non ha altre idee, se non quella di prolungare
l’agonia della fabbrica per soli sei mesi.
Testimone diretto dell’inutile (se non dannoso) incontro al ministero, Michele De Palma
riepiloga la situazione: «Una multinazionale decide di chiudere uno stabilimento, e i
lavoratori in sciopero da più di un mese conquistano un tavolo di negoziato con il governo.
Ma la Trw dice di no al governo sulla presenza del board americano. Dice di no a togliere
dal tavolo la chiusura. Dice di no ai contratti di solidarietà per un anno. Infine il governo
propone sei mesi di contratto di solidarietà, e l’azienda prende tempo. E’ dura combattere
così».
All’amara riflessione del giovane dirigente Fiom, si accoppia la sacrosanta incavolatura
della Rsu: «Il governo non ci ha dato una mano nella trattativa – racconta Alessandro
Brusadin a nome di Fiom, Fim e Uilm — anzi a un certo punto è stato destabilizzante: ha
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preso atto del no dell’azienda ad andare avanti con la produzione almeno per un altro
anno o per dieci mesi, come avevano chiesto i sindacati, e ha proposto unilateralmente di
proseguire l’attività per sei mesi. Abbiamo risposto che sei mesi non bastano certo per
trovare alternative. Alla fine poi la discussione sugli incentivi ha preso anche un profilo più
basso».
Sul verbale della riunione al ministero dello sviluppo economico c’è annotato che la
multinazionale Usa, recentemente ceduta ai tedeschi di Zf, non è disposta a mettere più di
23 milioni di euro per gli «incentivi all’esodo». Tre milioni in più rispetto all’offerta iniziale,
ma è un limite che Trw considera invalicabile. «Se si considera anche il 23% che ogni
operaio dovrà lasciare allo Stato con questa tassazione – tira le somme Brusadin — fanno
meno di 50mila euro netti ad operaio. Noi abbiamo rifiutato, e chiesto una volta ancora di
far continuare la produzione almeno per un altro anno. Chiedendo al tempo stesso di
alzare a 31 milioni gli incentivi». Risultato: riunione chiusa bruscamente – dopo 18 ore
ininterrotte di discussione — e conferma di Trw della chiusura a fine mese dello
stabilimento labronico. Per far passare in allegria le feste natalizie…
Oggi sindacati e azienda dovrebbero incontrarsi di nuovo. Ma conferme non ce ne sono.
Comunque Luciano Gabrielli insiste: «La richiesta di proseguire l’attività — spiega il
segretario della Fiom livornese — nasce perché Trw deve assumersi la responsabilità
sociale nei confronti del territorio, dando la possibilità agli operai di stare in piedi. Mentre al
ministero le istituzioni locali e i sindacati stanno costruendo un accordo di programma per
l’area industriale livornese». In gravissima crisi, non certo da oggi, anche perché è (stata)
uno dei poli nazionali della componentistica auto. Su questo settore, di un comparto
strategico per l’industria italiana, tira le somme Maurizio Landini: «Sull’auto e la mobilità
stiamo pagando il fatto che non c’è una politica industriale degna di questo nome. Quindi
siamo di fronte al fatto che la Fiat in quanto tale non esiste più ma ci sono due gruppi
diversi che hanno sedi diverse, e tutto il settore della componentistica sta pagando un
prezzo molto pesante. Se Fca fa davvero quello che ha detto e il progetto si realizza, non
si parla più di un milione e 400mila auto prodotte in Italia, ma si arriva appena a 700 mila.
E si ha un ridimensionamento della componentistica». Con gli effetti che a Livorno
possono già raccontare gli operai ex Delphi. Vittime di una autentica via crucis, che gli
operai Trw non hanno alcuna intenzione di provare sulla loro pelle.
del 04/12/14, pag. 5
Ilva, la nazionalizzazione è «una possibilità»
Gianmario Leone
Acciaio. Vertice a palazzo Chigi con Renzi. Il ministro Guidi:
«Valuteremo tutte le opzioni». Stato di agitazione negli stabilimenti di
Taranto e Genova
«Abbiamo fatto una ricognizione della situazione e valutata la possibilità di un intervento
pubblico». Queste le prime parole del commissario dell’Ilva Piero Gnudi al termine dalla
riunione a Palazzo Chigi, che si è svolta nella serata di ieri e alla quale hanno partecipato
il premier Renzi, il ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi e il sottosegretario
alla presidenza Graziano Delrio. «Stiamo valutando varie ipotesi di soluzione, la strada è
ancora da delineare», ha tenuto a precisare Gnudi. Tra le varie ipotesi allo studio del
dossier Ilva, come confermato da Gnudi, ci sarebbe la richiesta di un finanziamento della
Banca Europea degli Investimenti (Bei): «Se noi chiediamo un finanziamento e forniamo le
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adeguate garanzie, — ha detto Gnudi — non vedo perché non dovrebbe concederlo». Il
problema, al momento, resta però quali garanzie offrire vista la delicatissima situazione
finanziaria dell’azienda.
«Faremo di tutto, valutando tutte le possibili opzioni e soluzioni per garantire prima di tutto
un futuro occupazionale e produttivo a quell’azienda», ha dichiarato il ministro Guidi. «La
siderurgia — sottolinea Guidi — è importantissima per il nostro Paese. Stiamo facendo di
tutto per difendere in primis i posti di lavoro e poi l’integrità degli stabilimenti produttivi. La
siderurgia ha un valore strategico non solo per le singole aziende coinvolte ma per
moltissime altre filiere produttive del Paese». Con ArcelorMittal, rileva ancora il ministro,
«c’è una trattativa in corso. Ci sono anche altri investitori industriali privati interessati.
Credo che sia corretto che il governo contempli qualunque soluzione possa essere la
migliore, la più utile per tutelare in primis l’occupazione e l’integrità e la capacità
produttiva». Più sibillino il premier Renzi, che nel pomeriggio durante il question time alla
Camera, si era limitato a confermare la ricerca di «tutti i tipi di soluzione, dalla possibilità di
investimenti privati nazionali e internazionali, ma anche un intervento pubblico, per un
certo periodo di tempo, che consenta» all’azienda «di affrontare le questioni ambientali e
poi di tornare sul mercato per essere nuovamente leader in Europa», ha spiegato il
premier.
Intanto, sia a Taranto che a Genova i sindacati metalmeccanici hanno proclamato lo stato
di agitazione. Nonostante l’azienda abbia confermato per il 12 dicembre il pagamento degli
stipendi e del premio di produzione trimestrale, ed entro il 24 la retribuzione delle
tredicesime.
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