RASSEGNA STAMPA mercoledì 26 novembre 2014 L’ARCI SUI MEDIA INTERESSE ASSOCIAZIONE ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SCUOLA ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA del 26/11/14, pag. 3 Lo “sciopero del voto” è partito dalla piazza Cgil IL 16 OTTOBRE BOLOGNA SI È FERMATA PER LA PROTESTA GENERALE. QUEL GIORNO S’È ROTTO IL RAPPORTO TRA ELETTORI E PD. TRA GLI ASTENUTI MOLTI SONO ANZIANI di Salvatore Cannavò La storia del progressivo distacco tra il Pd di Matteo Renzi e il suo elettorato inizia il 16 ottobre. Quel giorno Bologna si ferma e più di 20 mila persone scendono in piazza per partecipare allo sciopero generale della Cgil. Vincenzo Colla, segretario regionale Cgil, dice dal palco che “una cosa così non si vedeva da anni”. Accanto a lui, da Roma, è arrivata Carla Cantone, emiliana, segretario generale dello Spi-Cgil, i pensionati. Quel giorno si è rotto qualcosa e oggi, con l’indebolimento in Parlamento, la fuga di 750 mila elettori, lo “shock” del gruppo dirigente emiliano, se ne vedono gli effetti. Qualcosa aveva capito Stefano Bonaccini . Raccontano che quando giovedì scorso, al Paladozza, Renzi ha chiamato l’applauso dei circa tremila contro il sindacato, il neo-presidente abbia reagito con una brutta smorfia del viso. Consapevole del disastro che si stava preparando. Un bolognese attento e curioso come Wu Ming 1 non ha dubbi: “Il Pd, e lo stesso Renzi, sono andati in tilt quando si è espresso il conflitto sociale. E l’idea di contrapporre la Leopolda alla piazza di San Giovanni gli si è rovesciata contro”. L’allergia al conflitto è visibile nel nervosismo con cui il premier affronta le piazze che lo contestano. I Wu Ming hanno allestito una mappa interattiva, Renzi scappa per documentare i casi di fuga dalle piazze avverse. LA CGIL, IN EMILIA ROMAGNA, ha 821 mila iscritti, seconda solo alla Lombardia, più grande e più industrializzata. Lo Spi ne conta 640 mila. Logico, quindi, puntare lo sguardo in quella direzione. I pensionati della Cgil smussano i toni, ricordano di aver fatto un appello unitario, insieme a Cisl e Uil, per andare a votare. A differenza del segretario Fiom, Bruno Papignani, che aveva invitato a stare a casa. Però, tra i 750 mila rimasti a guardare, gli anziani sono molti come confermano anche nel sindacato. Lo ribadisce, ad esempio, Stefano Brugnara, presidente dell’Arci bolognese. “Certamente, sono andati a votare di più rispetto ai giovani, ma di anziani nei circoli Arci che dicevano di non voler votare ne ho sentiti molti. Ed è un dato che deve preoccuparci, tutti. Nessuno può chiamarsi fuori”. Una buona sintesi di questo fenomeno la fornisce un protagonista insospettabile: il candidato “renziano” alle primarie regionali sconfitto da Bonaccini. Roberto Balzani è un autorevole professore, amico del rimpianto Edmondo Berselli – “all’Emilia manca la sua capacità di raccontare e capire” – fuori dalle logiche degli ex Dc o ex Pci del passato. A differenza del premier, però, non solo non sottovaluta l’astensione ma la fissa con precisione con l’espressione “sciopero generale del voto”. La stessa analisi di Wu Ming 1 che individua nella “pratica degli scioperi generali” l’ele - mento che ha costituito “uno choc anafilattico” per il gruppo dirigente del Pd. Giudizio rinforzato dal sondaggista Roberto Weber, di Ixé: “L’Emilia è tale grazie ai corpi intermedi. Non puoi attaccarli tutti i giorni e pensare di 2 cavartela”. Balzani invita anche a non sottovalutare il ruolo dei “ceti medi riflessivi” quella fascia di tecnici, professionisti, imprenditori, che cavalcano il rinnovamento, “ma conservano l’attenzione ai ‘beni comuni’” e che non sopportano più un gruppo dirigente locale inadeguato. Il “modello Errani” che Renzi ha tutelato in tutti i modi facendo coincidere i suoi commenti al voto con quelli dell’ex governatore. La vicenda locale ha giocato un ruolo non secondario, spiega Weber: “Qui c’è una cultura contadina robusta che non sopporta la corruzione e vuole correttezza nei comportamenti. Logico che gli scandali abbiano creato insofferenza”. Gli astenuti del Pd, quindi, hanno storie e fisionomie diverse. Ma sono figlie di una storia che Renzi vuole sradicare anche se oggi sembrano solo seduti sugli spalti a guardare la partita, dopo aver gridato con forza che l’allenatore a loro non piace. “La tipologia di coloro che hanno votato non è molto diversa da chi si è astenuto” spiega Weber: “Hanno solo una sofferenza sociale e un’insofferenza in più”. “Ma non so se torneranno indietro, aggiunge, certi comportamenti sono irreversibli”. Altri immaginano un rinsavimento del gruppo dirigente Pd in grado di ricucire con il sindacato e di dare una svolta al partito. “Serve un’intelligenza collettiva” chiede Brugnara. Ma serve anche, aggiunge Balzani, “uscire una volta per tutte dalla storia del vecchio Pci che qui non è mai morto”. Ma forse, vale l’im - mancabile puntura di spillo che proviene dal sempreverde Romano Prodi: “Come ti fai il letto, così dormi”. del 26/11/14, pag. 8 C’è il Messico nel nostro futuro Luciana Castellina DI RITORNO DA CITTÀ DEL MESSICO Reportage. In una Città del Messico percorsa dalle proteste per i 43 studenti scomparsi, alla sbarra del Tribunale dei Popoli il Trattato che liberalizza gli scambi con il Nord America Resterà impressa nel ricordo di tutti quelli che erano lì (anche io, perché sono membro della giuria internazionale) la sessione finale del Tribunale Permanente dei Popoli riunito a città del Messico dal 12 al 15 novembre con il titolo «Libero commercio, violenza,impunità e diritti umani dei popoli. Capitolo messicano»: per l’orrore e la pena provata nel sentire direttamente dalla voce di tre compagni di scuola dei 43 ragazzi desparecidos della scuola normales di Ayotzinapa il racconto dettagliato di cosa è accaduto quel 26 settembre. Quando anni di massacri si sono condensati in poche ore di barbarie. Nell’enorme teatro dell’Università, la famosa Unam, affollato dei rappresentanti di più di mille comitati di base che per 3 anni hanno preparato la documentazione per il giudizio (cinquecento denunce dettagliate), si è fatto un silenzio assoluto. Fra i partecipanti anche molti familiari degli analoghi e altrettanto impuniti delitti precedenti con fra le mani i cartelli coi nomi dei loro congiunti scomparsi o ammazzati. Solo nello stato di Guerrero, in tre anni, 17 assassinati, 30 scomparsi nel nulla (di cui altri 2 normalistas), fra loro militanti di organizzazioni ecologiste, contadine, giornalisti. Gli ultimi 43 sono solo la punta dell’iceberg, l’ultimo scandalo che per l’impegno di questi comitati ha finalmente bucato il silenzio dei media nazionali e internazionali. Uno dei ragazzi di Ayotzinapa che parla è indio e lo rivendica con orgoglio: «Le scuole normales – ricorda — sono una vecchia istituzione creata negli anni successivi alla rivoluzione, con l’intento di alfabetizzare e aiutare a migliorare le tecniche agricole i figli dei contadini. Oggi queste scuole – dice – sono in miseria, perché non vengono più finanziate, mangiamo 3 quello che coltiviamo noi stessi nei campi della scuola, ma non basta a pagare gli insegnanti. Oggi ancora il 20% della popolazione di Guerrero è analfabeta. La nostra lotta contro questo degrado è stata definito dalle autorità “delinquenza organizzata”». Per dire che dunque era normale che 43 studenti fossero ammazzati. I ragazzi annunciano che dal giorno successivo inizieranno a marciare da punti diversi del territorio messicano, ogni colonna intitolata a una delle 43 vittime, e arriveranno alla capitale il 20, il giorno, nel 1910, in cui ebbe inizio la leggendaria rivoluzione messicana. Per chiedere giustizia. Mi sono trovata ancora lì, a Città del Messico, quando è arrivata una folla immensa, tantissima che si è unita da ogni regione agli studenti. Lungo il percorso, a bordo di camion e di vetture fermate all’ingresso dell’autostrada e pregate di offrire un passaggio, erano stati accolti da grandi manifestazioni di solidarietà, molto grossa quella promossa nel Chiapas dagli zapatisti. Alla Unam si era svolta nei giorni precedenti una straordinaria assemblea con i rappresentanti di tutti gli atenei per dichiarare lo sciopero di tutte le università del paese. In sciopero anche i Trabajoderes de l’education. Gli slogan: «la Costituzione è morta», «insurrezione del popolo». La prova di forza di Peña Nieto La capitale era blindata dall’alba, tutti i musei e i palazzi pubblici chiusi, posti di blocco lungo i viali che portano all’aereoporto. Una prova di forza del presidente Peña Nieto, che non ha saputo dire altro in questi giorni se non che le manifestazioni avrebbero dissuaso gli investitori stranieri, solo qualche frettolosa parola per i 43 desparecidos, nulla sulla evidente connivenza delle autorità nel massacro: non possono sparire 43 corpi senza la collaborazione della polizia e dell’esercito. Così come non è possibile non venga data una spiegazione per il fatto che nella ricerca dei corpi dei ragazzi, portata avanti da familiari e compagni, si sono rinvenute una incredibile quantità di fosse piene di cadaveri. Un enorme camposanto clandestino, dove giacciono i corpi ormai inceneriti di contadini, donne, militanti delle organizzazioni ecologiste e per i diritti umani, sindacalisti,giornalisti, migranti. «C’è più che una buona ragione per accusare i presidenti del Messico, da Carlos Salinas de Gotari fino a Enrique Peña Nieto, di crimini contro l’umanità, genocidio, deviazione del potere». A dire queste parole, presentando la sentenza finale, è stato monsignor Raul Vera, vescovo di Santillo, anche lui un giurato del Tribunale. Che tanto per chiarire ha aggiunto: «E in conseguenza del Nafta (il Nord American Free Trade Agreement ) che è stato smantellato lo stato e si è criminalizzata l’economia. Vorrebbero che morissimo in silenzio come i lebbrosi, che il Messico fosse popolato da fantasmi e da schiavi, che vanno a estinguersi nelle caverne per far sparire i propri cadaveri». Monsignor Vera è un sacerdote di prima linea, nella sua diocesi lontana ha creato un rifugio per i migranti, che a decine vengono falcidiati dai trafficanti mentre tentano di varcare la frontiera con gli Stati Uniti: solo negli ultimi anni 72 vere e proprie esecuzioni a San Ferdnando Tamaulipas, 43 decapitati abbandonati lungo una strada a Monterrey, 18 cadaveri nei pressi di Guadalajara, 23 gettati da un ponte a Nuevo Laredo, a pochi passi dal confine. E migliaia di bambini, che tentano da soli la fortuna, e però vengono catturati e rinchiusi in prigione: quasi 25.000 nel Messico, 50.000 negli Stati uniti. È una bella storia quella di monsignor Vera che per tre intensi giorni ho avuto seduto accanto: molto tempo fa era stato mandato nel Chiapas a frenare il vescovo ribelle di san Cristobal, e invece è lui che è diventato anche più ribelle, tanto è vero che ora l’hanno confinato in estrema periferia. Che fine ha fatto la Rivoluzione? Cosa è diventato il Messico del XXI secolo? La Rivoluzione, che pure è ricordata da tutte le strade della città che ne portano i nomi più significativi (compreso quello di Garibaldi), dal grande e fortissimo murales di Rivera che tutt’ora decora il palazzo del governo allo 4 Zòcalo, che è ancora parte della liturgia ufficiale dello stato, è stata da tempo rinnegata. Ma fino agli anni ’80 restava nell’identità di ogni messicano l’orgoglio forte per quella straordinaria epopea contadina e per la Costituzione del 1917 che per prima inserì i diritti sociali fra le proprie norme e subordinò il diritto di proprietà alla sua funzione sociale. Oggi il Messico è diventato invece un paese stravolto da una conquista americana così pesante come non c’è stata altrove. Le stupende rovine Maya di Tulun sembrano Disneyland, all’entrata i soli ristori Sturback e Subway, difficile trovare traccia di una piccola impresa locale. Anche il prestigio che il paese si era conquistato per la sua politica estera indipendente è ormai passato remoto. L’ironia è che il Messico compare fra i paesi di successo: il sacro Pil segna un significativo aumento. E gli economisti sembrano appagati. Solo che il 40% è da attribuire al narco traffico, calcoli seri indicano una quota per un totale di 35 miliardi di dollari. Altri 22 sono rappresentati dalle rimesse dei dodici milioni di messicani emigrati, 10 negli Stati uniti. Queste cifre spiegano anche perché il governo non intende combattere seriamente la rete criminale della droga: non solo per la corruzione che è ormai penetrata in tutti i gangli dell’apparato istituzionale, compreso, aihmé, il Partito Repubblicano Democratico, che solo anni fa aveva animato qualche speranza. È così perché senza il narcotraffico nell’economia si aprirebbe un buco, il famoso Pil crollerebbe. Petrolio e narcotraffico E poi c’è un’altra ragione che consiglia di conservare il settore: nel Messico ci sono potenziali giacimenti di petrolio e di gas che potrebbero garantire agli Stati uniti l’autonomia dal rissoso Medio Oriente, del nemico Venezuela e della potente Russia. Il governo di Peña Nieto sta vendendo tutto, una vera controrivoluzione rispetto alle storiche nazionalizzazioni operate da Lazaro Cardenas negli anni ’30. Il narcotraffico è presente con un controllo capillare soprattutto negli stati prospicenti il Golfo del Messico, tutt’attorno a Vera Cruz, il centro delle perforazioni in atto. Agli acquirenti è stata promessa la totale acquiescienza della zona, e è anche a questo fine che la rete dei commercianti di droga, uno stato nello stato, sono indispensabili. Come è stata possibile questa degenerazione, proceduta a ritmo galoppante negli ultimi decenni? Cavia di globalizzazione. Fino al Ttip È che il Messico ha fatto da cavia alla globalizzazione. È qui, già nel 1994, che è stato varato il Nafta, Nord American Free Trade Agreement, capostipite dei Trattati di liberalizzazione degli scambi e degli investimenti, che da allora si è tentato di introdurre in altre parti del mondo: nel ’97 con l’Ami (Accordo multilaterale sugli investimenti, promosso dall’Ocse), battuto dalla prima opposizione dei movimenti no global (fu chiamata la prima guerriglia on line). Poi, cioè ora, con il Transatlantic Trade and Investments Partnership fra Stati uniti e Ue e l’analogo Trattato transpacifico. Il Messico sono più di vent’anni che sperimenta questo genere di trattati, più grave qui che altrove, fra l’altro per l’evidente squilibrio fra la fragile economia del paese e quelle dei suoi partners, gli Stati uniti e il Canada; e un accordo che per di più ha amputato il Messico dalla cooperazione cui storicamente sarebbe stato chiamato, quella tentata in America latina con Alba e Mercosur. I danni del Trattato sono così evidenti e presenti nella coscienza popolare che non c’è stata testimonianza che non l’abbia indicato come causa prima della degenerazione del paese. A sentir denunciare il processo distruttivo della Costituzione — 220 decreti di riforma, 122 imposti dal Trattato — che hanno colpito soprattutto gli articoli 3 (educazione pubblica), 27 (privatizzazioni, vittima anche l’ejidal, le terre comuni, un cardine della società messicana), 123 (diritti dei lavoratori), il potere assoluto conquistato dal suo presidente, le sue leggi elettorali che garantiscono la conservazione del potere, viene da pensare che il Messico non sia il nostro passato, ma rischi di essere il nostro futuro ove il Ttip dovesse esser 5 approvato. Perché induce un’economia disembedded, estrovertita, un modello competitivo calato dall’alto, un corpo estraneo, che non distrugge solo diritti e esseri umani ma anche valori, modi di vita, quanto rende vitale una società. L’obiettivo essendo uno sviluppo selettivo, che include, omologandola, solo una sottile fascia della società, rigettando la maggioranza in una sorta di apartheid. Un processo particolare Di tutti i 35 processi celebrati dal Tribunale Permanente — che fu inventato ai tempi della guerra del Vietnam da Bertand Russell per emettere un giudizio privo di valore giuridico, ovviamente, ma di valore etico, di denuncia all’opinione pubblica, e che fu poi ripreso in mano da Lelio Basso – questo messicano ha avuto un carattere particolare. Si è infatti trattato di uno spazio di incontro, perché ha aperto un processo comunicativo, ha realizzato un apprendimento reciproco, si potrebbe dire che ha creato un diritto partecipato. Dal 21 ottobre 2011 fino a questa udienza finale se ne sono tenute ben 10 preliminari, ognuna su un tema specifico, e altrettante ancora prima. Centinaia sono stati i testimoni e anche in questa fase finale ad assistere sono venuti in tantissimi, un pubblico eterogeneo, di contadini, studenti,giuristi, intellettuali, moltissime le donne. Dalla sala ogni intervento salutato dai vecchi e nuovi slogan delle lotte popolari. Questi giorni di collera collettiva e di mobilitazione in cui il Tribunale è stato celebrato segnano forse una ripresa di iniziativa, un battesimo per gli studenti che sembrano essersi improvvisamente svegliati. Non c’è ancora un movimento organizzato e tantomeno un partito di sinistra in grado di raccogliere le energie. Ma migliaia di comitati di base che potranno forse trovare la strada per «rifondare i Messico», come è stato detto da molti e anche dalla sentenza finale. Di rifondarlo c’è proprio bisogno: basti a provarlo il duetto fra l’ex presidente Calderon e l’attuale Peña Nieto: il primo ha accusato il secondo di aver truccato la cifra degli assassini verificatisi durante il suo mandato,per aver arbitrariamente declassificato delitti dolosi a delitti colposi, così facendo apparire il suo record di «soli» 27.000 contro il suo di 35.000. Una bella gara. Di cui va specificato che i femminicidi si allineano su una media di cinque al giorno. Da Globalist e Redattore Sociale del 25/11/14 Dopo gli scontri, cittadini e associazioni per una Tor Sapienza solidale Cittadini e associazioni insieme. Lanciata una fiaccolata il 4 dicembre al Campidoglio contro il razzismo. Un'assemblea pubblica, con i cittadini e le associazioni per costruire una "comunità solidale e inclusiva", capace di rispondere con atti concreti e buone pratiche ai gravi fatti di dieci giorni fa. L'altra Tor Sapienza, quella non raccontata dalle cronache, prova a ripartire dal basso. Si è svolto questa sera, davanti al mercato del quartiere, un incontro pubblico per dare voce ai cittadini che vogliono pensare a come portare avanti soluzioni fattibili, perché - come dicono in molti - "tra qualche giorno i riflettori si spegneranno e non sarà cambiato nulla". Circa un centinaio le persone che hanno partecipato all'evento. Tra loro anche molti rappresentanti delle associazioni (da Medicina solidale all'Arci, fino a Sant'Egidio e Tor Sapienza cattolica), che hanno lanciato una fiaccolata il 4 dicembre al Campidoglio contro il razzismo. All'incontro c'era anche Carlotta Sami, portavoce dell'Unhcr: "Continuiamo a 6 essere presenti qui per sostenere tutte le iniziative di solidarietà dei cittadini ma anche le persone che lavorano per l'accoglienza - spiega -. A dieci giorni di distanza è evidente che non erano i minori non accompagnati il problema di questo quartiere. Ma è stato fatto un uso strumentale e allarmistico dei fatti. E ancora oggi i rifugiati rimasti a via Giorgio Morandi hanno paura di uscire, la tensione è rimasta alta. Per il resto non è cambiato nulla. Chiediamo quindi al sindaco Marino di mantenere viva l'attenzione su questo quartiere". L'obiettivo della serata è quello di dare voce alle idee degli abitanti: "Non basta fare un makeup delle strade per risolvere la situazione - spiega Carlo Gori, insegnante del centro culturale Giorgio Morandi -. Insieme vogliamo ragionare, invece, sulle iniziative, anche piccole, per fare comunità, valorizzare la solidarietà e le buone prassi nel quartiere. Stiamo pensando per esempio a iniziative di mutuo soccorso tra gli abitanti". Tra gli abitanti, una signora del quartiere sottolinea che il problema è "l'abbandono da parte dei politici, perché qui c'è degrado e ci rimarrà. Il problema non sono gli stranieri ma che nessuno si preoccupa di noi.". Redattore Sociale http://www.globalist.it/Detail_News_Display?ID=65762&typeb=0 Da Corriere di Roma.it del 26/11/14 Periferie, il 4 dicembre una fiaccolata per dire ‘no alla violenza’ «Il prossimo 4 dicembre, alle ore 18, una fiaccolata si snoderà dal Colosseo al Campidoglio per condannare con fermezza ogni tipo di violenza, praticare la via del dialogo, avviare concretamente un processo di recupero e riqualificazione delle periferie romane in modo da rispondere al disagio dei residenti, assolutamente comprensibile in un quadro di degrado e di povertà aggravato dalla mancanza di lavoro». Così, in una nota, il comitato promotore di Roma e del Lazio composto da Acli, Arci, Centro Astalli, Cgil, Cisl, Uil, Comunità di Sant’Egidio, Fondazione internazionale Di Liegro, Forum Terzo Settore, Libera, Social Pride. «L’accoglienza dei rifugiati e dei richiedenti asilo, fra i quali molte sono le donne e i minori – continua la nota – è un dovere ineludibile per una società civile e per una comunità degna di questo nome. Non è ammissibile che le diverse comunità di immigrati, in fuga dalle persecuzioni e dalle guerre non trovino nell’Europa e nello Stato italiano la garanzia prevista dai trattati e dalle normative internazionali. L’inclusione non è un problema di sicurezza: è un problema sociale e come tale va trattato. I fatti di Tor Sapienza sono emblematici da questo punto di vista e rischiano di creare un precedente pericoloso. Viceversa, proprio il ruolo dello Stato e delle istituzioni va rafforzato, partendo dalla qualità dei servizi pubblici erogati. Le istituzioni devono dare una risposta immediata al disagio sociale delle periferie, coinvolgendo tutti i soggetti sociali in un’azione corale, la sola in grado di creare coesione. Riteniamo doveroso richiamare le coscienze civili della città, le istituzioni, le associazioni e le comunità a focalizzare l’attenzione sulla centralità dei temi dell’integrazione e dell’inclusione sociale, ponendosi, al contempo, a garanzia di quell’irrinunciabile senso di sicurezza che soltanto un attento governo del territorio può fornire». http://www.corrierediroma-news.it/2014/11/26/periferie-4-dicembre-fiaccolata-per-direviolenza/ 7 Da Rassegna.it del 25/11/14 Gioco d’azzardo: presentata campagna a Milano “Liberi dal gioco d’azzardo. Con l’azzardo ti giochi la vita”: questo lo slogan della campagna di comunicazione presentata oggi alla stampa e agli amministratori locali lombardi a Milano, presso la sede di Lega Autonomie Lombardia, dal coordinamento lombardo di “Mettiamoci in gioco” – la Campagna nazionale contro i rischi del gioco d’azzardo promossa da Acli, Ada, Adusbef, Anci, Anteas, Arci, Auser, Aupi, Avviso Pubblico, Azione Cattolica Italiana, Cgil, Cisl, CNCA, Conagga, Ctg, Federazione ScsCnos/Salesiani per il sociale, Federconsumatori, FeDerSerD, Fict, Fitel, Fp Cgil, Gruppo Abele, InterCear, Ital Uil, Lega Consumatori, Libera, Progetto Orthos, Scuola delle Buone Pratiche/Legautonomie-Terre di mezzo, Shaker-pensieri senza dimora, Uil, Uil Pensionati, Uisp. All’incontro hanno partecipato, tra gli altri, l’art director della campagna di comunicazione Mauro Terlizzi. L’iniziativa si propone di sensibilizzare l’opinione pubblica decostruendo i messaggi illusori di “vincite facili” diffusi dall’industria dell’azzardo. Sono stati realizzati due spot tv e due spot radio (con protagonisti rispettivamente un uomo e una donna), un manifesto, due locandine, una vetrofania, un cartello rotair, un banner per i siti, immagini coordinate per Facebook e Twitter. Per il lancio della campagna di comunicazione, Mettiamoci in gioco ha attivato anche un proprio account Twitter e ha aperto pagine Facebook locali co-gestite con i Coordinamenti regionali della Campagna. La pagina face book “Mettiamoci in Gioco – Lombardia” è stata aperta la settimana scorsa. Da Repubblica.it (Milano) e Omnimilano del 25/11/14 GIOCO AZZARDO, NUOVA CAMPAGNA DA COORDINAMENTO 'METTIAMOCI IN GIOCO' "Liberi dal gioco d'azzardo. Con l'azzardo ti giochi la vita": questo lo slogan della campagna di comunicazione presentata oggi alla stampa e agli amministratori locali lombardi a Milano, presso la sede di Lega Autonomie Lombardia, dal coordinamento lombardo di "Mettiamoci in gioco" - la Campagna nazionale contro i rischi del gioco d'azzardo. All'incontro hanno partecipato, tra gli altri, l'art director della campagna di comunicazione Mauro Terlizzi. L'iniziativa "si propone di sensibilizzare l'opinione pubblica decostruendo i messaggi illusori di "vincite facili" diffusi dall'industria dell'azzardo. Sono stati realizzati due spot tv e due spot radio (con protagonisti rispettivamente un uomo e una donna), un manifesto, due locandine, una vetrofania, un cartello rotair, un banner per i siti, immagini coordinate per Facebook e Twitter. Per il lancio della campagna di comunicazione, Mettiamoci in gioco ha attivato anche un proprio account Twitter e ha aperto pagine Facebook locali co-gestite con i Coordinamenti regionali della Campagna". "Il messaggio che lanciamo con questa campagna di sensibilizzazione", spiega don Armando Zappolini, portavoce di Mettiamoci in gioco, "è molto chiaro: attenzione, non fatevi abbindolare dalla pubblicità dei giochi d'azzardo. Non avete 'quasi vinto' e non 'vincerete facile'. Anzi, è vero piuttosto che 'più giochi più perdi, è matematico', come diciamo nei nostri materiali di comunicazione. E il consumo di azzardo può dar luogo ad abuso e dipendenza, con conseguenze molto negative per sé, per le persone che ci sono accanto, per la società. Per raggiungere l'opinione pubblica punteremo, prima di tutto, sui 8 mezzi e sulle strutture delle organizzazioni che aderiscono alla Campagna a livello nazionale e locale. Ogni aderente si impegna a far circolare i materiali della campagna all'interno della propria rete, nei luoghi e negli incontri che organizza a tutti i livelli. Insomma, invece di investire soldi per acquistare spazi pubblicitari, scommettiamo sulle relazioni sociali, sulla mobilitazione delle nostre organizzazioni, dei nostri soci e volontari. Ma rivolgiamo un invito particolare a unirsi a noi anche ai Comuni, da quelli più piccoli alle città metropolitane: promuoviamo insieme un messaggio forte rivolto ai cittadini." "L'impegno che mettiamo in questa campagna di comunicazione", continua don Zappolini, "è però anche un appello lanciato alle Istituzioni e alla politica: suona la campanella, è ora di prendere decisioni precise e coraggiose, a cominciare dall'approvazione della prima legge quadro sul gioco d'azzardo in Italia, da quanto sarà contenuto in materia nella legge delega fiscale e dal riconoscimento, finalmente, del gioco d'azzardo patologico nei Livelli essenziali di assistenza garantiti dallo Stato, per i quali vanno stanziate risorse economiche aggiuntive rispetto a quelle ora previste nel Fondo sanitario. Ogni persona che ha problemi di dipendenza deve poter contare su un aiuto professionale e facilmente accessibile da parte dei servizi pubblici e del terzo settore accreditato." La campagna "Mettiamoci in gioco" è promossa da Acli, Ada, Adusbef, Anci, Anteas, Arci, Auser, Aupi, Avviso Pubblico, Azione Cattolica Italiana, Cgil, Cisl, CNCA, Conagga, Ctg, Federazione Scs-Cnos/Salesiani per il sociale, Federconsumatori, FeDerSerD, Fict, Fitel, Fp Cgil, Gruppo Abele, InterCear, Ital Uil, Lega Consumatori, Libera, Progetto Orthos, Scuola delle Buone Pratiche/Legautonomie-Terre di mezzo, Shaker-pensieri senza dimora, Uil, Uil Pensionati, Uisp. Secondo i dati ricordati oggi, il gioco d'azzardo ha conosciuto un successo travolgente nel nostro paese, tra i primi al mondo per consumo di giochi. Si è passati da un fatturato di 24,8 miliardi di euro nel 2004 agli 88,5 miliardi del 2012. Solo nel 2013 vi è stato un leggero calo del fatturato, fermatosi a 84,7 miliardi, probabilmente per la dura crisi economica che sta attraversando il paese. Il 56,3% del fatturato viene dagli "apparecchi" (slot machine e vlt), ma è in significativa ascesa il gioco on line. È importante notare che al crescere del fatturato non è seguito un maggior introito per lo stato (sotto forma di tasse). Nel 2004, l'erario ha incassato dall'azzardo 7,3 miliardi di euro (pari al 29,4% del fatturato complessivo), mentre nel 2013 ha registrato un'entrata di 8,1 miliardi. Dunque, una cifra non indifferente per le finanze pubbliche, ma molto più bassa del giro d'affari attivato dal settore, con le sue pesanti ricadute sociali e sanitarie che comportano un notevole dispendio di risorse economiche per farvi fronte. Il Cnr stima in 17 milioni (42% delle persone residenti in Italia tra i 15 e i 64 anni) il numero di coloro che hanno giocato almeno una volta in un anno, in 2 milioni gli italiani a rischio minimo e in circa un milione i giocatori ad alto rischio (600-700mila) o già patologici (250-300mila). (Omnimilano.it) http://milano.repubblica.it/dettaglio-news/-/17186 9 INTERESSE ASSOCIAZIONE del 26/11/14, pag. 8 Il 5 per mille tra enti inutili e procedure opache LA CORTE DEI CONTI CONTRO LA GESTIONE DELLE QUOTE IRPEF, CHE VANNO ANCHE ALLA FONDAZIONE DI D’ALEMA E ALLA ONLUS DEL MILAN di Valeria Pacelli Troppi enti inutili, soldi distribuiti in modo non sempre equo e una burocrazia macchinosa e quindi lentissima. Sono le criticità del sistema del cinque per mille, la quota dell’Irpef, che lo Stato ripartisce tra enti che svolgono attività (almeno in teoria) socialmente rilevanti, sulla base delle scelte dei contribuenti. A delinearle è la Corte dei Conti che avvisa l’attuale Parlamento di “valutare se proseguire con il 5 per mille. In caso di scelta positiva, si avverte l’esigenza della stabilizzazione dell’istituto”. UNA NUOVA grana per il premier Matteo Renzi che ha inserito alcune modifiche dell’istituto del cinque per mille all’interno della Riforma del Terzo Settore, siglata dal sottosegretario al Welfare Luigi Bobba. A luglio scorso il governo annunciava di “rivedere e stabilizzare l’istituto della destinazione del 5 per mille in base alle scelte dei contribuenti. È prevista l’introduzione di obblighi di pubblicità delle risorse”. A distanza di cinque mesi, la riforma non è stata approvata. Se ne discute per adesso in Commissione Affari Sociali. Bisognerà quindi tenere conto della relazione dei magistrati contabili che hanno analizzato la gestione del cinque per mille degli ultimi anni. I soldi che i contribuenti decidono di versare non sono quelli che arrivano realmente ai vari enti. Nel 2010 ad esempio sono stati destinati 463 milioni, ma l’importo effettivamente liquidato ammonta a 383 milioni di euro. Mancano all’appello 80 milioni che lo Stato utilizza senza particolari vincoli. Nel 2011 gli importi dei contribuenti sono 487 milioni di euro circa, quello liquidato è di 395 milioni. Per evitare che ci questo gap tra gli importi attribuiti dai contribuenti e quelli liquidati, i magistrati contabili suggeriscono di “eliminare il tetto di spesa, in maniera tale che l’at tribuzione del 5 per mille non si traduca in una percentuale di fatto minore”. E AGGIUNGONO: “Risulta grave che il patto tra Stato e cittadini venga sistematicamente violato, analogamente accade anche per la quota dell’8 per mille che viene spesso dirottato su altre finalità rispetto a quelle stabilite dai contribuenti”. Nel caso del cinque per mille, ci sono circa 50 mila enti che hanno ricevuto denaro nel 2012, di cui circa 9 mila hanno ottenuto “un contributo inferiore ai 500 euro”e molti di questi “non producono alcun tipo di valore sociale”. Ad esempio, tra gli enti della ricerca scientifica e dell’università ammessi “compaiono alcuni che suscitano perplessità, addirittura, in taluni casi, privi di un sito web”. Nell’elenco degli enti ammessi al cinque per mille ci sono anche associazioni di categorie professionali come quelle dei notai o avvocati o associazioni calcistiche, come la fondazione Milan, “iscritta nell’anagrafe delle Onlus”. E non mancano le fondazioni legate alla politica. Tra queste - alcune per gli anni scorsi - sono state ammesse nell’elenco dei beneficiari la fondazione Italiani Europei di cui è presidente Massimo D’Alema; la fondazione Nuova Italia, presieduta da Gianni Alemanno, o quella Magna Carta di Gaetano Quagliariello. Nella distribuzione degli importi, sono 40 i beneficiari in top list. Dal 2006 al 2011 il primato va all’Associa - zione italiana per la ricerca sul cancro, che nel 10 2011 ha ricevuto 55 milioni di euro circa. Tra gli altri enti ci sono la Fondazione San Raffaele del monte Tabor con 6,8 milioni nel 2011; Emercency con 11 milioni e Medici senza frontiere con altri 8 milioni sempre nel 2011. Analizzando la situazione i magistrati contabili ritengono “necessario intraprendere un'attività di audit dell'Agenzia delle entrate sul comportamento degli intermediari in potenziale conflitto di interesse” e suggeriscono di pubblicare “un unico elenco annuale di tutti i beneficiari, con il relativo numero di contribuenti e di importo”. Chissà se di tutto questo terrà conto il governo, che proprio oggi discute in Commissione la riforma del Terzo Settore. del 26/11/14, pag. 45 Fisco solidale. Denuncia della Corte dei conti sulle mancate verifiche dei beneficiari e il rischio di conflitti di interessi Cinque per mille «fuori controllo» Gianni Trovati MILANO Tra i 50mila soggetti che ricevono il 5 per mille c'è di tutto, anche piccole organizzazioni che vengono scelte da un solo contribuente, ma manca la Croce Rossa, perché è un ente di diritto pubblico ( come i Comuni, che però sono tra i beneficiari). I controlli sono praticamente impossibili, com'è impossibile escludere i conflitti d'interesse da parte di organismi che rientrano nell'elenco dei beneficiari, ma gestiscono anche centri di assistenza fiscale e con questi possono orientare le scelte dei contribuenti. Il cinque per mille, insomma, è un ginepraio, che può favorire i furbi ma senza dubbio complica la vita agli onesti, costretti a districarsi fra otto diversi enti pubblici incaricati di gestire il sistema. Il giudizio della Corte dei conti, contenuto nella delibera 14/2014 diffusa ieri dalla sezione centrale di controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato, non fa sconti a questa espressione del Fisco solidale nata in pompa magna nel 2006 ma poi abbandonata alla classica litania delle proroghe annuali che ne hanno moltiplicato incoerenze, confusione e costi di gestioni. Al punto che la Corte riconosce «la rilevanza dell'istituto» per «favorire la responsabilità dei cittadini nella selezione della spesa sociale efficiente », ma chiarisce che cosi non si può continuare. Tocca a Governo e Parlamento «valutare se proseguire», scrivono i magistrati contabili, ma per andare avanti serve una riforma organica per dare efficienza al sistema e superarne le tante contraddizioni. La scelta in realtà è obbligata, visti i numeri di un meccanismo che ogni anno intercetta le scelte di 16 milioni di contribuenti e che dal 2006 a oggi ha distribuito 3,5 miliardi di euro. Il Governo, anzi, l'avrebbe già compiuta, mettendo in campo un riordino dopo che la stessa Corte dei conti aveva scritto una lettera di fuoco sui difetti del sistema. Come spesso accade, però, dall'annuncio all'attuazione i tempi rischiano di essere sproporzionati rispetto all'urgenza dei problemi da risolvere: il riordino dei 5 per mille è abbozzato nella legge delega di riforma del Terzo settore, approvata dal Consiglio dei ministri il 3 agosto scorso ed è ora sui tavoli delle commissioni della Camera. Prima divederne i primi risultati, quindi, bisognerà aspettare due passaggi parlamentari e i decreti attuativi, in un dribbling fra riforme politicamente più "pesanti", dal Jobs act al Titolo V, che certo nonne aiuteranno la corsa. Nel frattempo, il cinque per mille sembra quindi destinato a convivere con i propri problemi, puntualmente elencati dalla delibera pubblicata ieri dalla Corte dei conti. Alcuni sono risolvibili con la riforma, a partire per esempio dal paradosso dei controlli affidati dall'agenzia delle Entrate (secondo cui «la natura non fiscale del contributo» non permette i classici «controlli sostanziali ») e non al ministero del Lavoro, titolare delle politiche 11 sociali. Altri, però, richiedono scelte politiche più di fondo: per esempio il fatto, sottolineato dalla Corte, che la solidarietà fondata sull'Irpef esclude milioni di cittadini a basso reddito, che non presentano dichiarazione e spesso non pagano l'imposta. 12 ESTERI del 26/11/14, pag. 4 Lavoro e migranti, la strigliata del papa Anna Maria Merlo Esercizio politico delicato, ieri, per papa Bergoglio, che in una visita-lampo (3 ore e 50 in agenda) a Strasburgo è intervenuto di fronte all’Europarlamento e poi all’assemblea del Consiglio d’Europa (istituzione nata nel ’49 per difendere i diritti umani). Ventisei anni dopo Wojtyla, che ha fatto la sua parte per promuovere un’Europa neo-cristiana, Bergoglio si è rivolto alla Ue che in un quarto di secolo è cresciuta da 12 a 28 stati membri (e da 21 a 47 nel Consiglio d’Europa): il papa si è ben guardato dal citare le controverse “radici cristiane”, che nel 2004 la destra avrebbe voluto inserire nel Preambolo del Trattato costituzionale, poi naufragato sotto il doppio “no” olandese e francese. Bergoglio non ha pero’ evitato di far riferimento alle più generali “radici religiose”, con tutte le conseguenze che comportano nell’interpretazione cattolica. Denunciando che nell’Europa attuale “dall’individualismo indifferente nasce la cultura dell’opulenza a cui corrisponde la politica dello scarto”, il papa ha fatto degli esempi controversi, non solo la riduzione dell’essere umano a “semplice ingranaggio di un meccanismo che lo tratta alla stregua di un bene di consumo”, ma anche “la vita scartata” nel caso degli anziani (condanna dell’eutanasia) e “dei bambini prima di nascere” (condanna dell’aborto). Reazione preventiva degli eurodeputati spagnoli di Izquierda Plural e del francese Jean-Luc Mélenchon (Front de gauche), che hanno disertato l’aula per non assistere al discorso del papa, contestando la presenza di un capo religioso in un’istituzione laica. Bergoglio propone all’Europa “di fare tesoro delle proprie radici religiose” per essere “più facilmente immune dai tanti estremismi che dilagano nel mondo odierno, anche per il grande vuoto ideale a cui assistiamo nel cosiddetto Occidente”. Meno controverso il discorso sull’Europa “stanca” del “ripiego su se stessa”, che avrebbe bisogno di riscoprire “la sua anima buona”. Sia per ridare dignità al lavoro che per accogliere i migranti. Con una scivolata di dubbio gusto sull’Europa “nonna, non più fertile e vivace”, Bergoglio ha avvertito che la Ue “non deve ruotare intorno all’economia, ma attorno alla sacralità della persona umana”. Per il papa “è tempo di favorire le politiche di occupazione, ma soprattutto è necessario ridare dignità al lavoro”, anche coniugando “flessibilità del mercato con le necessità di stabilità e certezza delle prospettive lavorative”. Matteo Renzi, che si è incontrato con Bergoglio in quanto l’Italia è presidente di turno del Consiglio europeo, è subito saltato sull’occasione, leggendo nella frase del papa un’approvazione del suo Jobs Act. Bergoglio ha ripreso a Strasburgo le grandi linee del discorso fatto a Lampedusa: “non si puo’ tollerare che il Mediterraneo diventi un grande cimitero”. Ma mentre la Ue ha scelto la politica dei respingimenti con l’operazione Triton, gli applausi al discorso del papa sono stati giudicati “un atteggiamento paradossale” dall’eurodeputato Verde, José Bové: “applaudono il papa, ma quando devono trarne le conseguenze sociali, ambientali, economiche non c’è più nessuno”. La difesa dell’ambiente, “dono che dio ha messo nelle mani degli uomini” e l’appello alla pace “ancora troppo spesso ferita” anche in Europa, con riferimento all’Ucraina, sono stati gli altri temi toccati da Bergoglio. Il papa partirà per la Turchia venerdi’, dove incontrerà il presidente Erdogan e il patriarca ortodosso (sembra essere un periodo di grande intesa tra cattolici e ortodossi, i russi hanno pagato l’albero di Natale di fronte a Notre-Dame a Parigi, inaugurato sabato dall’ambasciatore di Mosca e dal rettore della cattedrale). 13 Del 26/11/2014, pag. 12 Così Bruxelles congela il Patto di stabilità ANDREA BONANNI STRASBURGO Più che i miliardi (non molti, per ora) che il presidente Jean-Claude Juncker è riuscito a racimolare per creare un fondo europeo degli investimenti, a offrire qualche speranza che l’Europa stia davvero «voltando pagina» è l’approccio complessivo alla governance economica scelto ieri dalla nuova Commissione europea dopo un dibattito che è durato in realtà parecchie settimane. Gli elementi di novità sono principalmente due. Il primo è che Juncker ha ottenuto di «congelare» il Patto di stabilità sospendendo le sanzioni che avrebbero dovuto scattare contro sette dei diciotto Paesi della zona euro, tra cui l’Italia e la Francia. Non si tratta di un «liberi tutti», né tantomeno di una resa, di un abbandono della disciplina di bilancio. Ma la rivoluzione copernicana che questa decisione sottende è altrettanto radicale: passare da un approccio basato sul sospetto e sulla diffidenza verso i governi, ad uno fondato sulla fiducia. La Commissione non rinuncia a fare le pulci ai bilanci, né a sottolineare gli squilibri macroeconomici di ciascun Paese. Ma prende atto delle cose fatte da ciascun governo, degli impegni assunti. Constata che le decisioni prese vanno nella giusta direzione. E apre un credito politico ai governi rinunciando a penalizzarli ma lasciando comunque sospesa sul capo di ciascuno la minaccia di una possibile sanzione. Questo capovolgimento nell’approccio di Bruxelles alla gestione dei conti pubblici rientra nella logica di pragmatico buonsenso che è la cifra di Juncker. Va anche detto però che il presidente della Commissione non aveva molte alternative. Nel corso del suo incontro con Renzi, a margine del vertice G20 di Brisbane che ha sigillato la decisione di non aprire la procedura contro l’Italia, Juncker ha capito che, se avesse sanzionato Roma, il governo italiano non solo non sarebbe tornato indietro, ma era anzi pronto a fare ulteriori passi avanti, lasciando andare alle stelle il deficit pubblico, e quindi il debito, pur di accelerare le riforme e di rilanciare l’economia. Renzi è stato il più esplicito nell’illustrare in questi termini la situazione. Ma Juncker ha compreso in fretta che anche gli altri sei governi europei sotto la lente di Bruxelles si trovavano con le spalle al muro: non avrebbero potuto fare molto di più di quanto già avevano fatto, e avrebbero finito con il far saltare definitivamente le intese che sono alla base del Fiscal Compact e della stessa sopravvivenza dell’euro. Da qui la decisione di imboccare la strada della fiducia, sperando che le riforme avviate comincino, prima o poi, a dare i frutti promessi e che l’Eurozona possa finalmente ritrovare la crescita economica. La seconda rivoluzione filosofica che Juncker porta nell’approccio della Commissione sta nell’introduzione all’analisi della governance economica che oggi illustrerà al Parlamento europeo. In essa Juncker parte dal dato complessivo della zona euro, che con un deficit al 2,6% del Pil e un debito al 92%, è messa tutto sommato relativamente bene rispetto agli altri competitors mondiali. Il fatto di definire la strategia futura in base alla valutazione dell’eurozona come un «unicum», e non come la somma disaggregata di stati «buoni» e «cattivi», rappresenta a sua volta un ribaltamento di quanto è stato fatto in passato perché sottolinea come i Paesi uniti dalla moneta abbiano un destino comune il cui percorso è definito dalla prestazione collettiva. Questo, e Juncker lo spiegherà oggi, non sottrae ogni governo dalle proprie responsabilità. Ma consente di attribuire compiti specifici non solo ai Paesi che si trovano in difetto rispetto ai vincoli di bilancio. Se questi devono continuare il consolidamento dei conti e accelerare le riforme, i 14 Paesi che hanno margini di manovra devono usarli per alimentare investimenti e consumi. I «compiti a casa» tanto cari alla cancelliera Merkel, insomma, non toccano solo agli asini, ma anche ai primi della classe. Perché gli uni e gli altri condividono la stessa responsabilità verso l’impresa collettiva. La svolta, dunque, è avviata. Ora resta solo da capire se Juncker e i suoi nuovi alleati, a cominciare da Renzi e Hollande, riusciranno ad imporla alla Germania e ai suoi satelliti rigoristi. del 26/11/14, pag. 10 Juncker presenta il Piano senza un euro di soldi freschi Solo fondi già stanziati e la speranza di un enorme effetto leva Marco Zatterin È la fiera dell’ingegneria finanziaria, non la svolta anticrisi in cui speravano in tanti, né l’inizio d’un nuovo modo di pensare l’Europa. Stamane alle nove Jean-Claude Juncker presenta all’Europarlamento il Piano per gli Investimenti che la Commissione Ue ha approvato ieri, e sarà interessante vedere come il Presidente difenderà la sua creatura. La strategia si propone di agevolare l’iniezione di 315 miliardi nelle reti continentali, stimolare la crescita e creare un milione di posti in tre anni. Tutto si gioca però sulla sponda coi privati, i soldi veri sono 13 miliardi, non c’è un cent che non fosse già nei forzieri Ue. Gli Stati non partecipano, per ora, ed è difficile che accada: nonostante le voci della vigilia, non è previsto alcuno sconto per le capitali che decidessero di farlo. Giorni fa il francese Pierre Moscovici, che nel «Team Juncker» ha il portafoglio economico, ha confessato all’Afp che il Piano Juncker «senza denari freschi sarebbe parso all’opinione pubblica un gioco di prestigio e, pertanto, sarebbe stato un flop». Oggi sarà anche lui in sala stampa e dovrà dare delle spiegazioni. Lasciata da sola dai leader di un club che non vuole (o non può, a seconda delle circostanze) versare altri denari nazionali nella cassa comune, la Commissione si è stretta alla Banca per gli Investimenti (Bei) e ha cercato di fare il fuoco con la legna che aveva, sfruttando un bilancio che neanche un anno fa i Ventotto hanno ridotto. E questo è il risultato. Il Piano si fonda sulla creazione di un nuovo veicolo da 21 miliardi pilotato dalla Bei. Si chiama Efsi, Fondo europeo per gli investimenti strategici, e deve aggredire il rischio recessione dalla parte della domanda, stimolando gli impieghi che sono in media il 15% sotto il livello ante-crisi. La Commissione verserà 8 miliardi presi dal Bilancio Ue (oltre che alla voce Infrastrutture e Ricerca). Con questi garantirà l’erogazione successiva di altri 8, totale 16 miliardi. La Bei ne metterà 5. Si arriva a 21, cifra che rappresenterà il capitale dell’Efsi. Il tesoro così composto servirà da garanzia e pronto intervento per circa 240 miliardi di investimenti a lungo termine e 65 per azioni a sostegno delle piccole e medie imprese. Le grandezze sono ottenute contando su un cospicuo effetto moltiplicatore, la stima definita «prudente» considera che ogni euro pubblico messo a contatto col mercato diventi 15 euro da mettere nel motore dell’economia. Con la tutela dell’Efsi, la Bei potrà emettere bond per raccogliere sino a 60 miliardi e partecipare ai progetti selezionati in misura del 20% (il resto sarà privato). «C’è molta liquidità che non gira - spiega una fonte -. In questo modo possiamo aiutare programmi un poco più rischiosi e redditizi, per coinvolgere nuovi investitori, soprattutto istituzionali». 15 A Bruxelles sono arrivati 1800 progetti per 1100 miliardi. «Selezioneremo i migliori, senza quote nazionali, per metà 2015», assicurano le fonti, consapevoli dei rischi connessi all’operazione. Risulta che il vicepresidente della Commissione, Jyrki Katainen, voglia andare nelle capitali per invitarle a contribuire, se non per interesse, per dare un segnale di fiducia. Il Piano dice che la Commissione osserverà «favorevolmente» chi investisse pur avendo problemi di contabilità. «Non previste modifiche ai Trattati», si assicura. Dunque è solo una questione di interpretazione. Proprio l’attenzione politica è intanto servita a evitare all’Italia una riscrittura della Legge di Stabilità. Ieri l’esecutivo ha confermato che l’impegno per le riforme del governo Renzi basta a rinviare a marzo ogni valutazione. Durante l’inverno Roma sarà una sorvegliata speciale. Deve tener duro sugli interventi strutturali e sul controllo dei conti. In caso contrario rischia due procedure, una per il debito e una per il disequilibrio macroeconomico. del 26/11/14, pag. 10 L’allarme dell’Ocse L’eurozona rischia anni di stagnazione “E la disoccupazione può salire ancora” Stefano Lepri L’economia dell’area euro rischia di ristagnare per anni, facendo male a sé e al mondo intero; la Banca centrale europea deve fare molto di più, e deve farlo presto. Nel presentare il suo rapporto economico semestrale l’Ocse, organizzazione che lega i 33 Paesi più avanzati del pianeta, ha scelto di insistere su questo solo tema. E’ un nuovo colpo alle interpretazioni di marca tedesca secondo cui l’area euro resta in difficoltà perché nel suo insieme non è abbastanza competitiva. Falso, l’export è l’unica componente in ascesa: la capo economista Ocse, l’americana Catherine Mann succeduta a Piercarlo Padoan, mostra in un grafico che invece a ristagnare sono investimenti e consumi. Dunque si tratta di «carenza di domanda interna». Rispetto agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna, che sono in ripresa seppur debole, rispetto al Giappone che in questo momento è in difficoltà ma che dalla crisi sembra uscito, ciò che manca nell’area euro è una più decisa azione della Banca centrale: quella che Draghi promette ma ancora non riesce a realizzare. La domanda interna si potrebbe rilanciare anche con la politica di bilancio: ma qui l’Ocse resta cauta, ricorda che quasi tutti gli Stati sono troppo indebitati. Solo alla Germania si raccomanda di spendere di più, specie in asili-nido (per permettere a più donne di lavorare) e in infrastrutture: lo stesso «Fiscal Compact» gli permetterebbe una ventina di miliardi di euro. Nel caso di Francia e Italia le manovre di bilancio 2015 paiono appropriate così come sono. Ovvero l’Ocse prende bene il compromesso che si profila tra la Commissione europea e i due governi, fondato sull’impegno a realizzare in fretta riforme. Nel quadro previsionale offerto ieri, la disoccupazione nel nostro Paese comincerà a calare solo nel 2016. In prospettiva l’Italia e la Spagna dovrebbero migliorare la qualità dei loro bilanci pubblici, con più investimenti e meno spese improduttive; la Francia dovrebbe ridurre le imposte sul 16 lavoro; la Germania dovrebbe attuare un ampio programma di liberalizzazioni nel settore dei servizi che, a differenza dell’industria, risulta piuttosto inefficiente. Nell’insieme l’Ocse invita ad usare appieno tutti e tre gli strumenti menzionati anche da Draghi: politica monetaria della Banca centrale, politica di bilancio degli Stati, riforme di struttura. Altrimenti c’è perfino il pericolo (in uno scenario sfavorevole, con persistente bassa inflazione e perdita di fiducia) che nel 2015 e 2016 i disoccupati in Europa tornino ad aumentare. Più passa in tempo, più può prodursi un circolo vizioso: la carenza di investimenti riduce il potenziale di crescita, la disoccupazione prolungata rende i lavoratori più difficili da rioccupare, il debito pubblico sale ancora impedendo ogni misura di rilancio. Nell’analisi dell’Ocse si ritrova il timore di un «decennio perduto» in Europa espresso dal governo degli Stati Uniti. Gli «effetti negativi su tutto il mondo» paventati dal segretario generale dell’Ocse, il messicano Angel Gurrìa, sarebbero sicuramente pesanti, dato che l’area euro conta per 22% del prodotto lordo globale e per il 25% del commercio. Del 26/11/2014, pag. 13 Ocse vede nero sulla ripresa europea mentre vola il Pil Usa: più 3,9% ELENA POLIDORI ROMA . Proprio quando il Pil Usa segna una crescita record del 3,9%, l’Ocse lancia l’allarme sulla ripresa di Eurolandia: aumentano i rischi di una «stagnazione persistente»; per uscirne bisogna agire «con ogni mezzo». C’è anche un appello alla Bce: sono necessarie «ulteriori misure non convenzionali, incluso l’acquisto di titoli di stato» per sostenere l’economia dell’area euro. Fosche sono anche le previsioni Ocse per l’Italia: pil a meno 0,4% quest’anno, in ribasso sulle precedenti previsioni; crescita dello 0,2% appena l’anno prossimo e disoccupazione oltre il 12% fino al 2016. L’Italia è l’unico paese del G7 con un Pil sotto zero quest’anno ed è quello che crescerà di meno nei prossimi dodici mesi. Secondo l’Ocse il governo ha fatto bene a rinviare il pareggio di bilancio e dunque ad allentare l’austerity ma occorre che faccia subito le riforme. Il Jobs act potrebbe favorire la crescita degli investimenti. A detta di Moody’s, invece, non solo le riforme italiane e il risanamento dei conti nazionali restano «incompleti» ma il paese, insieme alla Spagna, è «vulnerabile». Anzi, è «tra i più esposti» a un potenziale cambiamento nei flussi finanziari, nonostante la Bce. Nella visione dell’Ocse quel che accade in Europa, che rappresenta il 22% del Pil globale e il 25% del commercio del pianeta è importante per tutto il mondo. L’attuale debolezza dell’area euro «continua ad ostacolare la crescita globale che resta modesta». Per la cronaca: secondo gli ultimi dati il Pil tedesco nel terzo trimestre è cresciuto dello 0,1% dunque la Germania non è più in recessione tecnica. Opposta la situazione americana. La Casa Bianca, commentando il balzo del Pil, nota come gli States «continuano a trainare la ripresa globale», essendo «emersi dalla crisi finanziaria emersi più forti di altri paesi». Moody’s conferma che sono proprio gli Usa la locomotiva globale. Di certo il balzo del Pil crea effervescenza in Borsa. Solo in chiusura i mercati riducono i guadagni, terminando comunque la giornata con un segno più. Per Milano il rialzo è dello 0,42%. Giù lo spread, fino a quota 139. Il rendimento del bond decennale italiano è pari al 2,14%, il minimo storico. 17 del 26/11/14, pag. 6 Ferguson brucia Luca Celada Dal Missouri a entrambe le coste. Esplode la rabbia nelle strade del sobborgo di St. Louis. Edifici alle fiamme, scuole chiuse. Ottanta arresti per i «riot». Proteste in tutti gli Usa dopo la sentenza che scagiona l’agente responsabile dell’omicidio di Michael Brown Ferguson, Missouri, è stata messa a ferro e fuoco nei disordini proseguiti per tutta la notte dopo l’annuncio che l’agente Darren Wilson non è stato rinviato a giudizio per aver ucciso il diciottenne disarmato Michael Brown lo scorso agosto. Una decisione ampiamente prevista, come scontata è stata la rabbia esplosa nella martoriata località alla periferia di St. Louis. Annunciata anche la violenza della reazione della polizia che ha impiegato lacrimogeni e «proiettili non letali» per disperdere al folla. La situazione è rapidamente e prevedibilmente degenerata e per molte ore gruppi di manifestanti hanno attaccato e incendiato dozzine di negozi, concessionari d’auto e uffici. Alcuni di questi sono stati saccheggiati dalla folla esasperata. È finita, purtroppo, nell’unico modo possibile la vicenda che da mesi ha esacerbato le tensioni razziali nella località del Missouri e riaperto in tutti gli Stati uniti antiche ferite nei rapporti fra polizia e comunità afroamericane. «È peggio della peggiore notte cha abbiamo avuto da agosto in poi» ha affermato il capo della polizia mentre alle sue spalle le fiamme si levavano al cielo. Le sommosse sono state conseguenza diretta della gestione del caso Brown caratterizzata fin dall’inizio dalla palese reticenza della polizia e sulla preponderante evidenza che indicava un’uccisione non giustificata, esacerbata dal pugno di ferro con cui sono state represse già allora le proteste di vicini e familiari. Quelle proteste avevano indotto l’attorney general di Obama, Eric Holder, a inviare sul posto inquirenti dell’Fbi e ad aprire un’inchiesta federale che è ancora in corso. Le autorità locali incaricate di accertare eventuali responsabilità del poliziotto hanno invece affidato la valutazione a un gran giurì che ha impiegato oltre tre mesi per raggiungere la decisione, un processo che da subito era apparso pilotato per raggiungere l’obbiettivo prefissato. Quando il procuratore di Ferguson Robert McCullough ha dato notizia ufficiale della decisione ha voluto farla precedere da una sussiegosa predica di quasi mezz’ora in cui ha ripetutamente ricordato che il ragazzo ucciso aveva «rubato una manciata di sigari», accusato i testimoni oculari di inattendibilità e incolpato stampa e social media per aver alzato il livello della tensione. La legalistica supponenza è servita solo a far infuriare ulteriormente la folla che con la famiglia del ragazzo aveva aspettato per otto ore l’annuncio della decisione. Dietro ai sofismi è rimasta una semplice e amara verità: nelle azioni dell’agente Wilson non sono stati ravvisati gli estremi nemmeno per una sola ipotesi di reato da valutare poi in un processo. Wilson ha esploso due colpi di pistola dalla propria volante durante un’iniziale colluttazione con Brown ferendolo alla mano e in seguito lo ha rincorso mentre questi scappava verso casa facendo fuoco un’altra decina di volte colpendolo ripetutamente e finendolo quando questi si era infine fermato e rivolto verso di lui, con un totale di sei colpi al corpo e alla testa. Nella valutazione del gran giurì in tutto questo comportamento non ci sono estremi sufficienti nemmeno per un processo per omicidio colposo. «La legge ammette gli omicidi 18 nei casi di legittima difesa» ha volute precisare l’incendiario procuratore. O meglio, come ha commentato a caldo uno dei manifestanti all’esterno del tribunale: «Ci hanno detto chiaro e tondo che le nostre vite non valgono nemmeno un giorno di udienza in tribunale». Mentre Ferguson bruciava il concetto è stato ribadito in decine di proteste nelle maggiori città d’America. Manifestanti si sono riuniti davanti alla casa Bianca, hanno marciato nella newyorkese Times Square, a Seattle, Oakland e Los Angeles, dove gruppi di dimostranti si sono riuniti nel quartiere nero di South Central, hanno momentaneamente bloccato il traffico su un’autostrada e hanno marciato lungo Martin Luther King boulevard fino alla centrale di polizia. Molti di quelli che abbiamo visto erano giovani di tutti i colori,parecchi indossavano maschere di Guy Fawkes alla Anonymous e all’indirizzo dell’imponente schieramento si polizia che li sorvegliava hanno scandito lo slogan di «No Justice, no Peace». Mentre le proteste sono proseguite in molte città per tutta la giornata di ieri, fra le macerie fumanti di Ferguson si tenta ora di tirare le somme di quella violenza così puntualmente biasimata come illogica e distruttiva dalla stessa comunità della vittima. Un giudizio di ipocrita moralismo che non tiene mai conto di come, anche stavolta, la rivolta che alla fine ha consumato l’ennesimo ghetto americano è stato l’urlo gutturale di coloro a cui nei canali ufficiali era stata per l’ennesima volta tappata la bocca. Il grido di «bruciate tutto!» («Burn this bitch down!») scagliato nella notte dalla famiglia di Brown dopo il verdetto, è stato l’effetto di un accumulo disperante di ingiustizia iscritta nella memoria razziale e nella lunga storia di discriminazione sociale del paese. Mentre l’America celebra il cinquantenario del movimento per i diritti civili, Ferguson ricorda a tutti gli Stati uniti quanta strada rimanga ancora da fare e come, tra tutti i problemi razziali, la violenza razzista della polizia rimanga un problema inaccettabilmente intrattabile. Ciò che che Ferguson ha ricordato per l’ennesima volta è come le uccisioni di afroamericani da parte della polizia siano un fatto quotidiano che si ripete centinaia di volte all’anno in dozzine di città americane. Esattamente quante nessuno è in grado di dirlo con precisione dato che ufficialmente le statistiche «non vengono mantenute». Ogni singolo dipartimento di polizia avrebbe l’obbligo teorico di renderli noti a chi ne facesse richiesta ma di fatto numeri affidabili sono praticamente irreperibili, nemmeno ad esempio nei database, altrimenti meticolosissimi dell’Fbi. Le vittime appartengono ad ogni razza ma con una forte preponderanza di afroamericani che si stima costituiscano il 40% dei morti (soprattutto i giovani maschi). Nella stragrande maggioranza dei casi la polizia si autoassolve, conducendo prima una indagine simbolica che nella quasi totalità dei casi si risolve in una sentenza di «omicidio giustificato» per autodifesa (nell’insindacabile giudizio degli stessi agenti coinvolti). Nelle comunità nere la brutalità degli agenti si riallaccia ad ingiustizie ataviche ed è storicamente alla base di numerose storiche rivolte e sollevamenti sociali, dal ragazzo il cui arresto ingiustificato provocò le rivolte di Watts nel 1965 al tassista nero picchiato a Newark prima delle sommosse del 1967 al ragazzo nero ucciso da un poliziotto in moto prima dei disordini di Overtown a Miami nell’89 al pestaggio di Rodney King causa delle rivolte di Los Angeles nel ’92. Non a caso,nella conferenza stampa tenuta ieri dai legali della famiglia Brown, il reverendo Al Sharpton ha esortato tutti a «ricordare Rodney King». Come in quel caso, ha affermato il leader afroamericano, l’ingiustizia perpetrata contro Michael Brown ha dato nuova forza al movimento per l’uguaglianza di tutte le razze. E come in quel caso, ha fatto appello alle autorità federali affinché correggano l’iniquità del verdetto. «Il miglior memoriale per Michael Brown saranno nuove leggi che proteggano una volta per tutte i nostri ragazzi» ha concluso Sharpton. «Ieri ci hanno spezzato il cuore ma non la schiena». 19 del 26/11/14, pag. 13 Senza lavoro e più emarginati Neanche Obama ricuce coi neri Il primo Presidente di colore non è riuscito a eliminare i problemi razziali Paolo Mastrolilli L’Isis ha offerto asilo politico ai neri americani. D’accordo, sono i soliti provocatori e criminali. Nella loro offesa, però, c’è un punto, che si legge anche nelle manifestazioni spontanee scoppiate lunedì sera un po’ in tutti gli Stati Uniti, da New York a Beverly Hills. La razza continua a essere il principale elemento di divisione fra gli americani, e lo scontro sembra essere peggiorato durante il mandato del primo presidente nero nella storia della Casa Bianca. Poco dopo il verdetto del Grand Jury, Obama si è rivolto al Paese per dire due cose. Primo: la decisione può non piacervi, e avete tutto il diritto di manifestare la vostra rabbia, ma dovete farlo in maniera pacifica. Secondo: il problema razziale resta, impedisce all’America di sviluppare a pieno le sue potenzialità, e va affrontato con un dibattito nazionale. È stato ascoltato così poco, che mentre parlava le tv già mandavano in onda le immagini dei violenti che sfondavano le auto della polizia, saccheggiavano e incendiavano i negozi. Naturalmente non c’è giustificazione per questo genere di comportamenti, ma dietro c’è una rabbia che va oltre l’episodio dell’uccisione di Michael Brown. Per dimostrare l’emergenza, bastano un paio di dati. A ottobre la disoccupazione è scesa negli Stati Uniti al 5,8%, ma tra i neri è ancora al 10,9%, ossia circa il doppio. Ogni anno nel Paese avvengono circa mille «omicidi giustificabili», come li chiama la polizia, dove in sostanza viene ucciso qualcuno per errore. La maggior parte colpisce gli afroamericani, come ha dimostrato non solo il caso di Brown, che non era un angelo ma era disarmato, ma anche quello del dodicenne ammazzato sabato a Cleveland perché aveva in mano una pistola giocattolo. Il primo problema ha cause ataviche, che risalgono fino all’epoca dello schiavismo. I neri naturalmente hanno la loro parte di responsabilità per le occasioni perse, ad esempio se si paragona il loro successo economico e sociale a quello di altre minoranze, tipo quella asiatica o ispanica. Però basta sapere che dal 1930 al 1960 agli afroamericani venivano negati persino i mutui per la casa, come ha documentato Ta-Nehisi Coates su Atlantic, per capire come quando parti così in basso è sempre molto difficile risalire. Il secondo problema, invece, si spiega con le parole dell’ex sindaco di New York Giuliani: «Nei vostri quartieri non ci sarebbero così tanti poliziotti bianchi, se voi neri non vi ammazzaste in continuazione tra di voi». È vero, nel senso che la maggior parte degli afroamericani vittime di violenze vengono colpiti da altri afroamericani, ma il razzismo della dichiarazione di Rudy è così evidente che non serve indagare oltre il pregiudizio razziale esistente fra le forze dell’ordine. Obama ha potuto fare poco, per la stessa natura della sua storia. Ogni volta che ha aperto bocca su questi temi è stato attaccato, anche quando ha criticato l’arresto di un professore nero di Harvard che era stato fermato mentre cercava di forzare l’ingresso nella sua stessa casa, o quando ha detto che il giovane Trayvon Martin ammazzato in Florida da un vigilantes poteva essere suo figlio. L’ex professore di Princeton Cornel West non gli ha mai perdonato tanta prudenza: «È diventato la mascotte nera degli oligarchi di Wall Street, il pupazzo di colore dei plutocrati». Inutile la risposta che gli ha dato il reverendo nero Al 20 Sharpton: «È la prima volta che in questo Paese abbiamo un presidente afroamericano. Lui non è il presidente degli afroamericani». Del resto la stessa comunità nera ha sempre visto con sospetto Barack, perché non veniva dal ghetto, ma da un padre economista africano e da una madre bianca. Non era un vero nero, e la sua elezione non poteva avere un effetto catartico automatico, mentre per i bianchi razzisti era fin troppo nero, e andava boicottato a tutti i costi. Ferguson è anche il risultato di queste contraddizioni. L’Isis ha offerto asilo politico ai neri americani. D’accordo, sono i soliti provocatori e criminali. Nella loro offesa, però, c’è un punto, che si legge anche nelle manifestazioni spontanee scoppiate lunedì sera un po’ in tutti gli Stati Uniti, da New York a Beverly Hills. La razza continua a essere il principale elemento di divisione fra gli americani, e lo scontro sembra essere peggiorato durante il mandato del primo presidente nero nella storia della Casa Bianca. Poco dopo il verdetto del Grand Jury, Obama si è rivolto al Paese per dire due cose. Primo: la decisione può non piacervi, e avete tutto il diritto di manifestare la vostra rabbia, ma dovete farlo in maniera pacifica. Secondo: il problema razziale resta, impedisce all’America di sviluppare a pieno le sue potenzialità, e va affrontato con un dibattito nazionale. È stato ascoltato così poco, che mentre parlava le tv già mandavano in onda le immagini dei violenti che sfondavano le auto della polizia, saccheggiavano e incendiavano i negozi. Naturalmente non c’è giustificazione per questo genere di comportamenti, ma dietro c’è una rabbia che va oltre l’episodio dell’uccisione di Michael Brown. Per dimostrare l’emergenza, bastano un paio di dati. A ottobre la disoccupazione è scesa negli Stati Uniti al 5,8%, ma tra i neri è ancora al 10,9%, ossia circa il doppio. Ogni anno nel Paese avvengono circa mille «omicidi giustificabili», come li chiama la polizia, dove in sostanza viene ucciso qualcuno per errore. La maggior parte colpisce gli afroamericani, come ha dimostrato non solo il caso di Brown, che non era un angelo ma era disarmato, ma anche quello del dodicenne ammazzato sabato a Cleveland perché aveva in mano una pistola giocattolo. Il primo problema ha cause ataviche, che risalgono fino all’epoca dello schiavismo. I neri naturalmente hanno la loro parte di responsabilità per le occasioni perse, ad esempio se si paragona il loro successo economico e sociale a quello di altre minoranze, tipo quella asiatica o ispanica. Però basta sapere che dal 1930 al 1960 agli afroamericani venivano negati persino i mutui per la casa, come ha documentato Ta-Nehisi Coates su Atlantic, per capire come quando parti così in basso è sempre molto difficile risalire. Il secondo problema, invece, si spiega con le parole dell’ex sindaco di New York Giuliani: «Nei vostri quartieri non ci sarebbero così tanti poliziotti bianchi, se voi neri non vi ammazzaste in continuazione tra di voi». È vero, nel senso che la maggior parte degli afroamericani vittime di violenze vengono colpiti da altri afroamericani, ma il razzismo della dichiarazione di Rudy è così evidente che non serve indagare oltre il pregiudizio razziale esistente fra le forze dell’ordine. Obama ha potuto fare poco, per la stessa natura della sua storia. Ogni volta che ha aperto bocca su questi temi è stato attaccato, anche quando ha criticato l’arresto di un professore nero di Harvard che era stato fermato mentre cercava di forzare l’ingresso nella sua stessa casa, o quando ha detto che il giovane Trayvon Martin ammazzato in Florida da un vigilantes poteva essere suo figlio. L’ex professore di Princeton Cornel West non gli ha mai perdonato tanta prudenza: «È diventato la mascotte nera degli oligarchi di Wall Street, il pupazzo di colore dei plutocrati». Inutile la risposta che gli ha dato il reverendo nero Al Sharpton: «È la prima volta che in questo Paese abbiamo un presidente afroamericano. Lui non è il presidente degli afroamericani». Del resto la stessa comunità nera ha sempre visto con sospetto Barack, perché non veniva dal ghetto, ma da un padre economista africano e da una madre bianca. Non era un vero nero, e la sua elezione non poteva avere 21 un effetto catartico automatico, mentre per i bianchi razzisti era fin troppo nero, e andava boicottato a tutti i costi. Ferguson è anche il risultato di queste contraddizioni. Del 26/11/2014, pag. 17 Le immagini. Per i social network e i media Usa la sagoma di uno sconosciuto di fronte ai mezzi di polizia è ora il simbolo dell’impotenza di fronte a un potere troppo grande e sordo Quel “Tank Man” del Missouri diventato un’icona “Come a Tienanmen” VITTORIO ZUCCONI WASHINGTON SU UNA strada centrale dal gentile nome di Florissant, che da Ferguson riporta dritta verso l’eterno incubo americano in bianco e nero, un omino — sembrano sempre tutti omini — alza le mani per fermare da solo i corazzati della polizia e, su tutti i social network e poi sui media statunitensi a partire da Usa Today, è subito Tienanmen 1989. Nasce, nella notte del fuoco, del fumo, delle lacrime nello Heartland, proprio nel cuore dell’America dove il fiume Missouri si sposa con il padre Mississippi a St. Louis, “Tank Man”, l’uomo del tank, lo sconosciuto che diventa l’icona instant di questa ennesima, banale, già vista e sempre tragica ricaduta nella giustizia non giusta. Naturalmente il Missouri non è la Cina del 1989, ma la collera di chi si sente oppresso da forze troppo grandi e troppo asfissianti non conosce ideologie né Stati. Dunque sarà lui, per ora uno sconosciuto, un altro monumento vivente all’impotenza e alla solitudine di tutti coloro che nel mondo si sentono schiacciati da cingoli di una forza troppo grande e troppo sorda per poter ascoltare. Il fermo immagine della sua sagoma, minuscola di fronte ai blindati di una forza di polizia che avanza in formazione da falange per sgombrare l’arteria centrale di Ferguson, ripreso dalle telecamere della Nbc appollaiate sui tetti per sfuggire ai lacrimogeni, agli spari, ai lanci di mattoni e pietre che hanno ferito altri reporter, entra nell’album dei brutti ricordi e della cattiva coscienza americani. Con il volto mite di Rosa Parks la ribelle dell’autobus, con i cani lanciati contro i dimostranti per i diritti civili in Alabama, con le foto dei ragazzi uccisi nel Mississippi, con i cappucci a cono dei cavalieri bianchi delle tre “K”. Come nella piazza della Porta del Paradiso, la Tienanmen davanti alla Città Proibita, anche questa riproduzione americana venticinque anni dopo dell’omino contro i corazzati, riesce per qualche momento a fermare pacificamente l’avanzata della falange, ma si capisce che la sua è una vittoria temporanea. Lo è perché dietro quei mostri di fari, celle fotoelettriche, lampeggianti e autoblindo mostruosi, che fanno apparire la scena come una sequenza da sci-fi, non c’è, come nella Cina del 1989, solo una dirigenza politica terrorizzata dalla rivolta, ma c’è la maggioranza di una cittadinanza, bianca, ma anche nera, latina, asiatica che spinge i “Transformer” della polizia a reprimere. Dalle rivolte dei ghetti nel 1968, che da Watts a Los Angeles al centro di Washington portarono le fiamme a lambire gli edifici del potere civile, passando per i giorni di Rodney King nel 1991, quando entrai in East L.A. seguendo le stesse colonne corazzate che avevo visto qualche settimana prima entrare a Kuwait City, le sequenze si ripetono perché si vuole che si ripetano. Perché, come nella notte del fumo e del fuoco hanno ripetuto i sapienti della legge interpellati da tutte le tv, il procuratore della Contea di St. Louis che ha 22 condot- to l’inchiesta e l’ha portata davanti ai nove bianchi e ai tre neri che formavano il Gran Giurì, ha organizzato, strutturato, pilotato la procedura di incriminazione per ottenere il «non luogo a procedere». Per proteggere il poliziotto. «Tutti noi avvocati e procuratori e giudici sappiamo benissimo — ha detto Jeffrey Tobin, consulente legale per la Cnn e per il New Yorker — che se un Procuratore lo vuole, può ottenere dal Gran Giurì l’incriminazione di un panino al prosciutto. Bob McCulloch, il procuratore della Contea, voleva arrivare al non luogo a procedere contro il poliziotto che ha ucciso Michael Brown e ovviamente ci riuscito». Non ingannino le immagini dal fronte che corrono oggi sugli schermi delle tv di tutto il mondo o i sondaggi-instant o le reazioni nervose dei social network: la maggioranza dell’America bianca sta dalla parte di chi ha sparato, non del bersaglio caduto. Questa, non le colonne blindate inarrestabili, è la marcia della follia che l’“omino” della South Florissant Avenue voleva fermare alzando le mani per mostrare di essere inerme, inoffensivo, ben diverso da coloro che erano arrivati nello “Heartland”, a St. Louis per mescolarsi al dolore dei locali e appiccari i falò della rivolta. È la certezza — oggi più che mai rinfocolata da una decisione giudiziaria che non trova ragione per processare, non per condannare, un agente che ha esploso dieci rivoltellate a cinque metri di distanza su un giovane disarmato in pieno giorno — che la partita sia truccata, che il risultato sia scritto prima dell’inizio. Eppure Ferguson non è il Sud delle bombe nelle chiese Battiste di Birmingham che uccisero bambine afro durante il catechismo, non è la Georgia o il Mississippi delle croci in fiamme davanti alle case degli ex schiavi. St. Louis, sotto il colossale arco di acciaio dal quale la vista si estende nella vertigine della Grande Prateria a Ovest, è la città che da due secoli incardina l’Est al West, lo snodo dei grandi sentieri che conducevano i carri coperti e le mandrie nella corsa alla Frontiera, lungo quella che oggi è l’autostrada più rettilinea d’America, la numero 70, fino al Colorado. Non servono i luoghi comuni dello Zio Tom o dell’Ispettore Tibbs per uno Stato come il Missouri, che nella Guerra Civile si divise, in una guerra interna, fra Nord e Sud, fra schiavisti e abolizionisti, inviando battaglioni dei propri figli a morire a migliaia sotto i panni grigi come sotto quelli blu. È sempre stata, e l’icona del Tank Man davanti ai blindati lo ricorda e lo simboleggia, una terra di frontiera nelle crisi, negli scontri, nelle contraddizioni, e nelle opportunità. Ma anche di verità, come queste ore ci mostrano e come predicava un uomo che proprio qui, venendo dall’Ungheria e comprando il quotidiano locale Post Dispatch, inventò il giornalismo moderno che ci ha dato la foto dei “Tank Men” sulla Tienanmen e sulla Florissant Avenue. Si chiamava Joseph Pulitzer e sarebbe stato orgoglioso, oggi, di quel fotogramma che racconta la storia. del 26/11/14, pag. 6 Usa o Iraq? La militarizzazione della polizia tra le cause della morte di Michael Brown Guido Caldiron Forze dell'ordine. L'equipaggiamento come nelle zone di guerra. Dal 2006 ad oggi, 432 veicoli blindati, 533 aerei ed elicotteri, e oltre a 90mila armi automatiche trasferiti dai militari ai poliziotti «Ferguson o Iraq?». Dopo che il 9 agosto il 18enne afroamericano Michael Brown era caduto sotto i colpi di un agente di polizia bianco a Ferguson, il sito scozzese Mashable, 4 milioni di contatti su Twitter quest’anno, aveva accostato una serie di fotografie che erano state scattate nella cittadina del Missouri nelle ore successive alla morte del ragazzo, con 23 quelle arrivate negli ultimi anni da Baghdad. Difficile cogliere la differenza, se non perché nel primo caso ad essere controllati e identificati in mezzo alla strada erano quasi esclusivamente dei neri. Simili le divise mimetiche, gli elmetti utilizzati dai reparti speciali delle forze dell’ordine o della Guardia nazionale, i fucili d’assalto imbracciati dagli agenti, i blindati su cui erano state montate delle piccole mitragliatrici che pattugliavano la zona. Nessuno avrebbe potuto dire con certezza che questa banlieue di Saint Louis si trovasse non lontano dalla linea Mason-Dixon, piuttosto che in Medioriente. Ora che un Grand Jury composto prevalentemente da giudici bianchi ha derubricato a «legittima difesa» l’omicidio di Brown, stabilendo che l’agente, bianco, Darren Wilson non debba essere processato per l’accaduto, quel drammatico paragone con le guerre che gli Stati Uniti combattono in giro per il mondo, torna ad echeggiare nel dibattito pubblico del paese. Perché, insieme al perdurare dei pregiudizi razziali e della segregazione sociale degli afroamericani, ciò che ha reso possibile la tragedia di Ferguson, è la modalità stessa in cui viene gestito “l’ordine pubblico” in America. Iniziata già alla fine degli anni Sessanta, a seguito delle rivolte urbane che scossero il paese, la progressiva militarizzazione dei corpi di polizia locali è diventata una delle caratteristiche della realtà sociale americana. Prima la «war on drugs» lanciata già negli anni Ottanta e quindi l’ulteriore escalation militarista seguita ai riot di Los Angeles del 1992, hanno reso molti uffici degli sceriffi di contea del tutto simili a piccole guarnigioni delle forze armate. Come evidenziato, tra gli altri, da uno studio realizzato dalla Scuola di studi sulla polizia dell’università del Kentucky Orientale, centinaia di dipartimenti delle forze dell’ordine si sono dotati nel corso degli ultimi decenni di veri e propri corpi paramilitari, in grado di scegliere quali armi e quale tipo di addestramento far seguire ai propri agenti che si sono così spesso trasformati, come sottolineato dalla rivista Covert Action, in «una sorta di combattenti ninja». Non solo, l’industria degli armamenti ha puntato molto su questo tipo di tendenza, riciclando per così dire sul mercato interno, armi e mezzi non più utilizzabili sui teatri di guerra internazionali. Recentemente il New York Times ha rivelato che solo dal 2006 ad oggi qualcosa come 432 veicoli blindati, 533 aerei ed elicotteri, oltre a 90mila armi automatiche sono passati direttamente dalle mani dei militari a quelle dei poliziotti. In questo clima, sono il sospetto e la paura reciproca che regnano spesso per la strade dei ghetti neri o dei quartieri dell’immigrazione, con le tragiche conclusioni che sono sotto gli occhi di tutti. Per Joseph McNamara, ricercatore della Stanford University, «quando nella tua zona gira della gente in divisa militare, con armi e veicoli militari, è più facile credere che si tratti di un esercito di occupazione che della polizia locale». Del 26/11/2014, pag. 15 LA GIORNATA “Non chiudo la porta al dialogo con l’Is” MARCO ANSALDO L’immagine del pioppo usata dal poeta Clemente Rebora («i rami protesi al cielo, il tronco solido, le radici che s’inabissano»). Un richiamo a Martin Lutero. Una citazione di Ernesto Cardenal. Sorride il Papa, è sereno e rilassato in volo, prima dello sbarco all’aeroporto di Strasburgo. E nell’emiciclo del Parlamento Europeo il suo discorso raccoglie 13 applausi a scena aperta, una standing ovation finale, e molti consensi anche nei corridoi del Consiglio dove fa la sua seconda apparizione della sua breve ma intensa visita nel cuore dell’Europa. Una tappa di 3 ore e 50 minuti, la più rapida nell’ormai lunga storia dei viaggi 24 papali. L’ultima volta di un Pontefice qui fu nel 1988, con Giovanni Paolo II. Ma era un continente, un mondo, completamente diverso: solo 12 Paesi, mentre oggi sono 28, e il Muro di Berlino ancora in piedi. Poi, come spesso succede, da quando Francesco si concede ai media sul volo del ritorno, arrivano altre suggestioni. Come il tema del terrorismo, urgente visto che dopodomani Francesco già riparte per la Turchia, Paese al confine con Iraq e Siria. E alla domanda se pensa che con «questi terroristi» si possa avere un dialogo, risponde: «Non so se si possa dialogare con lo Stato Islamico, ma io non chiudo mai una porta. È sempre aperta. C’è la minaccia dei terroristi, ma c’è anche un’altra minaccia: quella del terrorismo di Stato. Quando la violenza sale, lo Stato si sente in dovere di massacrare i terroristi, e così spesso colpisce anche chi è innocente. Bisogna fermare l’aggressore ingiusto, ma nessun Paese ha il diritto di farlo per conto suo». Alla richiesta di capire meglio le parole sulla “trasversalità” dei politici giovani, dopo il breve incontro con il premier italiano Matteo Renzi nella sua qualità di presidente di turno della Ue, Jorge Mario Bergoglio spiega: «Nei miei dialoghi con i giovani politici, al di là della loro appartenenza, ho potuto vedere che parlano con una musica diversa, tendente alla trasversalità, che è un valore. Sono coraggiosi». E a chi gli chiede se i suoi sentimenti siano socialdemocratici, replica: «Questo è un riduzionismo. Io mi sento in una collezione di insetti, lì... Questo è un insetto socialdemocratico! No, io non oso qualificarmi di una o di un’altra parte. Il mio è il messaggio del Vangelo, della dottrina sociale della Chiesa». Immediato il suo richiamo a quanto detto nel Consiglio d’Europa: «Abbiamo troppe cose, che spesso non servono, ma non siamo più in grado di costruire autentici rapporti umani. E così abbiamo davanti l’immagine di un’Europa ferita, un po’ stanca e pessimista, che si sente cinta d’assedio dalle novità che provengono dagli altri continenti». del 26/11/14, pag. 15 Il dominio da Algeri al Pakistan Così il Califfo crea le sue colonie In Libia e Sinai i miliziani hanno già giurato fedeltà alla bandiera dello Stato islamico Maurizio Molinari A cinque mesi dalla proclamazione, il Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi vanta due colonie e ne reclama altrettante: il merito è di uno degli uomini che furono più vicini a Osama bin Laden. Zammar e l’11 settembre Il personaggio in questione è Mohammed Haydar Zammar, siriano con cittadinanza tedesca, che ebbe un ruolo-chiave nella preparazione degli attacchi dell’11 settembre 2001 contro gli Stati Uniti perché fu lui a reclutare, ad Amburgo, il capo del commando Mohammed Atta, i futuri piloti Ziad Samir Jarrah e Marwan al-Shehhi, ed anche il coordinatore Ramzi Binalshibh. Catturato in Marocco alla fine del 2001 e trasferito nel 2002 con una «rendition» americana in Siria, Zammar venne condannato a morte da Bashar Assad e imprigionato nel penitenziario di Aleppo ma nel 2013 il regime siriano ha accettato di liberarlo nell’ambito di uno scambio di prigionieri con i ribelli islamici. La scelta di Zammar è stata di rifugiarsi a Raqqa, la capitale dello Stato Islamico (Isis) che al-Baghdadi ha proclamato Califfato lo scorso 29 giugno, trasformandosi in uno dei suoi consiglieri più stretti. In particolare, al-Baghdadi gli ha affidato il compito di occuparsi delle 25 «colonie» dello Stato Islamico ovvero dei territori lontani dall’area Siria-Iraq dove operano gruppi jihadisti che possono unirsi a Raqqa. Gli jihadisti egiziani Forte del prestigio che gli viene dall’essere stato a fianco di Bin Laden e dalla credibilità legata all’11 settembre, Zammar ha scelto come prima tappa il Sinai dove ha incontrato le cellule jihadiste di «Ansar Bayt al-Maqqdis» ottenendo una formale adesione al Califfato, e sempre lui si è recato a Derna, in Libia, siglando con il leader jihadista locale Abu al-Baraa el-Azdi l’accordo che ha portato la città ad annunciare l’entrata nello Stato Islamico. Al-Baghdadi ha fatto riferimento ai successi di Zammar, in maniera implicita, nell’audio registrato per smentire la morte in un attacco Usa, enumerando i Paesi da dove ha ricevuto «attestati di solidarietà». Arruolare Belmokhtar Fra questi ha incluso anche l’Algeria perché si tratta della nuova, e non facile, missione dell’ex reclutatore di Al Qaeda. Il gruppo algerino «Soldati del Califfato» in settembre ha sequestrato e ucciso l’ostaggio francese Herve Gourdel per dimostrare la fedeltà ad alBaghdadi e Zammar è partito proprio dal capo di questo gruppo, Khaled Abu Suleiman, per riuscire a contattare il vero obiettivo della sua missione: Mokhtar Belmokhtar ovvero l’imprendibile e feroce leader di «Al Qaeda nel Maghreb Islamico» che nel gennaio 2013 uccise oltre 40 stranieri nell’assalto all’impianto energetico di In Amenas. Dato più volte per morto da Usa, Francia e Mali, Belmokhar è fra i cinque terroristi più ricercati d’Africa e Zammar lo sta cercando per offrirgli qualcosa che solo uno Stato può garantire: casa, lavoro e uno stipendio in dollari (con molti zeri) in una delle più lussuose abitazioni di Raqqa. I tentacoli in Asia La tappa seguente di Zammar dovrebbe essere in Pakistan per far nascere la nuova «colonia» locale grazie ai «Jundallah», tutti ex taleban, ed al gruppo anti-sciita «Lashkare-Jhangvi». Se Zammar continuerà a raccogliere successi per lui si annuncia un ruolo di primo piano nell’organigramma del Califfato anche se Bruce Riedel, ex capo dell’antiterrorismo di Obama ora in servizio come direttore dell’Intelligence Project di Brookings Institution, ritiene che al-Baghdadi abbia ben altro in mente per lui: fargli organizzare un attacco all’America capace di far impallidire il ricordo del crollo delle Torri Gemelle. Del 26/11/2014, pag. 19 Gentiloni. Parla il ministro degli Esteri “Se verrà avviato un vero processo negoziale l’Italia sarà in prima linea” Questa sera il dialogo con Lerner a “Fischia il vento” “La Libia è al collasso se l’Onu ce lo chiede pronte le nostre truppe per aiutare il Paese” GAD LERNER L’ITALIA sta attrezzandosi per fronteggiare la guerra che le si presenta alle porte? Vado alla Farnesina per chiederlo al nuovo ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, formatosi nella cultura del pacifismo e del disarmo, oggi rimessa drammaticamente in discussione dall’incendio che divampa lungo tutta la sponda sud del nostro mare. A cominciare dalla vicinissima Libia. Ministro Gentiloni, prima o poi diventerà inevitabile un intervento in Libia per impedire che il terrorismo e la pirateria se ne impadroniscano definitivamente? 26 «Non dobbiamo ripetere l’errore di mettere gli stivali sul terreno prima di avere una soluzione politica da sostenere. Ma certo un intervento di peacekeeping, rigorosamente sotto l’egida Onu, vedrebbe l’Italia impegnata in prima fila. Purché preceduto dall’avvio di un percorso negoziale verso nuove elezioni garantito da un governo di saggi. In assenza del quale mostrare le divise rischia solo di peggiorare la situazione. Ci stiamo lavorando, con i paesi dell’area e con le Nazioni Unite». Bisogna rivedere la strategia del disimpegno occidentale nella lotta contro l’Is? Per questo Obama ha rimosso il capo del Pentagono? «Non conosciamo i motivi dell’avvicendamento di Hagel. In Iraq, gli Usa e la coalizione di cui facciamo parte stanno intervenendo per bloccare l’avanzata del Daesh. Evitiamo di chiamarlo Is, perché a fronteggiarsi sono anche due visioni dell’Islam e noi dobbiamo evitare di mettere tutti nello stesso sacco. È un impegno che ricade naturalmente anche sull’Italia, con i suoi ottomila chilometri di coste, ma tutta l’Europa è chiamata a farsi carico di affrontare questa minaccia. Non potremo più delegare gli americani, peraltro strategicamente meno interessati di noi alle sorti del Medio Oriente». Va preso alla lettera il fotomontaggio della bandiera nera del Daesh sulla cupola di San Pietro? «Credo piuttosto che faccia parte di un’auto-rappresentazione finalizzata all’egemonia sull’Islam, un tentativo che dobbiamo contribuire a scongiurare. Ne fa parte il fenomeno dei foreign fighters, i miliziani europei che possono trasformarsi in una minaccia seria anche in casa nostra. Si tratta di unire le forze, come sta avvenendo a Kobane, dove la resistenza dei curdi non sarebbe possibile senza gli strike aerei occidentali». Di questa grande alleanza può far parte anche l’Iran? L’Italia vede con favore il proseguimento dei negoziati con Teheran sul nucleare? «È impensabile un assetto equilibrato della regione senza coinvolgere l’Iran, non solo per il comune interesse contro il Daesh ma anche per l’influenza che Teheran esercita sulle comunità sciite. Non è facile, come dimostra il negoziato sul nucleare. Ma la porta è rimasta aperta». E Israele, con la nuova legge sulla natura ebraica dello Stato proposta dal governo Netanyahu, sta aggravando la tensione? «Non tocca a me giudicare ipotesi legislative che riguarderanno, vedremo con quale testo, la Knesset. Ma una cosa è certa: un quinto della popolazione israeliana è costituito da cittadini di origine araba e questi devono godere di una incontrovertibile parità di diritti». L’Italia vende armi e sollecita investimenti finanziari dai paesi del Golfo, ricchissimi ma ambigui nella loro visione di un Islam totalitario… «Per risponderle guarderei piuttosto all’Egitto, un grande paese certamente contraddittorio al proprio interno sul tema dei diritti umani. Eppure in questi mesi ha svolto una funzione di stabilizzazione e perfino di pacificazione». Quindi il contenimento della minaccia jihadista implica di nuovo l’appoggio occidentale ai dittatori, come avveniva prima delle rivolte del 2011? «Assolutamente no, noi non dimentichiamo i diritti umani, e il laboratorio tunisino dimostra che un’alternativa è possibile. Tornando alla crisi libica, certo non rimpiangiamo la caduta di Gheddafi. Abbatterlo era una causa sacrosanta. Ma poi?». Poi c’è il dilemma esistenziale della guerra alle porte. Napolitano critica le “visioni ingenue” di rinuncia e di tagli allo “strumento militare”. «È vero che abbiamo coltivato l’illusione di un mondo futuro tranquillo e pacificato. Ora sappiamo di non poter più delegare agli americani le nostre responsabilità. La Libia rappresenta per noi un interesse vitale per la sua vicinanza, il dramma dei profughi, il rifornimento energetico… Non a caso manteniamo aperta a Tripoli la nostra ambasciata che fornisce un supporto logistico insostituibile alla mediazione dell’Onu ». 27 Ma esiste ancora la Libia, o la dissoluzione dello Stato l’ha trasformata in un territorio assoggettato ai signori della guerra e alla pirateria? «Se anche, semplificando, descrivessimo una Libia spaccata in due fra Cirenaica e Tripolitania, bisogna sapere che nessuna delle due parti è in grado di prevalere militarmente sull’altra. La Banca centrale libica continua a funzionare, paga gli stipendi ai dipendenti pubblici sull’intero territorio dello Stato, utilizzando i proventi di gas e petrolio che anche l’Eni continua a versarle. Non ci rassegniamo alla dissoluzione della Libia. Saremo parte attiva nell’individuare una transizione politica unitaria cui subordiniamo l’eventualità di una presenza militare di peacekeeping ». Come ai tempi della guerra di Spagna ci sono due opposte visioni del mondo che si fronteggiano? «Preferirei dire che a fronteggiarsi sono due opposte visioni dell’Islam. Noi non possiamo rimanere neutrali di fronte a questo dramma, né tanto meno aggravarlo confondendo il Daesh con i Fratelli musulmani, le moschee con l’Autorità nazionale palestinese, cioè facendo finta che sia tutto la stessa cosa». 28 INTERNI Del 26/11/2014, pag. 2 Sì al Jobs Act, il Pd si spacca in 33 non votano la legge Renzi: “Siete come FI e M5S” Ventinove democratici escono dall’aula, due astenuti e due contro Il capo del governo: “Risultato storico, niente sanzioni ai dissidenti” GIOVANNA CASADIO In trecento escono dall’aula di Montecitorio. Il Jobs Act passa senza di loro, senza cioè il fronte delle opposizioni che va dalla Lega a Sel, al M5Stelle. Ma soprattutto senza un pezzo della sinistra Dem. Sono 316 i sì alla riforma del mercato del lavoro che Renzi considera una pietra miliare della politica del governo. Si abolisce l’articolo 18 e nel Pd esplode il caos. Il partito è frantumato. La minoranza interna si spacca. In 29 firmano un documento in cui lanciano la sfida al premier. Insieme a Cuperlo, Fassina, Boccia, Bindi, Zoggia, D’Attorre, ci sono anche Michela Marzano, Carlo Galli, Roberta Agostini. In tutto gli assenti dem al momento dell’approvazione sono 40, mentre Pippo Civati e Luca Pastorino votano contro e altri due si astengono. Anche se il dissenso “organizzato” si ferma a 33 parlamentari. Renzi incassa la vittoria, però si sfoga: «I nostri che sono usciti si sono messi insieme a Brunetta e ai grillini, si ritrovano con loro». Marca, il premier, la differenza tra i dissidenti e chi, come gli ex segretari del Pd Bersani e Epifani, hanno votato a favore, nonostante i dubbi. «Ho fatto un accordo serio - spiega - con Bersani, Epifani, Speranza, Orfini e al di là di tutto, abbiamo dimostrato di avere la maggioranza assoluta. E l’abbiamo fatto senza voto di fiducia, così tutti si sono potuti dichiarare. E se i grillini sono usciti dall’aula è perché Grillo sapeva che qualcuno di loro avrebbe potuto votare con noi». Il Pd è un puzzle di posizioni contrastanti. Nella stessa sinistra dem la tensione vede contrapposti i “trattativisti” e i dissidenti. Tanto che a sera arriva un “contro documento” a difesa del Jobs Act di Area riformista, la corrente che ha in Roberto Speranza e nel ministro Maurizio Martina i suoi leader. È un pesante atto d’accusa ai dissidenti giudicati privi di senso di responsabilità: «Senza di noi saltava il numero legale e il governo». Speranza e Cesare Damiano dicono che c’è «un problema politico » e in direzione bisognerà parlarne. Rischiano espulsioni? È lo stesso Renzi a sgombrare il campo: «Niente provvedimenti. Certo, ci sarà il tema della disciplina di partito in vista della lista unica dell’Italicum, ma non sono previste sanzioni». Ritiene, in pratica, i dissidenti isolati. Del 26/11/2014, pag. 4 Cosa prevede il Jobs Act. Ci sarà il contratto a tutele crescenti per i neoassunti e il demansionamento in seguito a una riorganizzazione. Reintegro solo in alcuni casi di licenziamento disciplinare illegittimo. Niente Cig se l’azienda non ha più futuro 29 Addio art.18, indennità a chi perde il lavoro Via al controllo su pc e cellulari aziendali ROBERTO MANIA Una formula americana, Jobs Act, non ha impedito che in Italia si scatenasse l’ennesimo scontro sulla riforma dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970, quello sui licenziamenti ingiustificati. Eppure il “pacchetto Renzi” sul lavoro — diverso dall’originale obamiano Jobs Act (acronomico di Jumpstart Our Business Startup) che puntava su norme e finanziamenti a favore delle nuova piccole imprese per creare nuova occupazione — ha, sulla carta, anche altri obiettivi: ridurre la precarietà sfoltendo la selva delle tipologie di contratti atipici, fare del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti il perno del nuovo mercato del lavoro, estendere gli ammortizzatori sociali, così come le tutele per la maternità a chi oggi ne è privo, favorire il ricorso ai contratti di solidarietà al posto della cassa integrazione, rafforzare il ruolo dello Stato centrale nelle politiche attive per il lavoro con la nascita dell’Agenzia nazionale del lavoro e forse anche destinando più risorse visto che siamo in fondo alla classifica europea con solo lo 0,025 per cento del Pil. Insomma, cambiare il mercato del lavoro, cominciando a spostare le tutele dal posto di lavoro (tarate così in base alle dimensioni dell’azienda, al suo settore di attività e anche alla sua collocazione geografica) al lavoratore nel suo percorso professionale, sperimentando pure il salario minimo per chi non è coperto dai contratti e rivedendo gli incentivi all’occupazione. In qualche modo la via italiana alla flexicurity. Tutta ancora da scrivere, però. Perché la legge approvata ieri dalla Camera e alla quale il Senato darà il via libera definitivo nella prima decade di dicembre, delega il governo a definire nel dettaglio, con i decreti attuativi, le soluzioni concrete. A cominciare da quella sui licenziamenti individuali senza giusta causa. I LICENZIAMENTI Il vecchio articolo 18 dello Statuto, quello che prevedeva il reintegro nel posto di lavoro nel caso di licenziamento individuali senza giusta causa, non c’è ormai più. Già la legge Fornero del 2012 l’aveva fortemente depotenziato. Il reintegro resterà solo nei casi di licenziamenti nulli o discriminatori, decisi, cioè, sulla base del sesso, della religione, delle opinioni politiche ecc, del dipendente. In questi casi, accertati dal giudice, il lavoratore licenziato avrà diritto a tornare nel suo posto di lavoro. Per i licenziamenti economici, quindi conseguenti ad una crisi dell’azienda, sarà previsto esclusivamente il risarcimento monetario. Riemergerà la cosiddetta “tutela reale” (il reintegro) solo in alcune «specifiche fattispecie » dei licenziamenti disciplinari, ben tipizzate in modo tale da ridurre al minimo la discrezionalità dei giudici. I tecnici di Palazzo Chigi e del ministero del Lavoro stanno già scrivendo le norme attuative. Si è ipotizzato di limitare il reintegro ai lavoratori licenziati con l’accusa rivelatasi poi infondata di aver commesso un reato perseguibile d’ufficio. Più probabilmente il reintegro scatterà quando si accerterà che il dipendente è stato licenziato sulla base di un’accusa poi scoperta falsa, come quella, per esempio, di aver rubato. Non è escluso che il datore di lavoro possa optare per il pagamento di un indennizzo ma più alto di quello previsto nelle altre situazioni. Nei casi di conciliazione diretta tra le parti il lavoratore non dovrebbe pagare le tasse sulla cifra ottenuta come risarcimento. IL CONTRATTO A TUTELE CRESCENTI Il decreto attuativo sul nuovo articolo 18 sarà anche quello che introdurrà il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. Il governo vuole che entri in vigore dal primo gennaio del 2015 insieme agli incentivi fiscali e contributivi (eliminazione del costo del lavoro dal calcolo dell’Irap, azzeramento dei contributi per i primi tre anni) previsti dalla legge di Stabilità per i neo-assunti. È il contratto su cui scommette l’esecutivo. Per tutti i neoassunti (compreso chi passerà da un posto ad un altro) con contratto a tutele crescenti 30 varranno le nuove regole sui licenziamenti. A crescere sarà solo l’ammontare dell’indennizzo in caso di licenziamento ingiustificato. E crescerà con l’anzianità di servizio maturata dal lavoratore. MENO CONTRATTI ATIPICI Parallelamente con l’arrivo del contratto a tutele crescenti, incentivato dagli scontri fiscali e contributivi, dovrebbero ridursi le altre tipologie contrattuali. In ogni caso il nuovo contratto non sarà l’unico contratto, come si era ipotizzato diverso tempo fa. Il governo ha detto che intende far morire i contratti di collaborazione (i co. co. co) ma non ha precisato quali altre tipologie scompariranno. NUOVI AMMORTIZZATORI SOCIALI Cambierà anche l’attuale Aspi (assegno sociale per l’impiego), cioè la vecchia indennità di disoccupazione, e la cosiddetta mini-Aspi, destinata oggi alle circa 300 mila collaborazioni monoc ommittenti che il governo vuol fare rientrare nel lavoro subordinato. La platea dei destinatari dell’Aspi dovrebbe essere estesa e forse anche la durata. Molto dipenderà dalle risorse disponibili, per ora ci sono 1,9 miliardi. La riforma complessiva della cassa integrazione arriverà solo in un secondo momento. Nella legge è già stabilito che la cessazione dell’attività aziendale o anche solo di un ramo non permetterà come accade oggi di accedere alla cassa integrazione. MANSIONI E CONTROLLI E in caso di crisi aziendali sarà possibile demansionare il lavoratore per salvaguardare il suo posto di lavoro. L’abbassamento dell’inquadramento professionale non dovrebbe comportare una riduzione della retribuzione. Possibili pure i controlli a distanza sugli impianti e sugli strumenti da lavoro (dal personal computer al cellulare) affidati al dipendente. Del 26/11/2014, pag. 10 Bindi: si torni all’Ulivo o noi usciamo Matteo ha deluso, è già in caduta L’esponente della sinistra: se il Pd non cambia ci sarà bisogno di una nuova forza ROMA «Non ci siamo divisi...». La minoranza si è spaccata in tre, presidente Rosy Bindi. «Gli obiettivi di chi ha votato no e di chi ha lasciato l’Aula, come me, erano gli stessi. Marcare la distanza netta da un provvedimento che, eliminando il diritto al reintegro, considera il lavoro come una merce». L’indennizzo non basta? «È un passo indietro profondo, secolare, rispetto alla dignità del lavoratore richiamata dal Papa. Oltre a non condividere il merito io ho voluto prendere le distanze dal messaggio che il premier ha costruito in questi mesi. Le sue parole hanno scavato un solco tra il governo, il segretario del Pd e il mondo del lavoro, la parte più sofferente dell’Italia. Abbiamo visto la delegittimazione del sindacato e una provocazione davvero lontana dalla situazione reale degli italiani». Pensa che l’astensionismo nasca da qui? «Tra Emilia e Calabria il Pd ha perso 750 mila voti. Se alle Regionali avessero votato gli stessi elettori delle Europee dovremmo dire che oggi il Pd è tornato al 30%, un numero più vicino al 25 di Bersani che non al 41 di Renzi». 31 L’astensionismo è ininfluente, secondo lui. «Affermazione molto grave. L’astensionismo è un problema per la democrazia di un Paese, per il Pd e anche per il governo. Il premier ha fatto campagna in prima persona e ha lanciato dal podio dell’Emilia uno dei messaggi piu gravi quando ha detto che lui crea lavoro, mentre il sindacato organizza gli scioperi. Con le Regionali Renzi si è unito ai tanti salvatori della patria a cui gli italiani amano affidarsi, per poi sperimentare la cocente delusione». Rimpiange Enrico Letta? «Il paragone non è con Letta. È con Grillo, con Salvini, con il Berlusconi dei primi anni. La rottura della politica col Paese reale è profonda e sembra rimarginarsi quando gli italiani si affidano al salvatore di turno, per poi delusi andare a ingrossare l’unico partito che vince, quello dell’astensione. Il voto di domenica dimostra che è iniziata la parabola discendente, anche di Renzi». Gufa perché rottamata? «Sono stati rottamati 750 mila elettori in un colpo solo, non la Bindi. Questa categoria è servita a Renzi per vincere, ma ora, per continuare a governare, deve prendere per mano la povertà, le periferie, il dissesto del territorio, la crisi industriale. Chi guida i processi politici deve indicare il cammino, la speranza, e responsabilizzare tutti nella fatica della paziente ricostruzione». La minoranza chiederà il congresso anticipato? «Il gioco interno al Pd non interessa agli italiani, figuriamoci a me. Quel che mi interessa è che ci sia una forza politica che abbia il coraggio di ricostruire il tessuto democratico e affrontare una crisi economica sempre piu grave». Progetta la scissione? «Dico che questa è la funzione del Pd, se ha memoria delle origini, se non vagheggia l’idea del partito unico della nazione e se è un partito riformista, ma di sinistra. Quello sul Jobs act è stato un primo passaggio di merito, ma ora ce ne sono altri non meno importanti». La riforma costituzionale? «Appunto. Così è irricevibile, umilia il Parlamento e lo rende subalterno al governo». La legge di Stabilità? «Non può essere una mera, finta restituzione delle tasse, c’è bisogno di sostegno vero al lavoro e agli investimenti». E l’Italicum, lei lo vota? «Se il patto del Nazareno non ha più futuro, nessuno pensi di portare avanti quella legge elettorale con sostegni diversi in Parlamento. C’è da dare al Paese una legge che assicuri il bipolarismo, non attraverso i nominati e il premio di maggioranza al partito unico». E se Renzi va a votare? «Questo risultato dovrebbe farlo riflettere, non è tempo di facili ricorsi alle urne. Voglio sperare che al di là del messaggio grave, sbagliato e pericoloso che ha mandato all’Italia, Renzi abbia un momento di ripensamento serio. Spero cambi stile e accetti il confronto. E si ricordi che il segno di chi ha la responsabilità più alta è unire, non dividere». Perché non uscite per fondare una forza alternativa, guidata da Landini? «Se il Pd torna a essere il partito dell’Ulivo, che unisce e accompagna il Paese, non ci sarà bisogno di alternative. Ma se il Pd è quello di questi ultimi mesi, è chiaro che ci sarà bisogno di una forza politica nuova». Una forza minoritaria? «Tutt’altro che minoritaria, una forza di sinistra, competitiva con il partito della nazione. E allora servirà, oltre alle idee, la classe dirigente». La sinistra fuori dal Pd non è un ferro vecchio? 32 «Renzi sbaglia quando si paragona al partito a vocazione maggioritaria di Veltroni, che prese il 33% e ridusse la sinistra radicale a prefisso telefonico. Quello era collocato nel centrosinistra e non ambiva a fare il partito pigliatutto. Se il Pd è quello di questi mesi una nuova forza a sinistra non sarà residuale, ma competitiva. E sarà un bene per il Paese, se non vogliamo che il confronto si riduca ai due Matteo. Sarà una sinistra riformista e plurale, ma sarà una sinistra. Sarà il Pd». Il voto sul Quirinale sarà una resa dei conti? «Quando dovremo confrontarci su quella scelta, spero più tardi possibile, io auspico che venga fatta ricercando l’unità del Paese. Fu un bene bocciare la riforma del centrodestra, che riduceva il capo dello Stato a portiere del Quirinale». Perché Renzi dovrebbe cercare un nome non condiviso? «Ci sono molti modi per ridurre il ruolo del Colle, come rinunciare alla ricerca della personalità più autorevole per considerarla strumentale alla politica del governo. Sarà fondamentale trovare la persona che più unisce e la cui autorevolezza sia considerata indiscussa, da tutti». Monica Guerzoni Del 26/11/2014, pag. 6 Legge elettorale Braccio di ferro sull’iter della riforma e la trattativa sul successore di Napolitano. E gli esperti avvertono: la soglia alta favorisce i “grandi” Berlusconi: “Prima il Colle poi il nostro sì all’Italicum” Il premier: “Non esiste va approvato a dicembre” FRANCESCO BEI Quanto vale il Colle? Per Berlusconi tanto, tantissimo. Vale per esempio il voto favorevole all’Italicum, con il premio alla lista e tutto il vagone di modifiche — comprese le soglie di sbarramento al 3% salva cespugli — che nel tempo Renzi gli ha attaccato in coda. È il Grande Scambio che in queste ore il leader di Forza Italia ha recapitato a palazzo Chigi. Un accordo politico per abbracciare le due scadenze più importanti della legislatura: la scelta del successore di Napolitano e l’approvazione della nuova legge elettorale. In questo ordine. «Prima concordiamo insieme un nome per il Quirinale — è l’offerta dell’ex Cavaliere — e poi daremo il via libera alla legge elettorale. Anche con il premio alla lista più forte e non alla coalizione ». E chi sia secondo lui il nome più adatto per il Colle Berlusconi lo va dicendo da tempo nei colloqui riservati: l’ex presidente del Consiglio Giuliano Amato. Questo è il “deal” sul tavolo. Ma la risposta che arriva da Matteo Renzi è secca e senza alternative. «No grazie». Lo scambio è inaccettabile. I tempi della riforma elettorale restano quelli fissati durante l’ultimo incontro a palazzo Chigi. Nessuna deroga, nessun rinvio. «Berlusconi — ha spiegato il premier ai suoi — ha firmato quel comunicato che prevede il voto finale al Senato entro dicembre. Se ci ha ripensato possiamo approvarlo tranquillamente da soli, di certo non possiamo aspettare l’elezione del presidente della Repubblica, che peraltro non so nemmeno quando avverrà». Insomma, se l’offerta di Berlusconi nasconde un tentativo di melina per tenere ancora in commissione la legge elettorale, Renzi minaccia di fare saltare il Nazareno. E con esso anche il gentlemen’s agreement che finora ha governato i rapporti con Arcore. 33 «Berlusconi — insiste il capo del governo — può scegliere se stare dentro i patti e fare il padre costituente. Ed essere coinvolto nelle scelte future. Oppure può restarsene fuori». Il premier non esclude quindi di «coinvolgere» Forza Italia nella scelta del prossimo capo dello Stato. Ma non accetta ricatti impliciti sulla legge elettorale, né scambi al ribasso. Le due cose — Quirinale e Italicum — devono viaggiare su binari separati. Nessuna «contestualità». È chiaro che la fretta di Renzi di approvare prima di Natale l’Italicum rafforza l’idea che il segretario del Pd abbia sempre in testa le elezioni anticipate. Un sospetto che coltivano in molti, anche se il capogruppo Pd Luigi Zanda smentisce che sia questa la prima opzione. «So per certo — confida — che vuole andare avanti. Abbiamo messo in cantiere talmente tanta roba...Finché il parlamento tiene il passo perché dovrebbe far saltare la legislatura? Certo, se tutto si ferma... ». A quel punto, anche con una legge che vale solo per Montecitorio, il premier romperebbe gli indugi e punterebbe alle elezioni con due sistemi differenti: Italicum alla Camera e Consultellum al Senato. Gli esperti elettorali gli hanno infatti spiegato che la legge rimasta in vigore dopo i tagli al Porcellum imposti dalla Consulta è sì proporzionale, ma con una soglia di sbarramento dell’otto per cento. E l’effetto concreto di una tagliola così alta sarebbe quello di far crescere i seggi per i partiti più grandi. «La soglia alta imprime una torsione maggioritaria al Consultellum - fa notare una fonte vicina a palazzo Chigi - e lo rende di fatto un quasimaggioritario». Con un Pd intorno al 40 per cento di voti reali non sarebbe impossibile immaginare di raggiungere il 45-47 per cento. «Salvini vuole andare a votare? Una parte di Forza Italia vuole andare a votare? L’unico che non ci vuole andare e proseguire con le riforme sono io - nicchia Renzi però...». E tuttavia per correre alle elezioni anticipate, Consultellum o meno, serve anzitutto un capo dello Stato disponibile a mandare a casa il parlamento. Una disponibilità che Napolitano ha sempre rifiutato. Posto che il capo dello Stato lascerebbe al suo successore una scelta del genere, anche i tempi remano contro un ritorno alle urne a giugno. Chi, come Pier Ferdinando Casini, frequenta sia palazzo Chigi che il Quirinale spiega infatti, calendario alla mano, quanto possa essere complicato far saltare il banco. «Se Napolitano restasse, poniamo, fino a metà febbraio dovremmo calcolare un periodo di “reggenza” di Grasso di un paio di settimane per convocare il parlamento in seduta comune con i delegati regionali. Le votazioni inizierebbero il primo marzo. Poi tra elezione effettiva, giuramento e insediamento, arriviamo a fine marzo. E a quel punto il nuovo capo dello Stato che fa? Per portarci a votare a giugno dovrebbe, come primo atto, sciogliere il parlamento che lo ha appena eletto. Improbabile». del 26/11/14, pag. 1/5 Riforma da respingere Gaetano Azzariti Il commento. Le incongruenze del «patto del Nazareno» sono tali e tante che Napolitano non dovrebbe promulgare la legge e rispedirla alle camere Fu in base a un accordo politico tra le forze parlamentari e in previsione di una possibile modifica del nostro attuale sistema bicamerale che, nel corso della discussione alla camera per l’approvazione delle nuove norme elettorali, si rinunciò ad approvare l’articolo 2 del testo base riguardante le modalità di elezione del Senato. Pertanto, se dovesse concludersi l’iter di formazione della legge elettorale senza un ravvedimento sul punto, a 34 Costituzione vigente, avremmo una normativa elettorale relativa all’elezione della Camera molto diversa da quella del Senato. A quest’ultimo organo si applicherebbe ancora il sistema definito con la legge n. 270 del 2005 così come risulta a seguito della sentenza n. 1 del 2014 della Corte costituzionale (il cosiddetto «consultellum»), mentre solo l’altro ramo del Parlamento utilizzerebbe le nuove disposizioni (il cosiddetto «italicum 2»). Si avrebbero di conseguenza due complessi normativi per l’elezione delle camere tra loro totalmente incompatibili, fonte di gravi irrazionalità di sistema. In tal caso, le stesse finalità della riforma elettorale – così intensamente perseguite – finirebbero per venir meno. Infatti, alla governabilità «assoluta» e certa di un ramo del Parlamento, si andrebbe ad affiancare un Senato con le medesime funzioni (a Costituzione invariata rimane il bicameralismo perfetto) ma formato in base a diversi criteri che «assicurano» un esito difforme. La necessaria conseguenza sarebbe, dunque, quella di provocare una paralisi non solo della governabilità, ma dell’intero sistema politico e parlamentare. In questa ipotesi si potrebbe ben far valere il medesimo principio che ha già portato la Consulta a dichiarare l’incostituzionalità della legge n. 270 (cosiddetto «porcellum»), quando ha rilevato l’inidoneità della normativa (del premio di maggioranza assegnato su base regionale) al raggiungimento dell’obiettivo perseguito della stabilità delle maggioranze parlamentari. Il risultato casuale, determinato dall’irrazionalità e contraddittorietà dei criteri di assegnazione dei seggi, rischia di vanificare l’esito ricercato, ovvero rende impossibile una rappresentanza politica nazionale. L’incostituzionalità dichiarata dalla Corte ha riguardato in fondo una situazione più circoscritta, concernendo solo la composizione dell’organo Senato, nel nostro caso la paralisi coinvolgerebbe – si ripete — l’intero sistema parlamentare. Quella che si profila appare, dunque, una legge elettorale manifestamente incostituzionale. Quest’esito stravagante verrebbe rimesso in discussione se ci dovesse essere una modifica costituzionale che escludesse dal circuito della rappresentanza politica diretta uno dei due rami del Parlamento. Non tanto – si badi — una qualunque modifica costituzionale del bicameralismo perfetto quanto, specificamente, l’abrogazione del Senato (nell’ipotesi di introduzione di un sistema monocamerale) ovvero la conservazione dell’organo senatoriale privato però di una purchessia elettività diretta. È noto che è quest’ultima l’intenzione sin qui formulata nel disegno di legge costituzionale approvato in prima lettura dal Senato e ora alla Camera. Il che dà luogo ad alcune considerazione. Primo, dovrebbe essere chiarito che l’auspicio di una futura – e inevitabilmente incerta – modifica costituzionale non può legittimare l’introduzione medio tempore di una normativa ordinaria incostituzionale. In secondo luogo l’accordo politico – peraltro contestato e comunque rimesso alla libertà della dialettica parlamentare — che è alla base dell’affidavit sulla riforma costituzionale ed elettorale (il «patto del Nazareno») può avere una funzione propagandistica o, al massimo, può configurarsi come l’assunzione di un impegno (politico, non giuridico) da parte dei soggetti contraenti ma non gode certo di alcun pregio costituzionale, né può essere fatto valere in sede di giudizio di costituzionalità. In terzo e decisivo luogo, una legge che produce la paralisi del sistema politico e parlamentare finirebbe per limitare, condizionare o paralizzare molti dei poteri presidenziali, tra cui in particolare quello di scioglimento delle camere. Ed è perciò che – a mio parere – la legge elettorale nella formulazione attuale non solo sarebbe manifestamente incostituzionale ma sarebbe anche difficilmente promulgabile dal capo dello stato. 35 Posso solo aggiungere che – a tutto concedere – se anche si arrivasse, com’è negli auspici dell’attuale maggioranza di governo e dei suoi alleati politici, a una riforma della Costituzione che prevedesse l’elezione diretta solo per la Camera, i tempi di approvazione delle leggi costituzionali impedirebbero per un tempo indeterminato e non breve la promulgazione della legge elettorale (secondo l’ipotesi ora formulata) ovvero lo scioglimento di entrambe le Camere (semmai fosse promulgata la legge). Perché mai – viene ingenuamente da chiedersi – questa fretta sulla legge elettorale se essa poi non potrà essere applicata se non dopo (semmai ci sarà) la riforma costituzionale? Del 26/11/2014, pag. 12 Al nuovo risiko sul Quirinale nessuno ha i numeri per imporsi ROMA Senza il brivido di una crisi di governo e senza la paura di voto anticipato, gli abitanti del Palazzo possono abbandonarsi al loro gioco preferito: il risiko del Colle. Ed è così che vanno letti gli scontri nel Pd, le tensioni nel centrodestra e anche i contrastati rapporti tra Renzi e Berlusconi. L’accordo che i protagonisti del Patto del Nazareno avevano stipulato per il Quirinale prevedeva l’adozione del «metodo per esclusione»: espunti inizialmente dalla lista i nomi dei «non graditi», si sarebbe arrivati alla scelta del successore di Napolitano percorrendo una sorta di ultimo miglio della trattativa, quando il premier avrebbe presentato al Cavaliere una «rosa» di candidati. Era chiaro che gli «esclusi» si sarebbero ribellati al gioco a due, così come Renzi era ed è consapevole dell’ingovernabilità di questo Parlamento quando è chiamato a trovare un’intesa su un nome da votare per il Colle: d’altronde era stato uno dei protagonisti della battaglia che un anno e mezzo fa aveva lasciato sul campo Marini e Prodi. Immaginava però che — insieme a Berlusconi — avrebbe costruito una piattaforma forte per portare a termine la missione. Ma le cose stanno andando diversamente. Non solo i rapporti tra i Nazareni sono ormai al minimo storico, lo dimostra il fatto che ieri Berlusconi non ha voluto rispondere alla specifica domanda, in più il premier deve gestire l’offensiva della minoranza pd, che parla di Jobs act e pensa al Quirinale. Non è dato sapere cosa ne sia dei suggerimenti offerti dal Colle, quante possibilità oggi abbiano Amato o Veltroni di succedere a Napolitano. Tuttavia una cosa è certa: il leader forzista vuole restare della partita, anche perché la sola idea che Grasso possa gestire pure per pochi giorni la «supplenza» da presidente del Senato lo fa rabbrividire. Al momento però, al tavolo di risiko, non si vede un blocco capace di prevalere, semmai tante minoranze in grado di interdire il gioco avversario. Se così stanno le cose, se è il Quirinale l’ossessione collettiva del Palazzo, allora è più facile interpretare l’apertura di Berlusconi a Salvini, quel «si può discutere» sulla leadership del centrodestra. E poco importa se, appena la scorsa settimana, lo stesso Berlusconi aveva preso l’iniziativa per incontrare Alfano — a cui solo sentire il nome di Salvini vengono le bolle — esortando i messaggeri a ricucire, «anche se lo so che Angelino non si fida di me». Il punto è che il Cavaliere cerca una centralità che ha perso. Sta ancora in mezzo, ma rispetto al passato è mutata la prospettiva: oggi è sotto assedio, anche nel suo partito. All’ufficio di presidenza di Forza Italia Fitto si prepara a dirgli che «l’apertura a Salvini fa il paio con quella fatta a Renzi», che in questo modo — dopo aver subito un’emorragia di voti verso il Pd — si rischia di perderne altri con la Lega, contro cui l’ex governatore della 36 Puglia è pronto a issare le barricate in vista dello sbarco al Sud: «Noi meridionali — ironizzava ieri con i suoi — siamo accoglienti e ospitali...». Ma parlare di futuro è un espediente per contare e contarsi nel presente, dove tutti sono concentrati sul Quirinale. Nel Pd, D’Alema e Bersani si giocano la partita della vita, ed è proprio dal profondo della «ditta» che giungono messaggi di avvertimento a Renzi: «Non pensi di fare come per la nomina alla Farnesina, quando — dopo aver prospettato per settimane una rosa di donne — all’ultimo momento arrivò da Napolitano con i nomi di Gentiloni e Tonini. Sarebbe l’inferno». Il risiko è iniziato. Ognuno prepara i propri carri armati. Del 26/11/2014, pag. 9 Berlusconi: Salvini mio vice, resto io leader Il capo di Forza Italia sul leghista: lui può essere il goleador del centrodestra. Ma Alfano lo gela: non ci starò mai Ancora caos tra gli azzurri: l’ala nordista contraria a “consegnarsi” al Carroccio. Oggi resa dei conti con la corrente di Fitto CARMELO LOPAPA È una mezza investitura. Sì, Matteo Salvini potrebbe essere il candidato premier alla prossima tornata, anzi il «goleador, perché si muove bene in campagna elettorale, ci sa fare », ma poi per sé Silvio Berlusconi ritaglia il ruolo di «regista ». Anzi no, se possibile si schiererà lui, «alle prossime elezioni sarò candidabile e spiegherò agli italiani la mia innocenza ». Vuole tornare ad abbracciare Angelino Alfano («Perché l’hai fatto?») ma poi sogna di tenere tutti insieme in un listone, Lega inclusa. Tenere il punto con Renzi, per poi giurare fedeltà al patto del Nazareno, Italicum con premio di lista incluso. Dice un po’ tutto e il suo contrario, il leader di Forza Italia, in un interminabile one man show cominciato con l’ufficio di presidenza e concluso con l’annuale presentazione del libro di Vespa al Tempio di Adriano. Ma appare come un pugile ancora stordito, nel day after del ko alle regionali. Annunci e aperture — quella alla leadership leghista soprattutto — sufficienti comunque a destabilizzare ancor più Forza Italia. Raffaele Fitto, con i suoi Capezzone, Romano e altri, aveva chiesto invano in mattinata il rinvio della riunione di presidenza, causa assenza dell’eurodeputato impegnato a Strasburgo. Berlusconi non vuole cedere. É tentato dallo strappo finale. Fitto fa sapere che è pronto ad alzare ancora più il tiro nel giro di poche ore. Allora i fedelissimi convincono il leader a cedere, a non aprire autostrade agli oppositori interni. La riunione post voto si tiene, ma Berlusconi si limita alla relazione, rimandando a oggi pomeriggio il confronto aperto. E sarà di nuovo battaglia. Perché l’endorsement al Matteo del Nord fa tremare decine di parlamentari forzisti. «Prima ci ha svenduto a Renzi e ora alla Lega» è il tam tam in Transatlantico, pur nel giorno in cui l’ordine di scuderia è stato di abbandonare l’aula durante il voto sul Jobs act per marcare la distanza dal governo. In comitato di presidenza Berlusconi fa ricadere buona parte della responsabilità della sconfitta proprio sui dissidenti. «Perché ci si può pure dare degli stronzi, ma non attraverso agenzie di stampa» sbotta alludendo a Fitto e ai suoi. «I panni sporchi vanno lavati in famiglia ». E il patto del Nazareno non si tocca: «Volete davvero che restiamo fuori dal tavolo del Quirinale? Per ritrovarci con un presidente ostile?», chiede alla platea silente del parlamentino forzista. Quindi mostra un foglietto con sondaggi Euromedia: «Le divisioni interne hanno pesato nelle due regioni per il 50 per cento, mentre solo il 12 per cento ci contesta una linea morbida e il patto ». Come dire, Fitto e i suoi sono avvisati. Anche perché, dirà in pubblico più tardi, «io sono un martire e 37 un eroe e agli eroi non si fanno basse critiche di bottega». Martire o eroe, il big pugliese si prepara invece oggi a criticarlo, eccome. E se - chiedono a Berlusconi - insisteranno nella linea dura? «Allora riuniremo gli organi di partito e decideremo» avverte il leader. Ma il suo discorso, raccontano, per la prima volta raccoglie pochi applausi a Palazzo Grazioli. L’ex premier lo dice a porte chiuse, poi lo ripete al fianco di Vespa. Serve il listone unico e «alla fine la Lega sarà costretta a venire con noi per vincere» e se lo farà, allora «Salvini potrà pure fare il goleador, ha dimostrato di essere bravissimo in tv e in campagna elettorale, di saper segnare». Un’investitura? Lui sorride, nicchia, resta ambiguo, ribatte che non ha alcuna intenzione di farsi da parte. Al goleador serve una squadra e «io mi vedo regista». Insomma, Salvini avrebbe il “quid” ma non basta. Il leader leghista per il momento vola basso, «calma e sangue freddo». Alfano, ex pupillo, spara a pallettoni: «Mai insieme con Salvini e ricordo che alla presentazione di due libri precedenti di Vespa Berlusconi aveva incoronato me, gli consiglierei di incrociare le dita». Proprio al ministro degli Interni il capo forzista aveva lanciato messaggi di pace: «Dobbiamo buttarci i tradimenti alle spalle, lo perdonerei ». Anche qui, Angelino si defila, «non sono un figliol prodigo, non ho bisogno di perdono». I parlamentari forzisti restano allo sbando. Sebbene il leader abbia tentato di rassicurarli, «dei giovani esaminati sabato non mi è piaciuto nessuno, solo questa Silvia Sardone, è brava, è mamma e funziona in tv». del 26/11/14, pag. 5 Dal comunismo padano al fascioleghismo russo LA RISCOSSA ELETTORALE DEL CARROCCIO PASSA PER LA SOVRAESPOSIZIONE TV DI MATTEO SALVINI: BASTA AMPOLLE E SECESSIONE, SÌ A CASA POUND E A MOSCA Enrico Fierro Prossima tappa il Sud. Sì, proprio quello brutto, sporco e cattivo di una volta. È qui, oltre il Garigliano, che Matteo Salvini vuole piantare le prossime bandiere della vittoria. Iniziando da Napoli e Bari, i Borboni e Murat assieme ad Alberto da Giussano per conquistare voti. Quelli delle prossime elezioni regionali di primavera in Campania e Puglia. La strategia è già pronta, una Lega che non sarà più Nord, nazionalizzata, e una sola certezza: nel simbolo deve esserci il nome “Salvini”. Il team di sondaggisti ingaggiati dal Capo ha già pronti diagrammi, slide e percentuali, lo rivela il sito di analisi politica affariitaliani. it : il brand di Matteo sulla scheda elettorale al Sud vale intorno al 4-5%, che proiettato su scala nazionale fa il 2-3. UN BEL BOTTINO, da sommare al 20% conquistato nella “fu rossa” Emilia. E allora basta con le canzoncine sguaiate sui napoletani (“senti che puzza, scappano anche i cani, stanno arrivando i napoletani... oh colerosi, terremotati, voi col sapone non vi siete mai lavati”), intonate nelle notti di Pontida innaffiate da troppa birra e poco senso politico. Le parole devono unire, gli slogan devono essere semplici e sfondare da Brescia a Trapani. “Prima gli italiani”, è la parola d’ordine che Salvini ripete ossessivamente a talk unificati, preferibilmente con una t-shirt o una felpa con la scritta ben visibile “Stop invasione”. Già i talk e la televisiun , un Matteo davanti alla telecamera vale 2-3 punti di share, lui lo ha 38 capito e non rifiuta una ospitata che sia una. Finora ha evitato solo le previsioni meteorologiche e i programmi di cucina (anche se da giovane aveva partecipato al Pranzo è servito ), ma tempo al tempo, quando per la causa si tratterà di preparare in diretta una cassoeula, si farà. Ma sarebbe ingiusto giudicare Teo Salvini un prodotto meramente televisivo. Perché lui la tv la domina, è attore protagonista che scrive da sé il copione. LA PAROLA d’ordine “prima gli italiani” fa il giro delle banlieue di casa nostra, è rivolta a chi è in attesa di una casa popolare, a chi se la vede occupata da abusivi, a chi è da anni in graduatoria, diventando “il verbo” del disagio sociale diffuso giorno dopo giorno da militanti leghisti. Si amplifica fino a diventare “virale”, quando Salvini porta la questione delle periferie in televisione. Allora i talk si fiondano nei grandi quartieri popolari di Roma e di Milano. Finalmente la gente che lì vive (malissimo) ha a disposizione un microfono quasi h24. Le immagini di pensionate costrette a barricarsi in casa perché “ci sono troppi neri in giro”, o perché a ridosso del quartiere la giunta comunale (preferibilmente di sinistra e perciò buonista) ha piazzato un campo rom, girano e creano uno strano fenomeno di emulazione. Ognuno fa la sua barricata e pretende un microfono. Animale politico ibrido, che nella sua carriera si è finanche definito “comunista padano”, Matteo Salvini sa quali carte giocare per diventare il Le Pen italiano e prendersi un centrodestra in coma. Sovranità monetaria, no euro, tutela della famiglia tradizionale e aliquota unica per le tasse al 15-20% (“funziona in molti Paesi, così si combatte l’evasione, le imprese investono e assumono”): questi i punti cardine della strategia. Vincente per i sondaggisti. L’elettore medio della nuova Lega, ha spiegato Nando Pagnoncelli, è concentrato soprattutto al Nord, ha tra i 45 e i 64 anni, è un cattolico praticante, e appartiene a quei settori particolarmente colpiti e spaventati dalla crisi. Operai delle fabbriche chiuse, piccoli commercianti, pensionati, esodati e vittime della legge Fornero. Insomma, tutti quei settori della società senza più punti di riferimento politici, “rifiutati” dal Pd, dimenticati dalla sinistra, non “compresi” nelle confuse strategie grilline. Con chi parla il pensionato che abita in una casa popolare di una mega periferia metropolitana, chi incontra, quali parole ascolta? Al Nord quelle della Lega, a Roma quelle dei “fascisti sociali” di Casa Pound o di organizzazioni simili. UNA PRATERIA sconfinata per il nuovo soggetto fascio-leghista che Salvini sta costruendo. Le prime prove a ottobre con la manifestazione di Milano contro l’immigrazione insieme a Casa Pound. “Abbiamo portato duemila persone”, disse all’epoca Simone Di Stefano, uno dei leader del movimento, “perché Matteo ci ha convinti”. Ha voglia il vecchio Umberto Bossi a dire che “la Lega nasce antifascista”, Salvini vuole fare come a Parigi. “Perché in Europa un solo modello è vincente, quello che abbraccia Front National in Francia, Ukip in Gran Bretagna, Lega, Fratelli d’Italia-An in Italia”. Parola di Lorenzo Fontana, europarlamentare leghista e consigliere più ascoltato dal leader. “L’equivalente di quello che fu il professor Miglio per il Bossi della prima ora”, dicono negli ambienti della Lega. Fontana, salde radici veronesi e una laurea in Scienze politiche, per il sito Dagospia è il Kissinger di Salvini. È lui ad aver avvicinato Matteo a Putin, per il leader della Lega lepenista “vera diga contro il terrorismo islamico”. Il presidente russo è alla ricerca di collegamenti con la destra europea e in queste ore tiene banco la vicenda dei 9 miliardi versati al movimento di Marine Le Pen. L’oro di Mosca arriverà anche alla Lega? “Soldi non ne abbiamo visti e non ci interessa chiederli. Il nostro appoggio alla Russia è totalmente disinteressato”, è la replica di Salvini. Il viale che porta alla conquista del centrodestra non è lastricato di rubli. Per il momento. 39 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE Del 26/11/2014, pag. I RM Allarme campo rom “Qui Tor Sapienza nuova Terra dei Fuochi” Nell’accampamento di via Salviati oltre 800 nomadi Le denunce dei residenti, le inchieste dei vigili del fuoco “Rame bruciato e incendi tossici: sarà un’altra rivolta” «È LA nuova Terra dei Fuochi ad appena 10 chilometri dal Quirinale: la zona est di Roma da Tor Sapienza a Ponte di Nona, da Lunghezza fino a Tivoli è un’unica lingua di fuoco appestata da scempi immani di natura ambientale e reati penali». Il comitato di quartiere Tor Sapienza racconta il vero disastro del quartiere, quello che esaspera gli animi dei residenti, che porta alle proteste e ai gesti eclatanti di rivolta. «Il dramma di Tor Sapienza è il campo rom di via Salviati: roghi tossici ogni mattina e sera, traffico di rifiuti, smaltimento di eternit in modo illegale e anche di grandi elettrodomestici, black out ripetuti dell’illuminazione nel piazzale della stazione dovuto ai furti di cavi di rame. Quel campo è un inferno». Un inferno per i quartieri di Tor Sachina pienza, Colli Aniene, Casale Rosso che convivono — ormai da anni — con l’aria irrespirabile, satura di diossina. Il sindaco, negli scorsi giorni, ha promesso più controlli della polizia municipale ma nulla è cambiato, anzi. Solo qualche sera fa è stata aggredita la mac- della troupe della trasmissione televisiva “Piazza Pulita” e ieri i vigili hanno preso i responsabili in via di Salone 323, sono tre minorenni di nazionalità bosniaca responsabili del danneggiamento della macchina contro la quale hanno lanciato un gomito idraulico in ferro che ha frantumato il lunotto della vettura. «La pattuglia della municipale non c’è mica tutte le notti e, comunque, anche quando staziona davanti al campo, ci sono roghi la mattina — spiega Giuseppe Giorgioli del comitato di quartiere Tor Sapienza —. Basti pensare che qualche settimana fa sono state demolite le strutture di fortuna che servivano a riciclare ferro e rame, i rom il giorno dopo hanno dato fuoco al deposito Ama che si trova ad appena 30 metri, un chiaro gesto intimidatorio nei confronti del Comune». Il villaggio di via Salviati è uno di quelli regolari nati sotto l’amministrazione Rutelli per ospitare 300 rom, poi nell’era Alemanno si è aggiunto Salviati 2 dove sono stati spostati altri 300 nomadi dal Casilino 900 sgomberato. «Oggi siamo arrivati a 800 rom, una situazione insostenibile — continua il comitato di quartiere — Anche il comandante dei vigili del fuoco della stazione La Rustica ha scritto al Campidoglio per denunciare che tra lo scorso gennaio e settembre sono stati 60 gli interventi dei vigili del fuoco solo nel campo di via Salviati, ecco decisamente troppi se si pensa a tutte le altre emergenze che i pompieri devono gestire in questo quadrante della città». Ci sono state lettere della Asl, denunce dei cittadini, interpellanze europee per le combustioni illecite eppure ancora non si è riusciti a risolvere il problema che tiene sotto scacco un intero quadrante. Le condizioni igieniche a via Salviati sono insostenibili, montagne di rifiuti invadono il campo e ad ogni ora si sprigionano colonne di fumo denso con un odore nauseante prodotto dalla plastica bruciata che avvolge i cavi. Roghi che avvengono davanti all’Ufficio immigrazione della polizia e a 30 metri da compartimento Lazio della stradale. «Non siamo razzisti, ma rivendichiamo il sacrosanto diritto alla salute». 40 Del 26/11/2014, pag. II RM Profughi in cerca di asilo proteste e assemblee dall’Appio alla Borghesiana Nuove mobilitazioni. Il Pd: “Negli scontri infiltrati della Destra” Gli abitanti di via Salviati: “Qui è come nella Terra dei fuochi” RESTA alta la tensione sui profughi a Roma. Dopo i casi di Tor Sapienza e Infernetto, i cittadini sono sempre più allarmati e le voci di presunti spostamenti di immigrati nelle periferie scatenano focolai di protesta. A volte anche infondati, altre esagerati ma le ex borgate sono esasperate dalla mancanza di servizi, dal degrado e dal totale abbandono. Dal motel in disuso alla Romanina dove tra i residenti infuriati sono iniziate a correre voci di presunti spostamenti di rifugiati fino all’hotel Cinecittà di via Eudo Giulioli, nel quadrante Piscione a Torre Spaccata, dove sarebbero previsti nuovi arrivi a pochi metri dal palazzo a vetri dell’American Express. «Si tratta di 40 immigrati da sistemare in una realtà che difficilmente sarà in grado di tollerare un’ulteriore invasione», dice Fabrizio Santori consigliere regionale del Lazio. Gli abitanti della zona si sono già mobilitati. «Il proprietario dell’hotel Cinecittà ci ha confermato la notizia dell’arrivo dei profughi — racconta Cristiano Buoncristiani di Difendiamo Roma — Non siamo disposti ad accettare altre situazioni critiche in questa zona perché già abbiamo il campo rom de La Barbuta a pochi chilometri e tutta la via Tuscolana è assediata dagli abusivi». L’allarme lanciato dagli abitanti ha insospettito anche il parlamentino VII guidato dal minisindaco Susi Fantino che ha subito chiamato il Campidoglio per avere delle rassicurazioni. «La priorità è alleggerire la pressione — sottolinea la presidente — Sappiamo dell’arrivo di una quarantina di extracomunitari, ma il Comune ci ha garantito che non sarà fatto nessuno spostamento senza prima averci coinvolto». E mentre il quartiere di Tor Sapienza si è riunito ieri in un’assemblea pubblica alla quale ha partecipato anche il consigliere comunale di Sel, Gianluca Peciola, per rimettere insieme la rete dei comitati che sono per il dialogo e il confronto e per avviare un lavoro di riqualificazione delle periferie; il gruppo del Pd alla Camera oggi al question time chiede al ministro Alfano di riferire sugli scontri dell’11 novembre dove si sono infiltrati esponenti di Forza Nuova e Casapound. 41 SOCIETA’ del 26/11/14, pag. 48 Se il carcere è «inumano» risarcimento retroattivo di Giovanni Negri Il rimedio della riduzione di pena e del risarcimento pecuniario per le condizioni di detenzione scatta anche quando la lesione non è più attuale. È questa la lettura del nuovissimo articolo 35 ter della Legge penitenziaria fornita dall’ufficio di sorveglianza di Bologna con ordinanza dell’8 ottobre. Il provvedimento introduce una delle primissime interpretazioni della norma entrata in vigore da poche settimane per fronteggiare le conseguenza della sentenza Torreggiani con la quale l’Italia venne sanzionata per la situazione drammatica di invivibilità delle nostre carceri. I giudici bolognesi sottolineano che si è già manifestato un primo orientamento secondo il quale perché ci sia riduzione di pena (il primo rimedio previsto dall’articolo 35 ter) è necessario che il pregiudizio sia attuale, che cioè esista all’epoca della presentazione della domanda e anche al momento della decisione; in caso contrario la competenza non sarebbe neppure più del giudice di sorveglianza, ma piuttosto del giudice civile. Tuttavia, osserva l’ordinanza, l’articolo 35 ter disciplina «letteralmente, esattamente e tassativamente l’ipotesi in cui il risarcimento è accordato dal tribunale ordinario, ossia quando, expressis verbis, il pregiudizio subito afferisca a custodia cautelare in carcere non computabile nella determinazione della pena da espiare o quando sia intervenuta l’integrale espiazione della pena». L’azione davanti al giudice civile è proponibile dopo la cessazione della pena, entro 6 mesi, e la decisione non è reclamabile. Ne consegue che nessuno “sconto” è possibile se la violazione è stata sì commessa, ma è anche cessata. Una strada che i giudici bolognesi non seguono. Anche perché, tengono a mettere in evidenza, la lesione sarà pure terminata, ma lo è solo provvisoriamente, come è agevole constatare nell’attuale regime della detenzione. È infatti frequente che periodi caratterizzati da violazioni del trattamento umanitario dovuto ai detenuti siano alternati a momenti in cui la gravità non è così marcata, « sintomatica dimostrazione di una non stabile volontà dell’amministrazione di assicurare una condizione carceraria autenticamente e continuativamente aderente ai criteri stabiliti dall’articolo 3 della convenzione Edu». Di conseguenza, perso atto della costante variazione nel tempo delle presenze dei detenuti in cella, solo con difficoltà i reclami dei detenuti possono riguardare una violazione attuale al momento della domanda e della decisione, tenuto conto dei tempi necessari per l’istruttoria e lo svolgimento del giudizio. Allora, conclude l'ordinanza, ancorare e limitare la tutela offerta dal magistrato di sorveglianza al parametro dell’attualità della lesione «e non al pregiudizio subìto in costanza di espiazione di pena attuale» porta nella sostanza a svuotare la portata della novità introdotta dal legislatore. Da Avvenire del 26/11/14, pag. 12 «Un piano contro la povertà» Il cibo non è un diritto neppure in Italia per un numero crescente di cittadini, neonati compresi. E poiché una legge che lo garantisca in ogni Paese sarà richiesta dalle Caritas 42 alle nazioni durante l'Expo, si apre la riflessione su quale sia lo strumento più adeguato nel Belpaese. «Da tempo - sostiene il sociologo Walter Nanni, responsabile dell'ufficio studi della Caritas italiana - registriamo nei centri di ascolto un forte aumento della domanda di beni alimentari nonostante l'Istat sostenga che la spesa alimentare non sia diminuita. Nel primo semestre dell'anno il 54% degli interventi delle parrocchie riguardava gli aiuti alimentari e un terzo era di fornitura di viveri, con un preoccupante 1,3% di prodotti per neonati». In Italia sono sei milioni i poveri secondo l'Istat. Quanto è diffuso il problema dell'accesso al cibo? «Se abbiamo tre parametri per definire il diritto al cibo-prosegue Nanni - ovvero disponibilità, accessibilità e adeguatezza, in Italia la disponibilità è indiscutibile. Invece abbiamo problemi di accessibilità, ad esempio nelle zone rurali e montane, a servire cibo di qualità identica. Per quanto riguarda l'adeguatezza nutrizionale, comincia a diminuire. L'Istat segnala un aumento del 6% di famiglie che vanno ai discount scegliendo cibo di qualità inferiore». Serve dunque una legge anche in Italia per garantire eguaglianza alimentare. «Sì, servono - aggiunge Nanni- strumenti per rendere esigibile questo diritto al cibo. C'è chi sostiene ad esempio che vada affrontato il più ampio problema della povertà. Non dimentichiamo la carenza di beni e servizi essenziali come farmaci, abbigliamento, prestazioni socio assistenziali complementari al cibo per calcolare il paniere della povertà. Poi c'è già il fondo europeo Fead che aiuta gli indigènti, con una risposta positiva, ma emergenziale e assistenziale. Se ci limitiamo al diritto al cibo, andiamo verso uno Stato che distribuisce pacchi viveri. Invece, se si garantisce vita dignitosa, anche la povertà alimentare viene vinta. Quindi da noi la legge sul reddito minimo, che in Italia manca, potrebbe rispondere alla campagna per il cibo affiancata da iniziative culturali contro lo spreco alimentare e a favore di una produzione agricola sostenibile e solidale». Paolo Lambruschi 43 BENI COMUNI/AMBIENTE Del 26/11/2014, pag. 37 Tirreno Power, è stallo Per la centrale di Vado si preparano le carte bollate MILANO La decisione sulla centrale a carbone di Vado Ligure sotto sequestro da marzo, di proprietà di Tirreno Power, è stata rimandata al 4 dicembre: ieri la Conferenza dei servizi ha rinviato ad allora l’emissione dell’Aia, l’Autorizzazione integrata ambientale, per dare tempo agli enti locali di esprimersi su due nuovi pareri acquisiti dalla Procura di Savona, uno dell’Asl e uno del ministero della Salute. Tuttavia la Conferenza dei servizi ieri avrebbe confermato l’adeguamento in una fase unica della centrale con la costruzione della copertura del carbonile entro marzo 2015 e da subito l’accensione iniziale della centrale usando gas invece di olio combustibile, a differenza di quanto richiesto dall’azienda. La società, controllata a metà tra Gdf Suez e Sorgenia, ha ribadito l’impossibilità di realizzare la copertura nei tempi indicati e ha evidenziato che l’obbligo dell’avviamento a gas da subito non ha precedenti per centrali analoghe in Italia e obbliga a fermare l’impianto per 16-20 mesi. Motivo per cui l’azienda è pronta a ricorrere alle vie legali nel caso in cui la Conferenza dovesse decidere che la centrale si deve attenere ai criteri contenuti nel «Pic», il Parere istruttorio conclusivo, emesso dal ministero dell’Ambiente, benché diverse osservazioni di Tirreno Power alle prescrizioni del gruppo istruttore siano state accolte.Quanto ai nuovi documenti, la Asl di Savona avrebbe messo in evidenza che «gli studi acquisiti» dalla Procura «si pongono in netto contrasto con i risultati di tutti gli studi epidemiologici fino ad ora condotti sullo stato di salute della popolazione della provincia di Savona». Mentre il Ministero della Salute spiega che, in base a dati Istat, nel periodo 2004-2010 «la mortalità generale della popolazione di Vado Ligure non si discosta da quella della popolazione delle Liguria» ma vi sarebbe «un eccesso di mortalità per patologie respiratorie nel loro complesso». Vado è l’asset più rilevante per i margini economici di Tirreno Power, che a fine gennaio dovrà rinegoziare il debito da 868 milioni. Francesca Basso 44 INFORMAZIONE del 26/11/14, pag. 7 IL GOVERNO SI SMENTISCE: NIENTE CANONE IN BOLLETTA GIACOMELLI ILLUSTRA L’ABBONAMENTO RIDOTTO MA PALAZZO CHIGI CORREGGE: MEGLIO RINVIARE. INTANTO LA TARANTOLA: “RICORSO CONTRO MEF A FINE MESE” di Carlo Tecce Niente canone Rai pagato a rate con la bolletta dell’elettricità. Non è la prima volta che un governo va di gran carriera verso una revisione contabile in Viale Mazzini e poi ci ripensa per non dar fastidio a un’azienda-partito (che sembrava d’accordo) e ai contribuentitelespettatori che già subodoravano la fregatura. Com’è andata, oggi, non è mai accaduto. Il sottosegretario Antonello Giacomelli, consumati mesi di annunci, di sbandierate riduzioni dell’odiata tassa tv, di prima mattina, in radio ha spiegato il nuovo meccanismo di riscossione. Giacomelli parlava a ragion veduta, la norma da introdurre con un emendamento nella legge di Stabilità è pronta da settimane. Il sottosegretario, però, non aveva calcolato la reazione del Tesoro, contrario a questa misura e di Palazzo Chigi, che non vuole gettarsi a petto nudo sul delicato fronte di Viale Mazzini. A smentire Giacomelli è l’intero governo. Il tempo che s’è perso non era più recuperabile, questa è la spiegazione ufficiale. Perché Giacomelli, prima di un viaggio negli Stati Uniti, aveva lasciato a Matteo Renzi due testi da utilizzare con un decreto, soltanto il ricorso all’emergenza avrebbe perfezionato la riforma natalizia con tanto di propaganda inclusa: Renzi abbassa il canone, non più 113,5 euro via bollettino, ma fasce da 30 a 80 euro e in comode rate. A VIALE MAZZINI veniva garantito un introito triennale di 5,1 miliardi di euro, la stessa cifra che incassa oggi nonostante un’evasione del 27% che vale 500 milioni l’anno. Il metodo non ha convinto il Tesoro: chi avrebbe perseguito l’evasore fiscale? L’Agenzia 113,5 euro (a rischio aumento). Giacomelli è molto renziano, altrimenti avrebbe meditato le dimissioni: resisterà a lungo? Il Cda Rai, in attesa, ha trascorso la serata in Commissione di Vigilanza, i parlamentari hanno convocato i delle Entrate non vuole essere coinvolta. Per evitare pastrocchi, il governo ha deciso di rinviare al prossimo anno e in Viale Mazzini devono preparare le lettera da spedire agli italiani e la pubblicità per convincerli a sborsare i soliti vertici aziendale dopo il voto per il ricorso contro il prelievo da 150 milioni di euro voluto da Palazzo Chigi. Il presidente Anna Maria Tarantola, che in Cda s’è astenuta, ha comunicato che l’esposto in Tribunale sarà formalizzato entro fine mese. L’ex vicedirettore generale di Bankitalia ha spiegato così la scelta pilatesca: “Gli argomenti a favore o sfavore erano forti”. La Tarantola non vuole rinsaldare il rapporto con il dg Luigi Gubitosi, s’intende. 45 CULTURA E SCUOLA del 26/11/14, pag. 31 Sfogliare i libri in streaming un’idea nata a Torino Una start up creata da quattro laureati ha concepito la possibilità di leggere le opere online prima di Amazon. E adesso cerca di decollare Mario Baudino Sono arrivati ben prima di Amazon, ma hanno avuto serie difficoltà a farsi ascoltare e a essere presi sul serio. Quattro giovani torinesi hanno elaborato due anni fa non solo l’idea ma anche il software per la lettura in streaming, quella che si fa pagando un abbonamento mensile proprio come accade su Kindle unlimited. La spiegavano in giro, e portavano a casa solo scetticismo. Poi, a poco a poco, le cose si sono mosse, anche se soltanto dopo il clamore suscitato dal gigante on-line di Seattle. Ora Giuseppe Spezzano, Mario Cardillo, Gianluca Ambrogio e Davide Pani, 28 anni a testa, tre ingegneri e uno psicologo dell’organizzazione (Cardillo) hanno una chance di provarci davvero. Il loro sito, Bookolico, propone attraverso una app per i-pad un bel catalogo di una trentina di editori dove scegliere i titoli da leggere in abbonamento, a 9,90 euro al mese. E’ un catalogo di prova, e in questo momento l’accesso è gratuito a un certo numero di lettori ammessi al periodo di test, ma è già molto più raffinato di quello del Kindle unlimited, infarcito di titoli autopubblicati. Qui ci sono Feltrinelli, Nottetempo, Hoepli, Add e tanti altri medio piccoli, con libri di qualità. E molte possibilità: per i lettori di sapere che cosa stanno sfogliando gli «amici» e in prospettiva di poter discutere tra loro, per gli editori un gran numero di informazioni e statistiche interessanti, per esempio le pagine più lette di ciascun libro, ovvero i momenti di massimo gradimento, quasi un auditel. Bookolico conta infatti non tanto i libri quanto le pagine, riconoscendo all’editore una certa cifra per ognuna di quelle che vengono sfogliate: chi è più letto riceve di più. Sembra l’uovo di colombo, ma per farlo stare dritto c’è voluto molto tempo e molta fatica. I quattro giovani avevano esordito con un sito di self-publishing, ancora studenti. Era un gioco con i compagni di corso. Poi, due anni fa, quando in rete si è cominciato a parlare di lettura in streaming, senza cioè acquistare il libro elettronico hanno cominciato a elaborare il progetto. In America nel frattempo una start up molto simile, Oyster, è diventata un’azienda importante. Partire da Torino è stata più dura. «Porte chiuse - raccontano - e soprattutto porte che non si sapeva neppure dove fossero. Siamo andati in giro per l’Italia accolti piuttosto freddamente, qualcuno ci ha anche presi in giro. Sei mesi fa molti editori non sapevano che cosa fosse la lettura in streaming». Ora è diverso, visto che «se lo ha fatto Amazon», si è cominciato a pensare, «allora si può fare». I colloqui si sono infittiti, anche coi grandi gruppi. «Ora due ci stanno ad ascoltare, uno decisamente ci snobba». Pazienza, magari cambierà idea. Gli editori devono mettere a disposizione i libri, va da sé. Ma poi servono soldi, e per quelli servirebbero i «business angels», come vengono definiti i finanziatori di start up. Purtroppo volano soprattutto all’estero. «In Italia manco si sa dove stiano di casa. Noi ne abbiamo scovato uno, ma grazie a una catena di amicizie». In compenso Gianluca Ambrogio è partito per Londra, e in due settimane ne ha trovati 11 con cui intanto avviare il discorso. Servono investitori. I quattro di Bookolico dalla laurea in poi hanno rinunciato a cercarsi uno stipendio, investono in lavoro, e prima di incontrare il 46 loro business angel, ci mettevano anche i soldi. «Ora però dobbiamo allargarci, poter contare su più collaboratori perché da soli non riusciamo a tener dietro a tutto. Dobbiamo investire in tecnologia e in marketing. Sulla rete siamo molto noti, ma non basta», spiegano pur senza la minima traccia di pessimismo. Finora hanno vissuto come quelli che hanno da sparare una sola cartuccia: e questo è ad esempio il motivo per cui hanno puntato tutto, all’inizio, sull’ambiente Ios; ma sarà indispensabile l’App per Android, e al più presto. C’è poco tempo. «Una start up ragiona di sei mesi in sei mesi», ti spiegano sapendo di essere, per così dire, molto precari. In qualche modo Amazon ha però dato loro, del tutto involontariamente, una (piccola) mano. E una soddisfazione. «Siamo pur sempre arrivati prima. Anche a firmare qualche contratto». del 26/11/14, pag. 33 Mondadori scorpora i libri Carlo Festa Mondadori costituisce una newco dove confluiranno le attività nei libri e si profila un'aggregazione industriale o un'alleanza con altre società del settore. L'operazione, presentata dall'amministratore delegato Ernesto Mauri, consentirà di creare una società interamente detenuta: Mondadori Libri. Verrà conferito alla società di nuova costituzione il ramo di azienda di Mondadori relativo al complesso di attività, passività e rapporti contrattuali relative alle attività editoriali e di distribuzione esercitate nell'ambito dell'Area Libri, oltre alle partecipazioni nelle società editrici di libri nei settori trade, arte e scolastica: Edizioni Piemme (100%), Giulio Einaudi editore (100%), Mondadori Education (100%), Mondadori Electa (100%), Sperling & Kupfer Editori (100%), Harlequin Mondadori (50%) - e nella società operativa nel settore della distribuzione Mach 2 Libri (34,91%). Il conferimento verrà attuato in continuità di valori contabili e senza effetti sul bilancio consolidato per un saldo netto contabile pari a 99,4 milioni di euro. Al 30 settembre 2014 l'area Libri ha registrato ricavi per 238,9 milioni di euro, un margine operativo lordo di 35,8 milioni di euro e un risultato operativo di 33,7 milioni di euro. L'operazione consentirà di realizzare una struttura societaria più funzionale al potenziale conseguimento, in un'ottica di sviluppo, di opportunità di partnership e aggregazioni industriali volte allo sfruttamento di economie di scala. Del resto, la strada dei matrimoni nel settore dei libri in Italia è stata studiata in passato più volte dalle banche d'affari. Tra i candidati alle nozze con Mondadori Libri ci potrebbero dunque essere, secondo i rumors, i grandi gruppi nazionali del settore (Feltrinelli e Rcs Libri) che, causa la crisi e la rivoluzione dell'editoria, potrebbero cercare sinergie con i competitor. La formalizzazione del conferimento è prevista entro la fine dell'esercizio 2014 con effetti decorrenti dal primo gennaio del 2015. 47 del 26/11/14, pag. 48 Il sostegno all’alunno disabile non è mai discrezionale di Enrico Bronzo Va sempre garantito il sostegno all’alunno disabile: in caso contrario, si è di fronte a una condotta discriminatoria da parte delle istituzioni scolastiche. Lo sottolineano le Sezioni unite civili della Cassazione, nella sentenza n. 25011, depositata il 25 novembre 2014. Con la pronuncia i giudici hanno respinto i ricorsi presentati da un istituto scolastico friulano e dal ministero dell’Istruzione contro la sentenza con cui la Corte d’appello di Trieste aveva accertato la natura discriminatoria della decisione dell’amministrazione scolastica (assunta in base alla legge 67/2006, ndr) di non concedere l’insegnamento di sostegno per 25 ore settimanali – erano state prima sei e poi 12 – a una bambina affetta da handicap grave, iscritta alla scuola dell’infanzia. In Appello il ministero era stato condannato a risarcire con 5mila euro il danno non patrimoniale ai genitori della piccola, deciso in primo grado. «Il diritto all’istruzione - si legge nella sentenza delle Sezioni unite è parte integrante del riconoscimento e della garanzia dei diritti dei disabili, per il conseguimento di quella pari dignità sociale che consente il pieno sviluppo e l’inclusione della persona umana con disabilità». Secondo i giudici supremi, «una volta che il Piano educativo individualizzato (Pei, ndr), elaborato con il concorso determinante di insegnanti (e dagli operatori sanitari individuati dalla Asl, ndr) e della scuola di accoglienza e di operatori della sanità pubblica, abbia prospettato il numero di ore necessarie per il sostegno scolastico dell’alunno che versa in situazione di handicap particolarmente grave, l’amministrazione scolastica è priva di un potere discrezionale, espressione di autonomia organizzativa e didattica, capace di rimodulare o di sacrificare in via autoritativa, in ragione della scarsità delle risorse disponibili per il servizio, la misura di quel supporto integrativo così come individuato dal piano». 48
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