RASSEGNA STAMPA mercoledì 5 novembre 2014 L’ARCI SUI MEDIA INTERESSE ASSOCIAZIONE ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SCUOLA ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da Radio Vaticana del 05/11/14 Alla Carovana Internazionale Antimafie il "Premio Falcone" E’ uno dei principali riconoscimenti europei all’impegno civile: è il “Premio Falcone”, istituito dal Consiglio d’Europa e dalla città di Strasburgo, che quest’anno vede premiata la Carovana Internazionale Antimafia, promossa da Arci, Libera, e Avviso Pubblico. Sono venti anni, dal 1994, a meno di due anni dalle stragi di Capaci e via D’Amelio, che Carovana viaggia in giro prima per l’Italia e ora per l’Europa, soprattutto per tenere alta l’attenzione sul fenomeno mafioso, per promuovere impegno sociale e progetti concreti. A ricevere il Premio oggi a Strasburgo, è stato il coordinatore, Alessandro Cobianchi. Francesca Sabatinelli gli ha chiesto quali sono stati in questi anni i successi di Carovana: R. – Senz’altro, nei primi anni è stato proprio quello di andare incontro alle persone. La Carovana nasce per questo: va in quei luoghi in cui non si riusciva a parlare né di mafia né tantomeno di antimafia. Penso a Capaci, a Gela. Credo che questo sia stato il risultato maggiore. Nel corso degli anni, Carovana ha avuto anche la capacità di mettere in discussione alcuni luoghi comuni, come quello che le mafie fossero radicate soltanto nelle regioni meridionali. Un altro importante risultato di questi anni è stato proprio la scelta europea, la volontà delle organizzazioni che costituiscono Carovana, che sono Arci, Libera, Avviso Pubblico, con il sostegno di Cgil, Cisl e Uil, di incontrare nuovi partner, di non ragionare più soltanto sul nostro Paese, sull’Italia, ma di provare a confrontarsi con altre organizzazioni, di altri Paesi, avendo soprattutto la possibilità di ragionare "dal basso". Quello che a noi interessa è costruire una rete di associazioni che siano impegnate direttamente contro lo mafie o comunque siano impegnate sui temi della giustizia sociale, allo scopo poi di costruire un percorso che vada ben oltre naturalmente il singolo viaggio di Carovana. Credo che Carovana un merito ce lo abbia: quello di mettersi in discussione ogni anno e quindi di cercare nuove strade. D. – Nel 2013, Carovana ha affrontato i costi dell’illegalità. Quest’anno, vi siete messi in viaggio contro la tratta di esseri umani, che sappiamo essere uno dei grandi terreni fertili per le organizzazioni criminali. Voi state compiendo un viaggio in tutta Europa, che vi metterà a confronto con le varie realtà. Faccio degli esempi: lo sfruttamento nell’edilizia in Francia, quello minorile in Romania, il settore turistico a Malta, lo sfruttamento del lavoro domestico in Italia… R. – Noi abbiamo lanciato un appello ai partner con cui lavoriamo, chiedendo di focalizzare un punto, per non parlare tutti di tutto. E’ stato straordinario che alcuni Paesi, come è accaduto proprio in Francia, ci segnalassero qualcosa che noi non ci aspettavamo, come ad esempio lo sfruttamento del lavoro nell’edilizia. E’ stato anche interessante creare questo collegamento fra ciò che ci hanno detto i nostri partner maltesi e molti partner di Carovana italiana, che lamentavano la stessa difficoltà rispetto a un tema, quello dello sfruttamento nel lavoro turistico. Alla fine avremo un quadro chiaro, Paese per Paese, perché naturalmente siamo collegati anche a un progetto europeo che prevede anche la realizzazione di un libro, in cui noi intendiamo presentare questi dati. Il tema della Carovana si divide in due parti: quello del viaggio – che naturalmente è la parte epidermica, quella cioè delle sensazioni, ciò che si coglie parlando con le persone – e poi quello della vera e propria ricerca. Noi pensiamo di unire questi due punti. A noi interessa anche ragionare su quali siano le ragioni che portano, Paese per Paese, alle condizioni di 2 sfruttamento delle persone, con un dato che già abbiamo naturalmente e che è questo famoso milione di persone che in Europa vive in condizioni di schiavitù. D. – Voi siete tra gli osservatori privilegiati sul fenomeno delle mafie in Italia. Si sta parlando, negli ultimi tempi, di un ritorno a quegli spaventosi gruppi di fuoco che ci ricordiamo all’inizio degli anni Novanta. Dalla cosiddetta “mafia dei colletti bianchi”, che non è certo meno pericolosa, sembrerebbe quasi che si sia tornati a una riorganizzazione di stampo terroristico, se la vogliamo così definire. A voi risulta che vi sia un riarmo della mafia? R. – Sì, ed proprio questo uno dei problemi che abbiamo avuto e che probabilmente non ha ingenerato la nostra vittoria totale nei confronti delle organizzazioni criminali, ossia quello di pensare che le mafie siano in trasformazione tale da dimenticarsi la loro parte antica, se così posso dire. Sì, è vero che esiste una “mafia dei colletti bianchi”, ma è anche vero che la mafia resta profondamente radicata ancora ai territori, che mantiene ancora un forte collegamento. Questo ci ha impedito di avere una lettura totale, perché tutti convinti che si potesse parlare ormai di un nuovo, dimenticando – ripeto – che le mafie si trasformano, sono nuove, ma sono anche vecchie. E poi naturalmente, rispetto alla recrudescenza, forse abbiamo commesso il secondo errore – dai mezzi di comunicazione agli operatori del settore, ai cittadini – e cioè pensare che le mafie quando non sparano, non ci sono. Invece, in questi anni, si sono arricchite e hanno trovato sempre nuovi canali su cui investire. La cosa che a noi preoccupa è che ci svegliamo soltanto quanto c’è una recrudescenza della loro azione militare. Noi siamo convinti che in alcuni momenti storici, come potrebbe essere questo, ci sia un tentativo di cambiare strategia. Però, non crediamo che questo sia il punto: il punto fondamentale è quello di capire cosa accade nei momenti in cui le mafie non fanno rumore. Sono i momenti probabilmente più preoccupanti per la loro evoluzione e per il fatto che decidono davvero di aggredire qualsiasi settore dell’economia, provocando poi morti in modo anche indiretto, non quelle eclatanti che noi leggiamo o vediamo o che hanno caratterizzato un periodo della nostra storia. Link al servizio http://it.radiovaticana.va/news/2014/11/04/alla_carovana_internazionale_antimafie_il_pre mio_falcone_/1110130 Da Repubblica.it del 05/11/14 Caso Cucchi, Grasso: "Chi sa parli". Renzi: "Lo Stato è chiaramente responsabile" Le parole del presidente del Senato, ex procuratore nazionale antimafia, che domani riceverà i familiari: "Solidarietà alle famiglie delle vittime". Il pg valuta il ricorso e attende la relazione dei giudici della Corte d'appello che hanno modificato la sentenza di primo grado, assolvendo tutti gli imputati nel processo per la morte del ragazzo. Sabato fiaccolata davanti al Csm a Roma "Vorrei fare un appello. Ci sono dei rappresentanti delle Istituzioni che sono certamente coinvolti in questo caso. Quindi, chi sa parli. Che si abbia il coraggio di assumersi le proprie responsabilità, perché lo Stato non può sopportare una violenza impunita di questo tipo". Sul caso di Stefano Cucchi, il geometra di 31 anni arrestato nell'ottobre del 2009 a 3 Roma per droga e morto, una settimana dopo, all'ospedale Pertini interviene da Bari il presidente del Senato, Pietro Grasso. "Intanto è doverosa e giusta - ha aggiunto - la solidarietà alle famiglie delle vittime di violenza. La violenza non può far parte della dignità di uno Stato civile, soprattutto quando viene da rappresentanti delle istituzioni. Noi speriamo di continuare a cercare la verità, nonostante ci siano state delle sentenze che non hanno saputo o potuto trovarla. Pensiamo - ha concluso Grasso - che bisogna continuare su questa strada dando la massima solidarietà ai familiari delle vittime". E domani mattina, mercoledì 5 novembre, il presidente del Senato riceverà a Palazzo Madama i familiari di Stefano Cucchi. Ad accompagnare la sorella Ilaria e i genitori del ragazzo sarà il presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani Luigi Manconi (Pd). Intervistato da Massimo Giannini nel programma Ballarò, su Raitre, anche il premier ha parlato del caso Cucchi: "E' una vicenda che a me fa molto male, lo Stato è chiaramente responsabile - ha detto Matteo Renzi - . Quel ragazzo, poteva essere mio fratello visto che ho più o meno l'età della sorella. Se fossi al bar potrei dire cosa penso di quella sentenza, ma siccome sono il premier non posso entrare nel potere giudiziario. E' evidente che c'è una responsabilità dello Stato, la partita non è chiusa e giudici valuteranno". Il 31 ottobre scorso in Corte d'appello tutti gli imputati nel processo (sei medici, tre infermieri e tre agenti penitenziari) erano stati assolti. I giudici avevano così modificato la sentenza di primo grado in cui erano stati condannati per omicidio colposo cinque camici bianchi, più una sesta per falso, assolvendo gli altri. Cucchi, botta e risposta su twitter. "Grasso è di M5S". E lui: "Sempre stato per giustizia e legalità" La Procura generale. Ora la Procura Generale di Roma "valuterà la sussistenza di motivi" per ricorrere in Cassazione ma solo "dopo aver letto le motivazioni" della sentenza di assoluzione in appello degli imputati. Come spiega il procuratore generale della Capitale, Luigi Ciampoli, "la Procura Generale di Roma esaminerà, con la lettura delle sentenza, la motivazione che darà la Corte d'assise di appello alla decisione di non accogliere le richieste di condanna degli imputati, fatte con ampia e argomentata requisitoria dal Pg di udienza, valutandone la congruità, la coerenza e la legittimità". Solo in seguito "valuterà, di conseguenza - ha aggiunto Ciampoli - la sussistenza di motivi di ricorso in Cassazione, dove - ha sottolineato - già pende altro ricorso, sempre presentato dalla Procura Generale di Roma, contro un'altra sentenza relativa alla presunta responsabilità del personale medico del carcere di Regina Coeli che diede assistenza a Cucchi prima del trasferimento all'ospedale Pertini". Ieri, uscendo dagli uffici del tribunale di piazzale Clodio dopo l'incontro con il procuratore capo Giuseppe Pignatone, Ilaria Cucchi, sorella di Stefano aveva affermato: "Abbiamo avuto assicurazione dal capo della procura di Roma che rileggerà tutti gli atti della vicenda". "Con animo sereno e senza pregiudizio, né positivo é negativo, procederemo a una rilettura complessiva degli atti dell'inchiesta, dal primo all'ultimo foglio, per le eventuali posizioni che non sono state oggetto di processo. E all'esito di questo esame, una volta conosciute le motivazioni della sentenza della corte d'assise di appello di Roma, faremo le nostre valutazioni" aveva confermato Pignatone, che però, dopo un successivo incontro di circa 40 minuti con i pm che hanno condotto l'inchiesta sulla morte di Cucchi, ha voluto precisare: "I pm Vincenzo Barba e Maria Francesca Loy hanno svolto un lavoro egregio, ho estrema fiducia in loro". Parole che avevano fatto nuovamente arrabbiare i familiari del giovane, decisi in questi giorni a portare avanti la battaglia per ottenere verità e giustizia sulla morte di Stefano. 4 La fiaccolata. Intanto, dopo la reazione virale in Rete lanciata dalla campagna #SonoStatoIo, a Roma è stata organizzata la prima manifestazione in piazza promossa dalla famiglia Cucchi e dall'associazione Acad (contro gli abusi in divisa). Una fiaccolata prevista per sabato 8 novembre alle 18.30 sotto al Consiglio superiore della magistratura in piazza Indipendenza dal titolo "Accendiamo la verità. Mille candele per Stefano Cucchi". "Stefano è stato ucciso dalle botte subite mentre era detenuto, dai medici che non lo hanno aiutato, dai depistaggi per coprire i colpevoli - si legge nel duro comunicato che lancia l'evento - C'è bisogno di luce per illuminare quei luoghi bui dove ogni giorno si umiliano le esistenze e si calpesta la democrazia. E dobbiamo accenderla tutti e tutte insieme. Contro le bugie, contro l'impunità, contro la tortura. Perché non accada mai più" concludono i promotori che hanno raccolto già molte adesioni tra i centri sociali, i comitati di lotta romani e le associazioni come l'Arci Roma, A Sud o le Madri per Roma Città Aperta. http://roma.repubblica.it/cronaca/2014/11/04/news/caso_cucchi_procura_di_roma_valuter _ricorso_dopo_motivazioni_sentenza-99715128/ 5 ESTERI del 05/11/14, pag. 15 Sanità, petrolio e immigrazione le scommesse della destra in cerca di un nuovo leader FEDERICO RAMPINI DAL NOSTRO CORRISPONDENTE NEW YORK DOVE porteranno l’America e il mondo, questi repubblicani? Con Barack Obama più debole che mai, il futuro della destra Usa riveste un’importanza crescente. Se dopo le legislative di midterm dovessero azzeccare il candidato vincente per la Casa Bianca nel 2016, quali ne saranno le conseguenze? Il modo più concreto per anticipare che tipo di America vogliono i repubblicani, è guardare la loro azione al Congresso negli ultimi anni. Avendo alle spalle già quattro anni di maggioranza alla Camera (vinsero le midterm del novembre 2010), hanno avuto un ruolo forte, non soltanto da opposizione di sua maestà. I loro cavalli di battaglia sono chiari. Sul piano fiscale: mai aumentare le tasse, guai a usarle come strumento per ridurre le diseguaglianze sociali. Il deficit di bilancio (che peraltro si è assottigliato a vista d’occhio, grazie alla crescita: dall’11% di deficit Pil al 2,6%) va risanato esclusivamente tagliando le spese. Dunque no a nuovi piani d’investimenti pubblici, che si tratti di rinnovamento delle infrastrutture o di fondi per la scuola. Sull’ambiente: stop con le penalizzazioni dell’industria americana in nome della lotta al cambiamento climatico, niente carbon tax, no agli ulteriori limiti sulle emissioni di gas serra. Via libera invece al fracking, la nuova tecnologia per l’estrazione di shale gas e petrolio nelle rocce: già parzialmente autorizzato da Obama, i repubblicani vogliono cavalcare il boom petrolifero che sta dando all’America l’autosufficienza energetica (anche se l’aumento dell’estrazione ha contribuito al crollo del prezzo del greggio mettendo in difficoltà le stesse compagnie petrolifere che finanziano la destra). Un dossier chiave è l’immigrazione. La destra ha accusato Obama di voler introdurre una strisciante amnistia per i clandestini, o almeno per alcune categorie di giovani immigrati senza regolare permesso di soggiorno. I repubblicani promettono pugno duro, aumento delle deportazioni. Ci sono altri obiettivi più estremi. Gran parte del partito, soprattutto quegli eletti che nelle primarie hanno avuto i consensi del Tea Party, si sono solennemente impegnati ad abrogare la riforma sanitaria di Obama. Non sarà facile superare il veto del presidente. Inoltre disfare una riforma come quella avrebbe conseguenze incalcolabili, a cominciare dalla perdita di assistenza medica per qualche decina di milioni di cittadini. Non mancano le correnti più legate alla destra religiosa che promettono di rendere illegali non solo i matrimoni gay ma anche le interruzioni di gravidanza. Alcuni di questi temi valoriali, tuttavia, sono di competenza dei singoli Stati Usa e non del Congresso. In politica estera, le voci dei falchi repubblicani hanno ripetutamente accusato di debolezza Obama: in Ucraina di fronte a Vladimir Putin, in Siria e Iraq di fronte ai jihadisti, in Iran sul dossier nucleare. Nei ranghi della destra c’è stata una spettacolare rivalutazione dei “neoconservatori”, tutta l’armata di George W. Bush è stata rilanciata dalla Fox News e dal Wall Street Journal (proprietà di Rupert Murdoch): da Dick Cheney e Donald Rumsfeld, a John Bolton e Bill Kristol. Se ne può dedurre che la destra spingerà per un intervento armato in piena regola, sul territorio conteso dallo Stato Islamico in Iraq e in Siria? Bisogna tener conto però che la maggioranza dell’opinione pubblica non vuole un’altra guerra. E in 6 seno al partito repubblicano ci sono correnti isolazioniste, ben rappresentate da Rand Paul che predica un disimpegno americano dalle crisi internazionali. Il pericolo più insidioso per i repubblicani è di sopravvalutare questo test elettorale. Non bisogna dimenticare che alle elezioni di midterm e alle presidenziali votano due Americhe molto diverse fra loro. Le legislative non mobilitano, la posta in gioco non è così netta e appassionante come la scelta di un presidente. La partecipazione alle urne cala soprattutto fra quelle categorie che hanno portato due volte alla vittoria Barack Obama: i giovani, gli afroamericani, gli ispanici. Invece vanno a votare compatti i seguaci del Tea Party, soprattutto i bianchi anziani; le “pantere grigie” che formano lo zoccolo duro della destra hanno sempre mostrato una formidabile disciplina elettorale. In questa dinamica c’è un rischio implicito per i repubblicani. Spostandosi sempre più a destra possono inimicarsi ulteriormente quelle categorie che saranno decisive per conquistare la Casa Bianca nel 2016. La demografia conta. Gli Stati Uniti hanno una popolazione giovane e in aumento — se paragonata con l’Europa — grazie soprattutto agli immigrati. Tutto ciò che Obama ha detto e fatto sull’immigrazione, ha consolidato la sua “coalizione etnica”. Per questo la vera battaglia per l’egemonia dentro il partito repubblicano comincia ora, e forse deve prescindere dal risultato elettorale. Questa destra ha gestito le elezioni di midterm senza un leader e senza una piattaforma chiara. Il leader teorico, secondo la tradizione americana, sarebbe l’ultimo candidato presidenziale e cioè Mitt Romney. Una corrente repubblicana lo vorrebbe ricandidare nel 2016, e lui è riapparso in molti comizi a fianco di candidati locali. Ma su Romney si è incollata l’immagine dell’opportunista: moderato quando governava il Massachusetts, ultraconservatore durante le primarie del 2012, ha seminato diffidenza anche nella sua base. Rand Paul piace ai giovani, spinge per un ritorno alla purezza antica, vuole una destra isolazionista, libertaria in modo maniacale: lui ebbe comprensione per Edward Snowden contro il Grande Fratello dello spionaggio digitale. Il complesso militar-industriale lo odia, ovviamente. La vera chance per i rapubblicani è… Ronald Reagan. Per ritrovare la capacità di vincere la Casa Bianca, occorre studiare quello che fu l’ultimo grande leader della destra. Più pragmatico di quanto lo si ricordi, capace di aumentare spesa pubblica e tasse quando necessario. Meno falco in politica estera della sua iconografia: ritirò i marines da Beirut dopo una strage. I candidati per riportare in quell’alveo il partito repubblicano non mancano, da Jeb Bush a Chris Christie. Fondamentale è stabilire un dialogo con le minoranze etniche. Ma contro questi candidati moderati la minaccia peggiore può venire proprio dai loro compagni di partito al Congresso. Se nei prossimi due anni il Congresso saprà solo dire no alle iniziative di Obama, farà ostruzionismo fino alla paralisi, la rimonta democratica ha buone possibilità di successo. Del 5/11/2014, pag. 7 «In difesa di Kobane, laica multietnica e senza Stato» Guerra all'Isis. Nuovi raid aerei contro gli uomini di al Baghdadi Chiara Cruciati Fuori dal Policlinico di Diyarbakir alle 8 di mattina è già comparso un piccolo mercato improvvisato. Qualcuno prepara tè e caffè, altri vendono patatine e dolciumi. Qualche ora dopo il via vai di infermieri e medici si mescola ai piccoli commercianti che pranzano: un tavolino e sopra il cibo portato dalle mogli e i figli. Difficile trovare qualcuno che parli 7 inglese ma basta pronunciare la parola Kobane per ricevere una risposta immediata: «Viva Kobane, viva Kobane!». «Per comprendere cosa succede a Kobane, vanno rigettate le semplificazioni dei media – spiega al manifesto Murad Akincilar, sindacalista e direttore dell’Istituto di Ricerca Politica e Sociale di Diyarbakir – Si deve tornare all’ideologia del Pkk per capire perché oggi quella città è un tale simbolo. Negli anni ’90 il Partito Kurdo dei Lavoratori ha lanciato un programma di liberazione rigettando allo stesso tempo l’ideologia dello Stato-nazione e il legame tra autodeterminazione dei popoli e statalismo. È nato così un nuovo paradigma fondato sulla creazione di comunità indipendenti, multietniche e senza Stato». Quello che i tre cantoni di Rojava, di cui Kobane è parte, hanno messo in pratica negli ultimi due anni: un progetto sociale basato su un’economia rispettosa dell’ambiente e scevra del modello del sistema industriale di Stato, sull’emancipazione delle donne e sul concetto di comune. «L’obiettivo è la creazione di realtà indipendenti, senza che dietro ci sia uno Stato, realtà tenute insieme da un contratto sociale privo di riferimenti etnici. Il Pkk non parla solo di kurdi, ma di turkmeni, arabi, assiri. Per questo Kobane è oggi target dell’Isis e di Usa, Turchia e Kurdistan iracheno. Allo stesso tempo è anche per questo che la resistenza è tanto forte: nessuno vuole perdere quel modello, finalmente messo in pratica». Quelle forze che temono il modello Rojava, però, ora hanno messo in campo sforzi per frenare l’avanzata dell’Isis: Barzani ha inviato 150 peshmerga, Ankara ne ha permesso il passaggio, Washington bombarda le postazioni islamiste nella città assediata. «Turchia e Usa sono quelli che per un anno hanno finto di non vedere la crescita dell’Isis, sperando che andasse a scapito della resistenza kurda — aggiunge Akincilar — Oggi intervengono: il loro obiettivo non è risolvere il conflitto, ma gestirlo e togliere il merito di un’eventuale vittoria alle Unità di protezione popolare e al Pkk. Ankara fa oggi in Siria quello che fa da quasi un secolo nel Kurdistan turco dove agisce però con altri mezzi: repressione della resistenza, discriminazione economica e sociale attraverso mancati investimenti industriali, confisca di terre, annullamento dell’identità kurda». Diyarbakir, principale città della regione del Kurdistan turco, il cui distretto conta oltre un milione di residenti: non esistono zone industriali, non esistono fabbriche. I residenti vivono delle rimesse degli emigrati all’estero, di lavori senza contratto da stagionali nelle stesse terre confiscategli negli anni ’90 e di commercio al dettaglio. «Lo Stato qui non c’è. O meglio lo si vede solo nelle uniformi della polizia», conclude Murad. Un’opinione diffusa: le poche bandiere turche che sventolano a Diyarbakir sono protette da fili spinati, oltre i cancelli delle stazioni di polizia. L’unico sostegno arriva dal Pkk: «La ragione è semplice: il Pkk non è un movimento verticistico – dice al manifesto Iclal Ayse Küçükkirca, giovane ricercatrice kurda all’Università di Mardin – Il Pkk è fatto di donne, uomini, dei nonni prima e dei nipoti ora. Kobane ha cementato un sentimento che era già forte: in strada alle manifestazioni vedi sfilare famiglie intere, anziani, bambini». Che Kobane possa diventare motivo di una nuova unione tra i kurdi divisi in Medio Oriente? «Ne dubito – conclude Iclal – Il riavvicinamento ai peshmerga è avvenuto per il particolare momento storico che stiamo vivendo. Le celebrazioni in strada per il loro arrivo sono legate al desiderio di vedere Kobane salva. Ma non ci sarà un dopo. A bloccarlo non sarà solo la distanza politica tra noi e Irbil, ma il ruolo della Turchia». del 05/11/14, pag. 1/17 Iraq. Quasi due milioni di persone — la metà minorenni — sono state costrette ad abbandonare le loro abitazioni. Molte hanno trovato riparo 8 nei campi dell’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, che però non bastano mai Layla, la neonata scampata all’Is che dorme in una cassetta GAD LERNER ERBIL (KURDISTAN IRACHENO) L’AEREO da Amman devia la sua rotta per non sorvolare le roccaforti del Califfato che ha umiliato il mondo civile prendendosi Mosul e facendone uno dei centri di un regime fondato sul terrore e sull’esaltazione della morte. È l’Unhcr, ovvero l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, che ci ha chiamati a condividere qui a Erbil, nel Kurdistan iracheno, un’esperienza che non potrà lasciarci indifferenti: cosa significa davvero offrire rifugio a intere popolazioni in fuga da una guerra di sterminio; mentre a pochi chilometri di distanza infuriano i combattimenti grazie a cui i peshmerga curdi stanno bloccando l’avanzata delle brigate internazionali del jihadismo sunnita. Insieme alla portavoce italiana dell’Unhcr, Carlotta Sami, atterriamo a oriente di Mosul di soli cinquanta chilometri, rassicurati dal ritrovarci nell’unica regione irachena in cui vige tuttora il rispetto dei diritti umani. L’estate scorsa, in meno di tre settimane, il Kurdistan iracheno si è visto arrivare in casa più di 800mila disperati da dissetare (siamo in mezzo al deserto), sfamare, risanare. Faceva un caldo terribile, così come ora fa freddo. Ai profughi iracheni — un mosaico di etnie, lingue e confessioni religiose diverse — si aggiungono 220mila transfughi siriani. Gli ultimi sono quelli scappati da Kobane, passando dalla Turchia. Ci sono città, come la settentrionale Dohuk, che ormai contano tre o quattro profughi per ogni residente. Li hanno dovuti ammassare nelle scuole, nei centri commerciali, sotto i ponti, nei giardini pubblici. Dappertutto. E poi naturalmente ci sono gli attendamenti dei campi profughi: non bastano mai. Per evitare che si trasformino in megalopoli ingovernabili di polvere e fango, progettano di allestire altri sedici campi profughi oltre a quelli già saturi. Lo scopo è di evitare situazioni caotiche e pericolose come il campo giordano di Zaatari, a ridosso del confine con la Siria, giunto a contare 140mila persone. Nella catastrofe umanitaria, non si segnalano episodi rilevanti di ostilità da parte degli abitanti del Kurdistan. Di fronte a una vera invasione, a un esodo vero, nessuno qui indossa la ben nota maglietta “Stop invasione” esibita da Matteo Salvini per opporsi al passaggio sul suolo italiano di alcune decine di migliaia di fuggiaschi, per lo più intenzionati a raggiungere il Nord Europa. «Te la senti di guardare delle immagini molto forti?», mi chiede un alto funzionario delle Nazioni Unite, prima di infilare una chiavetta Usb nel suo computer. È una precauzione che non adoperano, neanche di fronte ai loro numerosi bambini, i profughi delle tende che, prima di scappare, hanno dovuto respirare l’odore dei cadaveri abbandonati in mezzo alle strade di casa. Sui loro smartphone mostrano fotografie atroci di teste mozzate. Temo gliele facciano pervenire gli stessi assassini dell’Is, come strumento di guerra psicologica. I tagliagole ostentano la loro volontà di sterminio al fine di terrorizzare e ottenere sottomissione. Dai telefonini di alcuni miliziani uccisi, poi, gli operatori Onu hanno recuperato altre testimonianze di questa diffusa pornografia della morte: selfie scattati col prigioniero prima e dopo avergli sparato in testa; addirittura un mucchio di bambini fucilati. Li ho dovuti vedere con i miei occhi. Foto a colori, è l’unica differenza rispetto a quelle dei soldati nazisti in un’Europa 1941 che speravamo irripetibile. Le due mani che si uniscono a formare un tetto sopra una famiglia di rifugiati — cioè il marchio dell’Unhcr — sono riprodotte su ognuna delle tende allineate a migliaia, spesso in 9 mezzo al deserto, con barriere metalliche e di filo spinato a filtrarne l’accesso. Stanno diventando un logo abituale della contemporaneità come i simboli della Nike e della CocaCola. Per rendere più sopportabili le piogge invernali a Gawilan, dove vengono concentrati i profughi di Kobane, si è deciso di gettare basi di cemento e, a fianco della tenda, latrine in muratura che sostituiscano le file di gabinetti chimici imbarazzanti e puzzolenti. Quel cemento aiuta la sopravvivenza, certo, ma è anche indizio di cronicità: stanno nascendo pseudo- città mostruose con cui il pianeta intero dovrà fare i conti, non solo il Kurdistan che le ospita. Dovrei ora riferire i racconti di atrocità subite, di fughe notturne, di figli dispersi, che attraverso traduzioni improvvisate abbiamo raccolto dentro le tende, dopo esserci tolti le scarpe, seduti sui materassini pieghevoli da campeggio che ne costituiscono l’unico arredo possibile. Tra gli yazidi, in particolare, considerati dai tagliagole una popolazione indegna perfino di essere convertita o sottomessa, aleggia la vergogna delle adolescenti imprigionate nei bordelli per miliziani sorti nella zona di Sinjar. Con analogo tremore si accenna ai bambini sequestrati per l’indottrinamento in apposite madrasse a Mosul. Mi è rimasta impressa, fra i tanti, Layla, nata dieci giorni prima nel campo di Hersham, che ha per culla una specie di cassetta. Il padre, Mohamed Abid Sali, fuggito dai sobborghi di Mosul, mi mostra i segni del proiettile che lo ha trapassato e la fotografia della madre, anch’essa Layla, uccisa con tre fratelli da un’autobomba. In queste tende semivuote si trova spesso una televisione: insieme ai telefonini riempie il tempo di una reclusione permanente senza futuro immaginabile. Attendono permessi di lavoro, sognano di raggiungere familiari emigrati lontano prima della catastrofe. Mi trovavo qui, tra i profughi stipati nel buio dell’enorme centro commerciale Ankawa con le scale mobili arrugginite, piuttosto che nel limitrofo giardino pubblico trasformato in tendopoli, quando Beppe Grillo sproloquiava sul suo blog di “Affarenostrum”, insinuando chissà quali prebende lucrerebbero le organizzazioni non governative cui le Nazioni Unite subappaltano la gestione dei ricoveri. Da Amman a Erbil avevo volato di fianco a Gaia Van Der Esch, 27 anni, coordinatrice regionale di Acted, l’ong in cui lavorava uno degli ostaggi decapitati dall’Is, l’inglese David Haines. Gira come una trottola per la regione. A capo del campo di Hersham c’è un’olandesina di 23 anni, Yasmine Colijn, una potenza generosa. Con loro tanti italiani di “Un ponte per”, “Terres des hommes” e altre organizzazioni. Professionisti che vivono nel rischio e nelle privazioni da anni, che l’estate scorsa hanno accompagnato Unicef e Unhcr in missioni di primo soccorso spericolate dentro a città assediate dall’Is. Provvedono alle scuole, alle vaccinazioni, alle terapie d’appoggio per i traumatizzati, allo smistamento del cibo e al rifornimento idrico. Grillo dovrebbe venire a scusarsi per aver malignato sul loro stipendio. Certo è che stiamo parlando di un’impresa umanitaria costata finora più di 100 milioni di dollari, del tutto insufficienti a coprire il fabbisogno e a impedire che l’inverno si trasformi in una ulteriore tragedia. Gli stanziamenti governativi (Arabia Saudita in testa, seguita a molta distanza da Giappone e Usa) non potranno bastare mai. Unhcr copre già quasi il 20% delle sue spese con le donazioni dei privati e sarà imprescindibile aumentare questa percentuale. Per questo è stata lanciata una campagna di sottoscrizione anche in Italia. Il governo regionale del Kurdistan è sottoposto a uno sforzo titanico per evitare la paralisi del suo territorio, trasformato in gigantesco rifugio e sottoposto agli attacchi dell’Is. Dal giugno scorso sta gestendo un silenzioso smistamento che deve tenere conto anche degli ostacoli linguistici (molti fuggiaschi parlano arabo, non curdo) e religiosi: gli sciiti vengono dirottati verso la città di Sulaymaniyah per destinarli poi all’Iraq meridionale; i cristiani cercano di raggiungere la Giordania e quando possibile l’Europa; i sunniti vengono 10 separati dagli yazidi e dalle altre minoranze ormai a rischio di estinzione. Poi ci sono i turcomanni… Oggi il nazionalismo curdo si erge in Iraq a garante di un equilibrio fragilissimo, supportato in ciò dagli interessi petroliferi e commerciali che hanno reso solido il rapporto con la confinante Turchia. Mentre a Est, silenziosamente, operano talvolta di supporto reparti di pasdaran iraniani. Ma le tendopoli della Mesopotamia insanguinata rappresentano un problema del mondo intero, indicano un fallimento della nostra civiltà. Questa desertica, inospitale retrovia di una guerra che dilaga ben oltre i confini della Siria e dell’Iraq, ha il volto dei bambini. Nel 2014 sono complessivamente 1 milione e 800mila le persone costrette in tutto l’Iraq a sopravvivere lontano dalle loro case. Più di metà sono minorenni. Non è forse un problema delle Nazioni Unite? Non è forse un problema nostro? Del 5/11/2014, pag. 7 Lady Pesc si affida alla speranza Israele/Territori Occupati. Appena nominata Federica Mogherini, nuovo Alto Rappresentante della politica estera dell'Ue, comincia il suo mandato con una visita in Israele e nei Territori palestinesi occupati. Auspica che nasca lo Stato di Palestina entro cinque anni Michele Giorgio, GERUSALEMME Dpo gli anni impalpabili della gestione Ashton, ci si attendeva un piglio diverso, più deciso, verso il conflitto israelo-palestinese dalla nuova lady Pesc. E invece Federica Mogherini, Alto rappresentante per la politica estera europea — che di fatto comincia il suo incarico proprio con una visita, venerdì e sabato, in Israele e nei Territori palestinesi occupati – sembra partire più con un auspicio che con la determinazione che richiede questo storico dossier mediorientale. «Trovo che il nodo più interessante è se riusciremo ad avere uno Stato palestinese nei miei cinque anni di mandato», ha detto l’ex ministra degli esteri in un’intervista a La Stampa. Se riusceremo nei miei cinque anni di mandato? E’ davvero sconcertante che i massimi rappresentanti europei non pensino che sia venuta l’ora di mettere fine subito con azioni concrete all’occupazione israeliana e di riconoscere dopo decenni ai palestinesi il diritto all’indipendenza piena e alla libertà. Invece restano ancorati all’esito dell’interminabile, inutile ed intermittente negoziato cominciato più di venti anni fa ad Oslo e segnato dalle condizioni pesanti come macigni poste dalla parte più forte, Israele. Lady Pesc è rimasta vaga nell’intervista proprio sul riconoscimento dello Stato di Palestina giunto da più parti europee, come il governo svedese e il parlamento britannico. «Mettiamola così, bisogna guardare alla luna, non al dito — ha risposto a una domanda su un possibile riconoscimento di tutta l’Unione — Il riconoscimento è il dito. La luna è lo Stato palestinese, l’elemento più importante». Suggestivo. Ma cosa farà Mogherini per arrivare alla luna visto che non si sbilancia neppure sul dito? All’orizzonte non si intravede nulla di nuovo. Tutto lascia credere che, oltre alle dichiarazioni di circostanza fatte da chi è all’inizio di una nuova importante missione, la nuova lady Pesc non farà altro che seguire il rituale europeo nei confronti di israeliani e palestinesi. Con le esitazioni e le debolezze tipiche dell’Unione quando si tocca la questione palestinese. «La nostra responsabilità è di andare a vedere se, come sembra, ci sono margini perché l’Europa eserciti un ruolo. Ce lo chiedono i cittadini europei», un’intera generazione «cresciuta mentre la questione israelopalestinese restava irrisolta». Proprio per questo non è più tempo di auspici e occorre applicare le risoluzioni internazionali in Palestina. Mogherini oltre agli incontri in Israele 11 con il premier Benyamin Netanyahu ed i ministri degli esteri e della giustizia, e poi a Ramallah con il presidente Abu Mazen e il premier Rami Hamdallah, andrà anche a Gaza. Proprio la soluzione dei problemi di Gaza e della sua popolazione, prigioniera in un lembo di terra palestinese bloccato (e bombardato la scorsa estate) dagli israeliani e tenuto sotto pressione dell’Egitto, sarà un test importante per valutare se e come la nuova lady Pesc potrà voltare pagina nell’approccio a dir poco deludente dell’Ue al Medio Oriente, segnato da ambiguità e debolezze, da profonde divisioni tra i vari Paesi membri e da sostegni solo a parole all’indipendenza palestinese. E’ arduo non essere scettici del 05/11/14, pag. 34 Il premier Abe l’aveva chiamata con enfasi “womenomics” Ma la riscossa dei diritti delle donne non c’è stata Ecco quanto costano soprusi e discriminazioni Giappone rosa shock GIAMPAOLO VISETTI DAL NOSTRO INVIATO TOKYO LA pancia di Sanako Iwamoto, al quinto mese, sporgeva già troppo. Sabato il capo è andato nel suo appartamento a Shinjuku con un mazzo di fiori da parte dei colleghi. «Temono che il bordo della scrivania ti faccia male — ha detto — da lunedì stai a casa ». Segretaria modello, si è licenziata per denunciare la discriminazione delle donne che lavorano a Tokyo. Anche per Emiko Kitamura la gravidanza si è rivelata il capolinea. Ex modella, commessa in un negozio di lusso a Ginza, è stata tagliata perché il suo profilo «non rispecchia più lo stile del brand». I giornali giapponesi la chiamano matahara, all’inglese, crasi di “maternity harassment”: molestie causa maternità. A dieci giorni dall’offensiva anti- quote rosa che travolge il governo di Shinzo Abe, lo scandalo oscura perfino il via libera di Sendai alla riaccensione dei primi due reattori nucleari nel Paese, dopo il disastro di Fukushima. L’altra faccia dell’esibita “Womenomics” è stata scoperta da Sayaka Osakabe, impiegata di 37 anni. Incinta per la seconda volta, si è sentita dire che la sua condizione «imbarazzava i colleghi». Il suo superiore le ha chiesto perché avesse deciso di «fare ancora sesso». «Il mio è un contratto a termine — dice — lo stipendio è necessario, non ho avuto alternativa: ho dovuto abortire per la seconda volta». Scegliere tra il lavoro e la maternità, in Giappone resta un dramma per milioni di donne. Il conservatore Abe, all’ultimo Forum di Davos, aveva annunciato che «entro il 2020 il 30% dei nostri manager saranno donne». Sul Wall Street Journal ha scritto che «l’Abenomics è impossibile senza un ruolo sostanziale delle donne in economia». I media nazionali sono ora scatenati nel dimostrare che le parole del premier non rispecchiano i fatti. Il neogovernatore della capitale, Yoichi Masuzoe, ha detto che le donne non dovrebbero ricoprire incarichi politici «perché perdono l’equilibrio durante il loro ciclo mensile». Il governatore nazionalista di Osaka, Toru Hashimoto, ha confermato che «durante la guerra le donne di conforto erano necessarie per mantenere la disciplina militare ». Le sopravvissute agli stupri giapponesi, in Cina e in Corea del Sud, sono insorte contro «la vergogna di chi continua a considerare la violenza come un diritto». Un appello online per rendere il sessismo un reato, in poche ore, è stato firmato da oltre diecimila persone. «Sesso e violenza — dice la leader delle femministe Chizuko Ueno — restano il modo con cui le giapponesi fanno dolorosamente conoscenza con il mondo». La 12 svolta dei primi di settembre è già dimenticata. Shinzo Abe aveva rivoluzionato il suo governo, portando cinque donne al vertice dei ministeri, come Koizumi nel 2006. «Voglio aiutare le donne — aveva detto — a rompere la cupola di cristallo che le opprime». Il suo partito, come i democratici, non pensano evidentemente che sia opportuno. Yuko Obuchi, neoministra dell’Economia e simbolo del riscatto delle donne nel Paese, è stata costretta a dimettersi. È accusata di aver speso 246 mila dollari di fondi elettorali in cosmetici e regali. Nel 2009, già al governo, era stata la prima giapponese a osare partorire durante un mandato politico. Subito fuori anche Midori Matsushima, ministra della Giustizia. È imputata di aver donato ventagli agli elettori, ma pure di aver indossato una sciarpa nella Camera Alta e di vestire di rosso anche al lavoro. Si è salvato invece Yoichi Miyazawa, successore di Yuko Obuchi da pochi giorni. Il ministro di Industria e Commercio risulta aver saldato con soldi pubblici un conto di 170 euro in un locale sadomaso di Hiroshima. Le ragazze girano in biancheria intima, i clienti possono legarle e frustarle. Miyazawa ha detto che si è trattato di «un errore » dei suoi collaboratori, costretti a rimborsare lo Stato. «Se il caso avesse riguardato una donna — dice la manager di banca Hiroko Tatebe — sarebbe caduto il governo ». Il problema, osservano anche i media, è che «se nasci donna in Giappone devi ancora scordarti il potere». Una Angela Merkel o una Dilma Rousseff qui sono impensabili. «Siamo una superpotenza — dice il docente di sociologia Masahira Anesaki — fondata su casalinghe, segretarie e commesse. Più in alto, semplicemente, le donne non vanno». Lo ha certificato l’ultimo rapporto del World Economic Forum. Nella classifica mondiale del divario di genere, il Giappone è al 104° posto su 142 Paesi, dietro al Tajikistan, ultimo nel G20. Le giapponesi, rispetto ai maschi, a parità di posizione guadagnano il 60% in meno. L’80% ha un’istruzione superiore, ma solo il 40,4% un impiego retribuito. Otto donne su dieci, appena diventano madri, sono costrette a lasciare il lavoro, solo la metà riprende quando i figli diventano indipendenti. Un quarto delle donne tra i 20 e i 40 anni è vittima del mobbing anti-maternità: 2 mila i casi ora al vaglio dell’Associazione “Matahara.net”. «Ero operaia — dice Tanaka Machi — ma appena sono rimasta incinta mi hanno spostata al turno di notte. Poi il medico mi ha consigliato di licenziarmi». Solo una madre su tre continua a lavorare, un terzo rispetto alla Svezia, e appena il 15% delle imprese nipponiche presentano una donna nel management. Solo due al top: una nel board della Japan Airlines, l’altra in quello della Panasonic. Abe ha chiesto alle società di aumentare la presenza femminile, di coinvolgere in tutti i cda «almeno una donna», ma rischia ora di essere travolto dall’accusa di «ipocrisia». Un sondaggio rivela che per la metà dei giapponesi le donne non devono lavorare fuori di casa e che per il 63% il premier «pensa a reclutare nuova forza lavoro e all’economia, non alla parità tra i sessi». Avvertono i demografi: «L’invecchiamento della nazione è sconvolgente. Senza il 30% in più di donne occupate, a tutti i livelli, i posti dovranno essere assegnati a stranieri». Per le relatrici al Forum di Tokyo sul “gender gap”, la svolta rosa sarebbe suggerita dalla «necessità politica di scongiurare un’ondata di immigrati». I conti però premono. «Il 56% delle giapponesi — dice Kathy Matsui, analista di Goldman Sarant’anni, chs — hanno un contratto a termine, rispetto al 21% dei maschi. Se le donne occupate stabilmente arrivassero all’80% della quota degli uomini, il Pil aumenterebbe del 15%». L’ex ministro alla sanità di Tokyo fu travolto dall’accusa di considerare le donne «solo una macchina da riproduzione». Abe, convinto che esse «potrebbero valere il 16% della produzione industriale», rischia l’imputazione di ritenerle «solo uno strumento per la crescita». La nomina delle cinque ministre doveva fermare il crollo di popolarità, dopo il disastroso aumento dell’Iva e in previsione di un altro salto della tassa sui consumi nel 2015. Risultato: più 11% in poche ore. Dopo le dimissioni coatte, lo stesso giorno, il gradimento è tornato ai minimi, sotto il 50%. «Il nesso tra offerta di pari opportunità e 13 necessità di uscire dalla crisi economica — dice la executive di Itochu Corp, Mitsuru Chino — è il punto debole della cosiddetta Womenomics ». Un equivoco che le giapponesi, decise a non restare idol e konami girls ( le teenager-cantanti o mutuate dai videogiochi che sembrano fatte in serie), non perdonano. «Quella di Abe — dice la leader del movimento femminile Takazato Suzuyo — è un’operazione d’immagine. Pensa ad una manciata di donne-manager, non alla massa anonima che sta sotto. Moglie in giapponese si dice okusan , signora della casa: una condizione che nemmeno il premier vuole concretamente cambiare». Nel 2006, appena nato un erede maschio al trono imperiale dopo qua- Tokyo ha bloccato la storica riforma della legge salica, che avrebbe permesso alla principessa Aiko di succedere al nonno Akihito. La stessa neo-ambasciatrice Usa, Caroline Kennedy, figlia del presidente assassinato, viene guardata con sospetto dai conservatori: riservatamente definiscono il suo attivismo pro-donne «uno schiaffo ai maschi giapponesi ». La terza economia del mondo non fa più figli, ha il debito pubblico al 240% del Pil e riaccende le centrali atomiche. Resta però fondata su casalinghe, commesse e segretarie: purché non si mettano in testa di diventare anche mamme. Del 5/11/2014, pag. 8 Arrestato il sindaco di Iguala e la moglie per la scomparsa dei 43 ragazzi Messico. Gli studenti marciano sulla capitale Geraldina Colotti Due arresti eccellenti per il massacro di Iguala, in Messico. Si tratta dell’ex sindaco Luis Abarca e di sua moglie Maria de los Angeles Pineda, sorella di tre narcotrafficanti legati al cartello dei Guerreros Unidos. Una banda coinvolta nell’attacco a una mobilitazione studentesca, condotto il 26 dicembre a Iguala con la complicità della polizia locale. In quell’occasione, morirono 6 studenti (uno dei quali presentava evidenti segni di tortura), altri 25 rimasero feriti e 43 risultano da allora scomparsi. Secondo le testimonianze degli abitanti e quelle di alcuni arrestati, un gruppo di 17 ragazzi è stato consegnato ai narcotrafficanti dalla polizia e questi — a loro dire credendoli appartenenti a una banda rivale — li hanno uccisi e bruciati. Decine di altri studenti sono stati visti mentre venivano caricati sul furgoni di polizia. E un video che circola in rete, girato con un cellulare, ha registrato dall’interno l’attacco armato agli studenti, i morti , i feriti e le loro grida di aiuto. Il sindaco e la moglie sono accusati di essere i mandanti della mattanza, in combutta con il governatore dello stato di Guerrero, ancora in fuga. Nei giorni scorsi, i Guerreros hanno fatto trovare un messaggio diretto al presidente Enrique Peña Nieto. Hanno sostenuto che i 43 «normalistas» (così chiamati per l’appartenenza alle combattive scuole rurali messicane) sono vivi. Hanno denunciato per nome e cognome molti politici sul libro paga delle mafie. I Guerreros sono una scissione del cartello dei fratelli Beltran Leyva, uno dei più attivi nello stato. Una zona in cui l’intreccio di violenza e malaffare guida da gran tempo l’agenda politica, una pratica purtroppo diffusa ai più alti livelli di potere in Messico. Secondo il ministro degli Interni, Osorio Chong, dall’assunzione di incarico di Nieto (alla fine del 2012) a maggio del 2014 risultano scomparse 8.000 persone, 22.000 se si somma anche la precedente presidenza di Felipe Calderon. La lotta per bande s’incunea nelle forti disuguaglianze sociali rinnovate da tutte le gestioni politiche e alimenta il grosso business 14 della sicurezza guidato da Washington coi relativi fiumi di denaro erogati per le soluzioni militari. Peña Nieto aveva promesso di mettere un freno allo strapotere dei militari nella lotta contro i cartelli del narcotraffico. Ma di certo non ha smesso di circondarsi di elementi tutt’altro che puliti. Secondo un’inchiesta di Amnesty International, nel 2013 oltre 1.500 persone hanno denunciato per tortura e violenze polizia o militari, e il 64% dei messicani ha dichiarato che teme di essere torturato dalle forze dell’ordine. E se pure l’elevatissimo livello degli omicidi è sceso rispetto all’acme della guerra dei cartelli (allora 23 assassinii ogni 100.000 abitanti, 19 casi ogni 100.000 abitanti nel 2013), le misure neoliberiste adottate dal governo Nieto non hanno certo disinnescato tensioni sociali e problemi strutturali. E il paese resta uno dei più pericolosi al mondo per le donne e per i giornalisti. Gli studenti della Normal Rural di Ayotzinapa, repressi a Iguala, protestavano contro la privatizzazione della scuola pubblica, così come stanno facendo quelli dell’Istituto Politecnico Nacional, in agitazione da tre settimane. Ora il governo ha deciso di trattare, ma le mobilitazioni per riportare a casa i ragazzi scomparsi non si fermano. E 43 è il numero che torna in ogni iniziativa: dalle ore di digiuno e di preghiera di diverse organizzazioni religiose, che durerà fino a domani, alla marcia denominata «43x43», partita da Iguala e diretta a Città del Messico. Oggi, terza giornata di protesta nazionale: anche per chiedere le dimissioni del presidente Nieto e un cambiamento strutturale in Messico: «Non dev’esserci impunità per nessuno e neanche per Peña Nieto», ha detto Manuel Lopez Obrador, ex candidato presidenziale della sinistra, che non ha riconosciuto la vittoria di Nieto nel 2012. Secondo Human Rights Watch, questa è la crisi più seria che il Messico affronta dal 1968 sul piano dei diritti umani. In quell’anno vi fu il massacro di Tlatelolco che i «normalistas» di Iguala si apprestavano a ricordare. Del 5/11/2014, pag. 8 Nicolas Maduro aumenta ancora il salario Venezuela. Al via il vertice dei movimenti sul cambiamento climatico Geraldina Colotti Dal prossimo 1 dicembre, il salario minimo aumenterà del 15% in Venezuela e arriverà a 4.889,11 bolivar (776,05 dollari). Questo è il terzo aumento deciso per decreto dal presidente della Repubblica, Nicolas Maduro nel corso del 2014, per un rialzo totale del 68,2%. Allo stesso tempo, il buono alimentazione associato passa da 1.297 a 2.095 bolivar. «La borghesia – ha detto Maduro – durante i suoi ultimi 25 anni di governo ha disposto solo 8 aumenti salariali, mentre la rivoluzione bolivariana ne ha decisi 28 in 15 anni. Questo è per noi il modello socialista che garantisce la protezione del popolo, e si basa sulla ridistribuzione della rendita e la giustizia sociale». Il salario minimo venezuelano è così oggi il più alto dell’America latina, sempre molto al di sopra della pesante inflazione, insita nelle storture economiche ereditate e in quelle dovute al sabotaggio dei poteri forti e dei grandi gruppi di opposizione. Basti vedere le tonnellate di prodotti sequestrati, dirette al mercato nero. Attualmente — ha aggiunto il presidente — «il Venezuela ha il livello di disoccupazione più basso degli ultimi quarant’anni, nonostante la guerra economica. La borghesia arriva col sorriso a dire che il nostro modello è fallito, e noi con costanza ricominciamo a superare gli ostacoli. Se vogliamo costruire una nuova società abbiamo bisogno di una nuova classe lavoratrice, portatrice di una nuova morale, di una nuova cultura del lavoro». Nei giorni scorsi è stato anche deciso un ulteriore aumento di stipendio alle Forze armate, nerbatura dell’unione civico-militare su cui si basa il socialismo bolivariano. Una misura fortemente contestata dalle destre, costrette comun15 que a rincorrere le politiche economiche decise dal governo per erodere consensi a Maduro tra le classi popolari. Secondo le ultime inchieste, l’indice di gradimento del presidente è sempre molto elevato, sostenuto dalla continuità dei progetti sociali portata avanti dal chavismo: a partire dal massiccio piano di costruzione di case popolari, consegnate agli assegnatari già accessoriate. Inoltre, con l’ingresso del Venezuela nel Consiglio di sicurezza dell’Onu, Maduro ha più peso per contrastare i colpi bassi e il discredito dell’opposizione oltranzista a livello internazionale. E infine, con il nuovo ruolo che sta giocando il presidente colombiano Manuel Santos, intenzionato a portare a soluzione politica il conflitto sociale con le guerriglie che dura da oltre mezzo secolo, vi sono stati alcuni segnali positivi per disinnescare piani eversivi e attività di contrabbando alla frontiera. E ieri è cominciato nell’isola Margherita (Nueva Esparta) il vertice dei movimenti sociali sul cambiamento climatico. Fino al 7 novembre, 79 organizzazioni non governative e movimenti sociali provenienti da 45 paesi del mondo si riuniscono per trovare una posizione comune e presentarla alla Conferenza di Lima tra il 1 e il 12 dicembre. 16 INTERNI del 05/11/14, pag. 1/12 Le bugie del ministro Così Alfano ha mentito sui lavoratori picchiati Ecco perché la versione ufficiale viene smentita dal video Oggi alla Camera il voto sulla mozione di sfiducia CARLO BONINI ROMA . In un perfetto déjà vu, per la seconda volta in appena sedici mesi, il ministro dell’Interno Angelino Alfano torna a sottoporsi al voto del Parlamento su una mozione di sfiducia individuale. Di cui cambia solo il proscenio: un anno e mezzo fa fu il Senato, oggi la Camera. Ma non la sostanza politica. Come nel luglio del 2013 (caso Shalabayeva), gli ingredienti della vicenda che lo investe — gli scontri di piazza del 29 ottobre scorso durante il corteo degli operai della Ast — ripropongono infatti un identico canovaccio. Come in quell’estate, Alfano mente al Parlamento, cui annuncia una «rigorosa e oggettiva ricostruzione dei fatti» che, al contrario, è costruita su circostanze ora fuorvianti, ora sapientemente manipolate. Non è dato sapere se figlie del dolo o della superficialità con cui le ha recepite da chi gliele ha confezionate (questura e Prefettura di Roma). In ogni caso, necessarie innanzitutto a sottrarlo alla sua responsabilità politica di ministro e, insieme, a dissimulare l’errore degli apparati. Ancora: come in quell’estate, la mossa gli è resa agevole dal silenzio di un Presidente del Consiglio (allora Enrico Letta, oggi Matteo Renzi), alla cui maggioranza sa di essere indispensabile. E in nome della quale ritiene per altro di poter chiudere la faccenda con una “democristiana” e dunque ecumenica «solidarietà ai lavoratori della Ast e della Polizia di Stato». Per riuscire nell’operazione, è appunto necessario stravolgere i fatti e la loro sequenza. Ma questa volta, grazie alle immagini degli scontri del 29 mattina registrate dalle telecamere di “ Gazebo” e diffuse da Repubblica. it, l’azzardo mostra rapidamente la sua natura abusiva. LA “VOCE COLTA IN PIAZZA” Dice Alfano in Senato il 30 ottobre. « Èsubentrata la preoccupa-zione che alcuni manifestanti vo-lessero dirigersi verso la vicina stazione Termini, atteso che ta-le voce era stata colta dai funzio-nari di polizia in servizio a piazza Indipendenza. Un folto numero di manifestanti, dando vita a un improvviso corteo, si è diretto verso via Solferino e, visto lo sbarramento opposto dalla poli-zia, ha poi deviato verso altre vie limitrofe che conducono comun-que a piazza dei Cinquecento e quindi alla stazione Termini. Rafforzando così la preoccupa-zione che era già stata avvertita e cioè che volessero dirigersi alla stazione » . Non è fortunato l’ incipit della ricostruzione «oggettiva e rigorosa » del ministro. Nelle sue parole, si contano infatti un’informazione tanto anodina quanto inverificabile («una voce raccolta in piazza» vuole che i manifestanti intendano dirigersi verso Termini per “occuparla”), e, soprattutto, una prima decisiva manipolazione che le immagini televisive svelano come tale. Per poter infatti sostenere che le intenzioni dell’«improvvisato» corteo siano, come vorrebbe la misteriosa “voce”, quelle di marciare su Termini, Alfano è costretto a collocarne la testa in via Solferino, nel tratto che unisce piazza Indipendenza a piazza dei Cinquecento. Ma è falso. Il corteo infatti non solo non si dirige o entra in via 17 Solferino, ma, al contrario, piega sulla destra di piazza Indipendenza, per entrare in via Curtatone. Una «via limitrofa » che non conduce affatto «a piazza dei Cinquecento» (corre infatti in direzione esattamente opposta), ma al ministero, dove gli operai intendono e dichiarano di andare. E dove — mostrano ancora le immagini televisive — dirigono per scelta e non perché «uno sbarramento della polizia» gli abbia ostacolato il passo in via Solferino. IL “CONCITATO CONTATTO FISICO” Ancora Alfano: «Al corteo è stato inutilmente intimato l’alt. Per cui si è in breve arrivati a un concitato contatto fisico tra manifestanti e polizia da cui è con-seguito il ferimento di 4manife-stanti e di 4operatori della Poli-zia di stato: un funzionario e tre agenti del reparto mobile, i qua-li hanno riportato tutti lesioni guaribili da un minimo di tre a un massimo di quindici giorni » . Le immagini e il sonoro delle riprese televisive non lasciano percepire alcuna intimazione al corteo di fermarsi. Al contrario, mostrano una improvvisa frenesia che coglie i funzionari in borghese sulla piazza. Uno di loro indossa un giacca di pelle e lo si ascolta nitidamente impartire immediatamente l’ordine di “carica” agli agenti del reparto mobile che chiude l’accesso di via Curtatone. La “concitazione” comincia in quell’esatto momento. Con quell’ordine, con le visiere che si abbassano, gli scudi che si alzano, i manganelli che mulinellano sulle teste degli operai che sorreggono lo striscione in testa al corteo. Non c’è dunque un «concitato contatto fisico». C’è una carica. C’è un funzionario che perde la testa e ordina un uso sproporzionato della forza. Un funzionario così disorientato da vederlo gridare a favore di telecamera « Dovete dircelo dove andate!!! », quando ormai il guaio e fatto e qualche testa è già stata scassata. Ma anche di questo, nella «rigorosa e oggettiva relazione » del ministro non c’è, né può esserci traccia. Anche perché questo significherebbe non solo ammettere un errore e doversene scusare, assumendone il peso politico. Significherebbe anche dover rispondere ad alcune domande. L’ordine di caricare è stata l’iniziativa di un singo- lo? Quali indicazioni avevano ricevuto i funzionari in piazza circa l’uso della forza? E da chi? Dal questore? Dal prefetto? E quali erano state le direttive di ordine pubblico che questore e prefetto avevano ricevuto dal ministro? Il 29 mattina si doveva cercare la cogestione pacifica della piazza o, al contrario, la prova di forza muscolare con Landini e gli operai? La verità è che nel vuoto della relazione di Alfano non c’è traccia di responsabilità. Non è colpa di nessuno. Né «è stato il governo a dare l’ordine di caricare » , dirà il presidente del Consiglio intervistato da Massimo Giannini a Ballarò. “SOPRAGGIUNGE LANDINI” Manca un ultimo tassello: « È poi sopraggiunto il segretario generale della Fiom Landini, il cui intervento ha contribuito a ri-portare la calma fra i manife-stanti. In seguito, ha avuto avvio un breve negoziato per l’autoriz-zazione a effettuare un corteo verso la sede dello sviluppo eco-nomico, che si è concluso positi-vamente con la definizione di un percorso concordato » . Anche nel dare conto di quest’ultimo anello della catena degli eventi, è necessario al ministro un sapiente ritocco, utile a sostenere, tra le righe, che l’animosità del corteo è stata raffreddata grazie alla “sopraggiunta” diplomazia del segretario della Fiom. Peccato che Landini non sopraggiunga. Lo si distingue nitidamente a pochi passi dalla testa del corteo nel tentativo insieme disperato e furioso di fermare i manganelli. « Che cazzo state facendo?! », urla alzando le mani al cielo davanti agli agenti del reparto Mobile. « Siamo lavoratori come voi! ». E peccato che Landini non negozi, ma gridi sul volto dello spiritato funzionario di polizia con la giacca di pelle che è al ministero che gli operai vogliono andare. Non alla stazione Termini. Al ministero. Perché è lì che porta la “limitrofa” via Curtatone. 18 del 05/11/14, pag. 12 Napolitano: “Da estremisti e antagonisti rischio di violenze senza precedenti” UMBERTO ROSSO ROMA . Un 4 novembre segnato da una grande preoccupazione per il capo dello Stato. C’è il pericolo di «rotture e violenze sociali » senza precedenti. Innescate da un combinato disposto potenzialmente esplosivo: l’ondata «esterna» dell’estremismo islamico alle porte dell’Italia sommata all’escalation «interna » dell’antagonismo sociale, che torna ad agitare le piazze del nostro paese. Un allarme molto forte quello che Giorgio Napolitano lancia, nella giornata dell’Unità nazionale e delle Forze Armate. Dunque, sulla spinta di quelle due forze “negative” e anche «sull’onda di contrapposizioni ideologiche pure così datate e insostenibili», il rischio è che «prendano corpo nelle nostre società rotture e violenze di intensità forse mai viste prima». Appena un riferimento alla situazione di casa nostra, più che ai sindacati indirizzato probabilmente alla galassia dei vari centri sociali e movimenti antagonisti, perché il cuore del ragionamento di Napolitano riguarda soprattutto «tensioni e instabilità crescenti» del contesto internazionale, minacciato dalle bandiere nere dell’Is. Nuove e più aggressive «forme di estremismo e di fanatismo » che rischiano di investire i territori degli “Stati falliti”, in primo luogo Libia, Iraq e Siria. Ma che si infiltrano anche in Europa grazie «alla loro perversa forza attrattiva». E’ una minaccia reale, «anche militare», che le nostre Forze Armate «devono essere pronte a contrastare e prima di tutto a prevenire». Ma la conflittualità è alimentata anche da situazioni «di profonda disuguaglianza». Bisogna dunque in primo luogo misurarsi «con problemi di giustizia e di garanzia del rispetto delle regole e dei principi fondanti della convivenza umana ». Il taglio delle spese militari? Napolitano decide di affrontare apertamente le polemiche sulla riduzione degli armamenti, lo scontro fra «l’impegno a perseguire il necessario livello di efficienza dello strumento militare» da un lato e dall’altro invece quella « ricorrente pressione per una riduzione quasi «di principio» di quell’impegno e dei suoi costi». Ricorda che di recente sono arrivate, in seno alla stessa Nato, «voci critiche» per la tendenza che si sarebbe manifestata in diversi Stati membri a una riduzione della spesa militare, mentre l’aggravarsi del quadro delle relazioni internazionali avrebbe dovuto spingere in senso opposto. Ma per il capo dello Stato da parte di ogni paese della Nato «si deve esser seri nel prendere decisioni», non si possono «mai avallare visioni ingenue, non realistiche di perdita d’importanza dello strumento militare ». E tuttavia, spiega il capo dello Stato, le crisi internazionali non scoppiano perché mancano sul terreno armi moderne ma soprattutto perché «c’è una perdita di leadership politica in seno alla comunità internazionale». Allora «varrà la pena, credo, di discuterne», chiosa. A partire dal Libro Bianco della Difesa. 19 Del 5/11/2014, pag. 5 Cortei, ecco le nuove regole del Viminale per le forze dell’ordine Ordine pubblico. Oggi la Camera archivia il caso Alfano: Pd, Ncd e Forza Italia contro la mozione di sfiducia Evitare il contatto fisico e quando è inevitabile evitare di colpire parti vitali del corpo. Arrivano le nuove regole di ingaggio per le forze dell’ordine in servizio nei cortei, ma anche nei servizi di rimpatrio degli immigrati e nelle procedure di arresto. Norme che, almeno in alcuni casi, dovrebbero essere scontate, ma che purtroppo spesso vengono disattese come dimostrano anche gli scontri del 29 ottobre scorso con gli operai delle acciaierie di Terni. Le nuove regole verranno presentate domani ai sindacati di categoria al ministero degli Interni e si pongono l’obiettivo di «tutelare l’incolumità dei cittadini ma anche degli agenti chiamati a gestire la sicurezza». Oggi pomeriggio invece, alla Camera verrà discussa la mozione di sfiducia presentata da Sel, M5S e Lega Nord contro il ministro degli Interni Angelino Alfano proprio in seguito agli scontri con le tute blu di Terni. Mozione destinata a finire in un nulla di fatto visto che oltre a Pd e Ncd, anche Forza Italia ieri ha annunciato che voterà contro la sfiducia. Le nuove disposizioni sono contenute in un testo composto da 15 schede operative, ognuna delle quali dedicata a uno specifico settore, con istruzioni specifiche «sull’uso legittimo della forza e dei mezzi di coazione fisica». Si va dalle tecniche di ammanettamento all’impiego dello spray al peperoncino, dalle fasce in velcro da utilizzare per limitare i movimenti di soggetti particolarmente aggressivi al «bodycuff» che può essere impiegato nell’esecuzione dei rimpatri forzati, e allo «sfollagente» strumento, è spiegato, che non deve mai essere considerato «mezzo punitivo». Ma su tutte le regole, ne prevale una: il contatto fisico deve essere «l’extrema ratio» e solo dopo che ogni tentativo di mediazione e dialogo con i manifestanti si sarà esaurito negativamente. Cinque i principi generali che le forze dell’ordine devono osservare nell’utilizzare manette, manganelli, spray al peperoncino o altri strumenti. Il primo è, appunto, che «l’uso della forza deve essere sempre proporzionato al grado di resistenza o violenza esercitate dal soggetto e deve cessare non appena lo stesso abbia desistito e sia stato adeguatamente contenuto in posizione tale da non nuocere». Il Dipartimento afferma inoltre che «è vietata ogni forma di accanimento» e che «non devono essere inferti colpi sul viso o in parti vitali del corpo e non deve essere compromessa o minacciata la possibilità dell’interessato di respirare». Chi viene bloccato a terra a faccia in giù, inoltre, deve rimanere in quella posizione il «tempo strettamente necessario», disposizione questa che si spera possa evitare ilripetersi di casi come quelli di Federico Aldrovandi e Riccardo Magherini. Così come l’ultimo principio. «In caso di soggetti in stato di alterazione fisica o vulnerabili — si legge — l’approccio deve essere maggiormente caratterizzato dalla gradualità dell’intervento privilegiando, ove possibile, principalmente un azione di dialogo o persuasione». Per quanto riguarda l’utilizzo del manganello da parte degli agenti, nelle nuove regole si sottolinea che «non deve essere considerato come un mezzo punitivo, deve essere impiegato con decisione e mai con brutalità» e deve essere utilizzato indirizzando i colpi «mai al capo, al volto e a tutte le parti vitali del corpo». In ogni caso, l’azione «deve cessare immediatamente non appena viene raggiunta la finalità perseguita». Infine, lo sfollagente non deve essere usato contro «persone inermi che abbiano desistito dalla propria azione violenta» o «siano in posizione tale da non nuocere e non realizzino alcuna forma di resistenza». Sono destinate intanto a chiudersi oggi con la discussione della mozione di sfiducia nei confronti del ministro Alfano, le polemiche sulle violenze compiute 20 dalla polizia contro gli operai dell’Ast di Terni. Il deputato del Pd Antonio Boccuzzi, ex operaio Thissen, ha annunciato che uscirà dall’aula al momento del voto se Alfano non fornirà elementi nuovi rispetto a quanto già dichiarato al parlamento. Il suo sarà però un gesto isolato. Pd, Ncd e Forza Italia voteranno infatti contro la mozione di sfiducia mettendo così la parola fine al caso. del 05/11/14, pag. 4 Renzi: “Il mio Jobs act è una riforma di sinistra sia legge entro dicembre” Il premier: “Subito il nuovo sistema elettorale, premio alla lista” Il silenzio della minoranza pd all’assemblea dei gruppi SILVIO BUZZANCA ROMA . «Non ho mai visto una riforma del lavoro di sinistra come questa. C’è un consenso nazionale che va oltre il Pd. Toglie alibi, non diritti». Matteo Renzi difende così il Jobs Act davanti ai parlamentari democratici. Un’assemblea che ha ascoltato il presidente del Consiglio e si è conclusa senza un intervento da parte di un senatore o un deputato. Segno che la minoranza ha deciso di evitare lo scontro. Il premier dunque non molla e insiste nel volere portare a casa presto il provvedimento. E fissa anche una data: «Dal primo gennaio il Jobs Act deve entrare in vigore. Il primo gennaio è la dead line». Un affondo che arriva dopo un’intervista rilasciata a Ballarò in cui difende il suo progetto sul lavoro, ma invoca anche «un po’ più di comprensione da parte di quella sinistra radicale» per quello che il governo sta facendo in Europa. Renzi critica il ruolo politico del sindacato e della Cgil in particolare. Evoca la Camusso che lo accusa di essere la come la Thatcher, nega di avere mai usato la parola complotto. Ma spiega: «Il ”disegno” di cui parlo è una cosa chiara: c’è una parte del sindacato che pensa di fare del lavoro il tema dello scontro». E su questo tema ai gruppi invita tutti a non usare politicamente vicende come quella dell’Ast di Terni, convinto «che si può chiudere un accordo». Comunque alla fine il premier ammette: «Se serve metteremo la fiducia sul Jobs act». Il premier poi parla di legge elettorale. E anche su questo preme l’acceleratore. Il premier dice: «Abbiamo detto che si vota nel 2018 ma non dobbiamo aspettare il 2017 per cambiarla». Renzi dice che si dovrebbero apportare al testo votato dalla Camera delle modifiche: per esempio alzare la soglia di sbarramento per ottenere il premio di maggioranza al 40 per cento, in modo da assegnare alla lista vincente 350 seggi. Resta aperto il dilemma: premio alla coalizione o alla lista. Dubbio di dirimere con Berlusconi. E su questo Renzi dice: «Giusto fare le riforme con Berlusconi, non le faccio da solo. Rispetto Berlusconi, Verdini e Letta, il fatto che Berlusconi sia stato condannato e Verdini rinviato a giudizio attiene la loro vicenda personale». 21 del 05/11/14, pag. 6 L’opposizione Dem al contrattacco “Matteo ci sta prendendo in giro non ci ha offerto alcuna via d’uscita” GOFFREDO DE MARCHIS ROMA . C’è una risposta sui tempi: il Jobs act dev’essere operativo entro il 1 gennaio 2015. Un paletto chiaro, una data cerchiata sul calendario. Non c’è la risposta sulle correzioni da inserire alla Camera. Da una parte Matteo Renzi lascia alla trattativa alcuni margini per arrivare a un’intesa con la minoranza Pd. Dall’altra, non offre una linea da sostenere o da criticare. «Ha fatto un catalogo — protesta Stefano Fassina — e sui titoli siamo tutti d’accordo. Sui tempi anche, bisogna fare in fretta. La riforma del lavoro si può approvare a Montecitorio anche la prossima settimana. Ma quale provvedimento votiamo? Come viene regolato il licenziamento? Matteo deve sapere che prima o poi il momento della verità arriva». I dissidenti hanno vissuto l’assemblea di ieri sera come una presa in giro. È vero che il clima non si è scaldato e non ci sono stati ultimatum del premier. Ma i fronti restano aperti. Renzi non vuole scoprire le carte sul Jobs Act. Cerca di comprendere come si stanno muovendo i gruppi in Parlamento. Se Palazzo Chigi fa un’apertura a qualche modifica, il testo viene sommerso dagli emendamenti dei ribelli Pd e delle opposizioni, Cinque stelle in testa? Con le correzioni la minoranza Pd vota la fiducia? O tanto vale confermare la legge votata al Senato, perdere qualche pezzo e avere la certezza del risultato? Sono le domande alle quali Renzi ha scelto di non rispondere o per le quali non ha ancora una risposta. Il premier preferisce l’accelerazione per incassare subito il Jobs Act. Ma molte sirene, non solo quelle “nemiche”, gli suggeriscono un’altra strada. Il capogruppo del Pd alla Camera Roberto Speranza lo ha messo in guardia: «Non credo che i ribelli non ti voteranno la fiducia. Ma credo che in tanti potrebbero uscire dall’aula. E saranno più di 20. Forse 30, forse di più. Non sarebbe indolore per il Pd». C’è una base che permetterebbe di assorbire la frattura interna. È l’ordine del giorno della direzione del Pd, votata da larga maggioranza, con l’astensione dello stesso Speranza e alcuni voti contrari. «Se Renzi recepisce quel testo anche io che ho votato no in direzione, in Parlamento voto la riforma», dice Francesco Boccia. «È due mesi che gli diciamo di tenere insieme il Partito democratico su questa materia — insiste Pippo Civati —. Conviene anche a lui». Ma Renzi non fa mai quello che gli conviene se a suggerirglielo sono i suoi oppositori. Stavolta il caso è un po’ diverso. Il lavoro di tessitura svolto da Giuliano Poletti è già a un buon punto, esiste una trattativa avviata e alcuni dissidenti lavorano a un’intesa. A cominciare da Cesare Damiano e Guglielmo Epifani. Ma Renzi non si fida. Il punto per lui è avere uno strumento operativo entro dicembre. L’obiettivo è mettere in circolo le risorse necessarie alla decontribuzione dei contratti a tempo indeterminato. Il governo ha assoluto bisogno di risultati statistici già nei primi mesi del 2015. Per smentire le previsioni di Bankitalia e Istat e mandare un segnale all’opinione pubblico. «Il resto per me è tattica », ripete spesso il premier nei suoi colloqui privati. Oggi riprende il dialogo. Con il retropensiero, espresso con chiarezza da Boccia che Renzi punti alle elezioni in primavera. E le dichiarazione sulla legge elettorale fatte all’assemblea di ieri sera hanno convinto anche qualcun altro. Per questo il premier ha precisato: «Si 22 vota nel 2018 ma non possiamo attendere il 2017 per l’I- talicum». Dunque, in un gioco di specchi e di sospetti ricomincia la mediazione sul Jobs Act. E se i mediatori hanno ancora spazio per provare un accordo, i più scettici sono rimasti delusi per la vaghezza del discorso renziano. Fassina ad esempio resta sulle barricate, anche per quello che riguarda le ipotesi di correzioni: «Non basta inserire i disciplinari. Per me, così le modifiche sono inadeguate. Non è l’articolo 18 a frenare gli investimenti. Non è cancellandolo che si creeranno altri posti di lavoro». Ieri è stato un giorno senza confronti. Di fronte all’attesa per le parole di Renzi, si sono tirati indietro il presidente della commissione Lavoro Cesare Damiano, il responsabile economico del Pd Filippo Taddei, il ministro Giuliano Poletti. È chiaro che a Palazzo Chigi si aspetta di capire di quante truppe dispone il dissenso. La minoranza sembra muoversi in ordine sparso. Civati e i bersaniani e Cuperlo più aggueriti. Area riformista che fa capo a Speranza disponibile al compromesso. Una parte, in queste ore, ragiona persino sul pericolo delle correzioni al Jobs Act. «Rischiamo di rendere più rigido l’articolo 18 se mettiamo le fattispecie dei licenziamenti disciplinari nella legge delega. Meglio affidarsi al ministero del Lavoro e ai decreti delegati», dice un deputato di questa minoranza della minoranza. Del 5/11/2014, pag. 2 POLITICA La tagliola del jobs act Renzi. In diretta a Ballarò nonostante lo sciopero degli operatori. Saltano tutte le altre trasmissioni Rai, ma per trasmettere il premier dietro le telecamere arrivano i funzionari e persino il vicedirettore di Rai2 Andrea Fabozzi Non c’è spazio per mediazioni sul jobs act. «Dal primo gennaio deve entrare in vigore, è la dead line», dice Renzi ai parlamentari del suo partito. Un avvertimento a chi è contrario: non c’è tempo per navette con il senato, il testo è quello anche perché bisognerà considerare il tempo necessario per far vistare alle commissioni i decreti delegati preparati dal governo. Ieri sera il presidente del Consiglio è comparso in televisione da Ballarò. In onda con un’intervista registrata mentre fisicamente era già alla riunione dei gruppi parlamentari alla camera (esordio con una promessa: «Giovedì chiudiamo con l’elezione dei giudici costituzionali, ma ora un applauso a Violante»). In onda a tutti i costi, passando sopra lo sciopero degli operatori di ripresa un po’ come l’altro giorno era sfilato in una fabbrica di Brescia dalla quale erano stati allontanati gli operai. Per mandare in onda (quasi) regolarmente il talk show di prima serata su Rai3, infatti, viale Mazzini ha dovuto fare i salti mortali. Comandando alle telecamere tre funzionari dell’azienda e persino un dirigente, il vicedirettore di Rai2 Massimo Lavatore — effettivamente vicedirettore per la «pianificazione economica e mezzi» che ha in carriera trascorsi da operatore, e dunque sa dove mettere le mani. La denuncia è del sindacato autonomo delle telecomunicazioni Snater, che ha deciso l’astensione per protesta contro la pratica di «utilizzare per coprire gli eventi uno, al massimo due dipendenti, per lo più tecnici invece di una squadra di operatori». Davide Di Pietro della segretaria nazionale Snater, e operatore di Ballarò, a fine giornata spiega che lo sciopero degli operatori di Roma è riuscito perfettamente, costringendo la Rai a far saltare tutte le trasmissioni in diretta (Agorà, La prova del cuoco) e a riprendere i Tg con solo 23 le telecamere fisse. Porta a porta e Uno mattina hanno mandato vecchie puntate in replica. Ma Ballarò, già in difficoltà con gli ascolti, non poteva rinunciare alla puntata di ieri. E per non far saltare Renzi negli studi di Rai3 ecco arrivare un dirigente in funzioni da operatore, in prestito dall’altro canale. Probabilmente a causa dei troppi palcoscenici, si evidenzia qualche problema di coordinamento tra le dichiarazioni, visto che mentre Renzi annunciava ai parlamentari Pd che «la legge di stabilità è rivoluzionaria perché riduce la pressione fiscale», il ministro dell’economia Padoan spiegava in audizione notturna alla camera che la pressione fiscale con la manovra salirà dello 0,3% entro il 2017». Intanto il presidente del Consiglio ha deciso di cancellare la visita a Napoli, che lui stesso aveva annunciato per sabato prossimo. Le ragioni sono facilmente comprensibili, visto che in città i movimenti gli stavano preparando da tempo una pessima accoglienza, con corteo da Fuorigrotta a Bagnoli. La giornata si annunciava assai più tesa di quella già non tranquilla appena trascorsa a Brescia. Oltre alle contestazioni di piazza, il presidente del Consiglio avrebbe trovato l’ostilità dichiarata della giunta de Magistris, rimasta scottata da una fiducia iniziale ripagata con il commissariamento dell’amministrazione comunale per le opere di risanamento di Bagnoli. La rinuncia è un evidente fuga, così mentre centri sociali e movimenti di lotta napoletani confermano la protesta del 7 novembre, l’ufficio stampa di palazzo Chigi prova a spiegare che «Renzi non è preoccupato da eventuali contestazioni» e «visiterà alcuni comuni del sud entro la fine del mese». Ieri ha parlato anche Giorgio Napolitano, e alcune sue parole pronunciate in occasione delle celebrazioni per la festa delle Forze Armate sono servite a confermare e rilanciare l’allarmismo esibito a Brescia da Renzi. Se il presidente del Consiglio aveva detto che c’è «un disegno per dividere», il presidente della Repubblica è passato rapidamente dall’allarme per gli attentati dell’Isis ai rischi interni. «Vi è il rischio — ha detto Napolitano — che sotto la spinta esterna dell’estremismo e quella interna dell’antagonismo, e sull’onda di contrapposizioni ideologiche pure così datate e insostenibili, prendano corpo nelle nostre società rotture e violenze di intensità forse mai vista prima». del 05/11/14, pag. 2 VENTISEI DIKTAT IN OTTO MESI IL GOVERNO HA LA “FIDUCITE” SONO POCHISSIMI I PROVVEDIMENTI SUI QUALI IL GOVERNO NON PONE IL DILEMMA AL PARLAMENTO: O VOTATE SÌ O CE NE ANDIAMO (TUTTI) A CASA di Luca De Carolis E fanno 26. Una fiducia ogni dieci giorni, e passa la paura del flop (causa gufi). Ripudia l’etichetta di “uomo solo al comando”, rivendica di essere “uno che fa sul serio” nel sacro nome del cambiamento. Ma sui voti di fiducia Matteo Renzi è ormai il premier del (quasi) record. Avviato a migliorarsi, con buona pace della centralità del Parlamento, del confronto democratico e di altri principi molto costituzionali ma poco rottamatori. Ieri in una Camera distratta, quasi rassegnata al suo ruolo di mero notaio, il governo ha incassato la 26ª fiducia in otto mesi sul decreto legge per la riforma del processo civile (già passato in Senato). La 28ª, se si tiene conto anche delle prime due che hanno dato il via libera al governo Renzi. I sì sono stata una valanga, 353, a fronte di 192 no. E il premier ha 24 migliorato il suo primato. Come ricordava il sito Openpolis, era dalla XIII legislatura (il quinquennio di centrosinistra 1996-2001) che un esecutivo non ricorreva così di frequente all’ultima risorsa, quella per evitare tonfi in aula. Quasi l’80 per cento delle leggi approvate dal governo del rottamatore hanno visto la luce così. Monti si era fermato al 45 per cento. Più sotto i vari governi Berlusconi. Perché Renzi tira più dritto di tutti. Lo conferma la media di decreti legge del governo, 2,5 al mese. E tanti saluti al 2,2 di Letta, all’1,5 di Monti e allo 0,7 del Caimano. Un po’ troppo anche per la presidente della Camera Laura Boldrini, che tre settimane fa aveva mandato al premier una letterina di protesta: “L’uso eccessivo dei decreti rischia di alterare il fisiologico funzionamento di Montecitorio”. LA RISPOSTA è stata classicamente renziana: “Il decreto legge rappresenta talvolta l’unico strumento di cui il governo dispone per intervenire su temi caratterizzati dai requisiti della necessità e dell’urgenza”. Traduzione: andiamo di fretta e non si rallenta. Ieri pomeriggio, a Montecitorio, è stata la perfetta chiusura del cerchio. Voto di fiducia su legge di conversione di un decreto (ma il sì definitivo al testo arriverà domani). Nel dettaglio, in 353 hanno detto sì al primo pacchetto di norme per la riforma della giustizia civile. L’obiettivo principale è snellire l’enorme arretrato (5 milioni di cause pendenti), permettendo alle parti di ricorrere agli arbitrati sia in primo grado sia in appello. Per le cause di separazione e di divorzio si potrà utilizzare la negoziazione assistita dagli avvocati. In determinati casi si potrà procedere davanti al sindaco. Se ne parla un po’ in aula. Semivuota, fino alle tre chiame per la votazione. Quando il forzista Chiarelli prende la parola intorno alle 15, nell’emi - ciclo saranno in trenta. In Transatlantico si aggirano deputati avvolti da noia. “Si va avanti con la fiducia” dice un anonimo bersaniano. Niente animosità nel tono, suo e di altri “rossi”. Tira aria di quieta rassegnazione. In aula la voce la alza Alfonso Bonafede (Cinque Stelle): “Abbiamo un Parlamento imbavagliato, i deputati sono come burattini, devono solo sfilare per dire sì”. Prende un foglio di carta, lo stropiccia: “Così Renzi tratta la Costituzione”. Accusa: “In Commissione Giustizia abbiamo avuto un giorno per studiare il provvedimento e presentare i nostri emendamenti”. Protesta anche il leghista Davide Caparini: “Quando il democratico Zanda vota come il forzista Verdini per 551 volte su 552, ma perché mettere la fiducia?”. Daniele Farina (Sel): “Si incardina il testo lunedì, si chiudono gli elementi il martedì e si applica una doppia tagliola il mercoledì, e ora eccoci qui”. A RISPONDERE provvede l’iper-renziano David Ermini: “In Commissione tutti hanno avuto tempo per parlare, erano state assegnate 5 ore per poter presentare emendamenti: probabilmente qualcuno, abituato ai sermoni di ore e ore del loro sacerdote, non era in grado di poter spiccicare parola su qualche emendamento”. A metà pomeriggio il testo passa: domani diventerà legge. I deputati sfilano via. In corridoio appare Pippo Civati: “Il voto di fiducia ormai è un atto quotidiano, religioso. Ci devi credere”. Ma i fedeli sembrano svogliati. del 05/11/14, pag. 6 Italicum, adesso Berlusconi frena Non vuole lasciare la pistola carica per le elezioni al premier. Boschi: “Chiediamo a Fi un’accelerazione” Amedeo La Mattina Siamo alla guerra di posizione: Renzi accelera, Berlusconi frena. La riforma della legge elettorale sta creando tensione tra i due protagonisti del Patto del Nazareno. Il premier vorrebbe un incontro a breve con il Cavaliere, anche in settimana, ma il leader di Fi prende 25 tempo. Dovrebbe finalmente dire sì o no al premio di maggioranza alla lista che vince e non alla coalizione. Non solo: Berlusconi dovrebbe dire se è disponibile a eliminare la norma dell’Italicum che prevede l’introduzione di questo premio di maggioranza solo per la Camera. Renzi, senza attendere la riforma costituzionale, vorrebbe estendere il premio anche al Senato. Così la sua pistola sarebbe pronta e caricata per le elezioni anticipate. Non c’è però un solo esponente di Fi favorevole a questa svolta che darebbe la vittoria certa al Pd, decretando la morta del centrodestra. Verdini invece vorrebbe venire incontro al premier, con il quale i rapporti si sono raffreddati dopo il rinvio a giudizio di Denis per la vicenda della cosiddetta P3. Si sarebbero raffreddati solo dal punto di vista formale per evitare di mettere in imbarazzo Palazzo Chigi. Verdini, quando questo incontro si farà, potrebbe non essere presente. Il paradosso è che lo stesso Berlusconi è disposto a cedere a Renzi. Allora è chiaro che gli uomini e le donne che gli stanno intorno gli consigliano di rinviare il più possibile il vertice. Il Cavaliere sembra dare loro retta con l’obiettivo di posticipare il più possibile la nuova legge elettorale, evitando che i premier abbia in mano la pistola carica delle elezioni anticipate nel 2015. Capitalizzare il consenso di cui gode in Italia potrebbe essere l’obiettivo del premier. Ne sono convinti in molti, lo teme pure Berlusconi che non è pronto alle urne: vuole chiudere tutte le finestre elettorali almeno del 2015, lanciando la palla fino febbraio. Cosa che Renzi cerca di evitare, anche per scongiurare che la riforma elettorale si intrecci con l’elezione del nuovo capo dello Stato. Renzi minaccia di cambiare interlocutore, di rivolgersi ai 5Stelle che gradirebbero il Mattarellum (Fi, come terzo partito, non vincerebbero in nessun collegio). Il ministro Boschi chiede a Fi «un’accelerazione» e poi precisa che l’interlocutore del governo non è Verdini, ma Fi. Un modo per dire che è meglio evitare la presenza di Denis al prossimo incontro. Renato Brunetta si chiede perché Renzi ha tenuto ferma la legge elettorale per otto mesi mentre ora ha fretta. «Renzi vuole il premio di maggioranza alla lista vincente e il bipartitismo? Bene, allora accetti il presidenzialismo. Noi siamo pronti, lui no». del 05/11/14, pag. 11 “Un nuovo centrodestra senza Berlusconi” Il segretario della Lega Matteo Salvini ufficializza il lancio di un nuovo soggetto politico “nero-verde” Forza Italia lo attacca: “Senza di noi non esisti”. Altolà anche di Umberto Bossi: “Il leader è e resterà il Cavaliere” CARMELO LOPAPA ROMA . Più che un’Opa ostile sul trono del centrodestra, è l’annuncio del “parricidio”. La prima dichiarazione di indipendenza da Silvio Berlusconi da parte del leader leghista Matteo Salvini. E come tale è stata letta ad Arcore, scuotendo non poco il padrone di casa. «Questo è un colpo basso, da Matteo non me l’aspettavo, dove pensa di arrivare contro di me? Lui non potrà mai essere il baricentro dei moderati» si è sfogato l’ex Cavaliere. Dando il “la” a una sfilza di attacchi a Salvini da tutto il fronte forzista. Ma cosa ha scatenato la tempesta a destra? Il leader leghista si è molto galvanizzato alla lettura dei sondaggi delle ultime settimane. Il 31 ottobre “Ixé” per Agorà attestava Salvini al secondo posto (20 per cento) per gradimento, dopo Renzi, e ben prima di Grillo e dello stesso Berlusconi. Da qui la decisione di sferrare l’attacco mai osato fino a ieri e di lanciare ufficialmente la campagna “sudista” di conquista delle regioni sotto Roma con la 26 pur nebulosa “Lega dei popoli”. Un’intervista a “Libero” («Mi prendo il centrodestra»), poi una conferenza stampa a Montecitorio al fianco di Maroni e Zaia col pretesto della legge di stabilità in cui definisce la road map. Il capo del Carroccio si prepara al «lancio a fine mese di un nuovo soggetto politico: un progetto culturale, non un cartello elettorale, perché non mi interessa un centrodestra che sia una sommatoria di Lega, Forza Italia e Ncd». Che farne di Berlusconi? «Lui pensa a una nuova edizione di Forza Italia ma il mondo è cambiato». È il punto di svolta, che funziona da detonatore nella trincea forzista. I dirigenti che hanno sentito l’ex premier non hanno potuto fare a meno di ricordargli le «troppe concessioni» a Salvini in questi mesi. Le frequenti comparsate sulle reti Mediaset, la copertina di Panorama di un paio di settimane fa (“L’altro Matteo”), perfino l’intervista a “Mattino5” in cui Berlusconi non escludeva una leadership di Salvini: «Vedremo, prematuro...». Ora il capo forzista sembra si sia reso conto, «sì, gli ho concesso tanto e questo è stato il risultato, ma adesso la storia cambia» si è lasciato andare ieri. Raccontano si stia perfino ricredendo sulla necessità di riaprire il dialogo troppo rapidamente chiuso con l’Ncd di Alfano per le Regionali. Ora, l’alleanza con la Lega proprio per le regionali (soprattutto in Veneto in primavera) non è in discussione, ma tutto il resto sì. Dell’operazione lanciata dall’arrembante leader leghista non appare del tutto convinto Umberto Bossi. «Berlusconi è e sarà il leader del centrodestra che verrà — taglia corto il Senatur a Montecitorio — mentre Salvini può fare il leader della Lega dei popoli, piace alla gente... ». Il «nuovo soggetto politico» al quale Salvini pensa è un’aggregazione “nero-verde” nella quale conta di coinvolgere, soprattutto nel Mezzogiorno, tanto Fratelli d’Italia quanto Casa Pound. In nome del No Euro e della campagna anti immigrati che già li aveva visti sfilare nelle stesse piazze il 18 ottobre. Ma proprio gli ex An di Fdi in queste ore osservano con parecchio scetticismo l’accelerazione di “Matteo”. «Il centrodestra dovrebbe evitare di rendere la sua scalata alla leadership del centrodestra così semplice » si inalbera Ignazio La Russa prendendosela, senza citarlo, proprio con Berlusconi. Intorno al loro capo i forzisti hanno eretto in poche ore un cordone sanitario. Già a mezzogiorno l’ex Cavaliere detta alla portavoce Bergamini la replica stizzita («Non esiste un centrodestra senza Berlusconi»), poi è “il Mattinale” di Brunetta a scrivere che «Salvini non può fare l’asso pigliatutto», a seguire un coro, da Romani («Non si prescinde da Berlusconi ») alla Gelmini («La leadership si conquista») a tanti altri. L’appello finale ai suoi ex compagni di partito è di Angelino Alfano, ormai acerrimo avversario di Salvini: «Mollatelo al suo destino, quello di reggimoccolo di Marine Le Pen». Del 5/11/2014, pag. 3 Enti locali a rischio default, in bilico stipendi e servizi Austerity. Fassino (Anci): "Ma ci sono passi avanti con il governo" Mario Pierro <<Il taglio di 1 miliardo per città e province rischia di far partire in default questi nuovi enti». Lo ha detto ieri in un’audizione alla Camera sulla legge di Stabilità il presidente dell’Anci, Piero Fassino. «C’è la disponibilità da parte del governo che il fondo crediti di difficile esigibilità non sia più di 1 miliardo e mezzo, ma di 500 milioni in più, con conseguente abbattimento del saldo di patto di stabilità interno», sostiene Fassino. «Questi passi significativi che noi apprezziamo non esauriscono però tutte le questioni da noi poste».«Servono «ele27 menti correttivi» che scongiurino il crac finanziario — continua Fassino –noi non vogliamo né ridurre i servizi né aumentare il prelievo fiscale». Il governatore del Piemonte Sergio Chiamparino ha sottolineato che senza un percorso »condiviso che consenta di gestire in modo sostenibile i 4 miliardi di tagli» c’è il rischio di un aumento delle imposte locali. «L’unica possibilità per evitare il blocco dell’erogazione dei servizi e l’esubero del personale — sostiene l’Unione delle Province in un documento — è spostare, da subito in Legge di stabilità, quelle funzioni che la Legge Delrio toglie dalla gestione delle Province: formazione professionale, trasporto pubblico locale, centri per l’impiego, cultura, turismo, sociale, agricoltura. Solo concentrando sulle funzioni fondamentali le risorse e il personale necessario a svolgerle, potremo continuare a garantire la manutenzione delle strade, la sicurezza nelle scuole, gli interventi di contrasto al dissesto idrogeologico, l’assistenza ai comuni. Altra soluzione, per evitare il dissesto se non si vuole ridurre il taglio, non c’è». Durissimo il giudizio dei sindacati sulla manovra. La Cgil prevede un «disastro sociale», la Uil parla di una «crisi irreversibile», la Cisl di «dramma evidente per il Paese». Per il segretario confederale Cgil Danilo Barbi «il governo sta programmando un disastro sociale». La legge di stabilità è «inadeguata e insufficiente in termini di investimenti e politiche di sostegno alla crescita». C’è «l’assenza di qualsiasi disegno e coordinamento tra politiche di sviluppo e politiche per il lavoro». Per Barbi l’esecutivo «scommette su una forte riduzione delle tasse alle imprese» e «sulla svalutazione del lavoro». Bisognerebbe, invece, puntare su «un piano straordinario per l’occupazione giovanile e femminile, da finanziare attraverso un’imposta sulle grandi ricchezze finanziarie che con un gettito di circa 10 miliardi di euro l’anno potrebbe garantire oltre 740mila nuovi posti di lavoro in tre anni; una nuova politica industriale per l’innovazione e una forte riduzione del carico fiscale sui redditi da lavoro e da pensione». Del 5/11/2014, pag. 14 Cucchi, le domande senza risposte Stefano Anastasia Stefano Cucchi è morto a causa di azioni e omissioni del personale addetto alla sua cura e custodia, ma non ci sono prove che le persone responsabili di tali azioni e omissioni fossero quelle portate in giudizio. Questo, in sostanza, quanto deciso dalla Corte di appello di Roma venerdì scorso. Ancora una volta, una morte tutt’altro che naturale di una persona trattenuta coattivamente sotto la responsabilità dello Stato non ha però responsabilità penali acclarate (salvo che la Cassazione non disponga il rinnovamento del giudizio sulla base di un qualche errore di interpretazione delle norme da parte della Corte di appello). È questo innanzitutto il problema che questa sentenza ci pone: la sostanziale impunità delle violenze (e dell’incuria) su persone la cui vita è affidata alle istituzioni pubbliche. Se non vogliamo che i principi di garanzia dell’imputato nel processo penale, richiamati dal Presidente della Corte di appello di Roma, non si risolvano in una foglia di fico per coprire le responsabilità pubbliche e istituzionali, il problema dell’impunità delle morti accadute sotto la custodia dello Stato va affrontato in ogni sede e a ogni livello. Non è in discussione la libertà di associazione sindacale e meno che mai la libertà di opinione dei dirigenti sindacali nella Polizia di Stato, ma è mai possibile che i responsabili del Sap e del Coisp continuino a dire le cose che dicono, scaricando la responsabilità di quanto accaduto sulla famiglia nella quale – fino al giorno del suo arresto – Stefano Cucchi godeva di ottima salute? Le loro farneticanti dichiarazioni ledono solo la dignità e l’immagine delle loro persone e dei sindacati di cui sono portavoce (hanno, cioè, solo 28 una rilevanza privata) o ledono l’immagine e la dignità anche del corpo di polizia cui appartengono? Non sono in discussione i principi della formazione della prova in dibattimento e della sussistenza della colpevolezza solo quando sia dimostrata oltre ogni ragionevole dubbio, ma siamo sicuri che nell’assoluzione dell’altro ieri non vi sia una implicita condanna del funzionamento della giustizia italiana quando interviene su queste cose? Se non sono quasi mai quelli rinviati a giudizio, non c’è un difetto di indagine e di autonomia della magistratura inquirente (e forse anche di quella giudicante) dalle forze di polizia e dagli apparati istituzionali serventi la funzione giudiziaria? Non è in discussione il principio di personalità nella responsabilità penale, ma siamo sicuri che l’Amministrazione penitenziaria, la Polizia di Stato, l’Arma dei carabinieri, e finanche le articolazioni interessate del Servizio sanitario nazionale non abbiano nulla da dire o da fare in termini di responsabilità disciplinare e di formazione deontologica del personale addetto alle «relazioni con il pubblico», quando il pubblico gli muore tra le mani per proprie azioni e/o omissioni? Tutte queste domande rimaste aperte dietro quella, davvero capitale, di Ilaria e della famiglia Cucchi («ma allora chi è stato?») non ammettono auto-assoluzioni nascoste dietro sacri principi garantisti, scuse di circostanza e qualche colpo sul petto. A queste domande devono rispondere le autorità politiche, amministrative e giudiziarie competenti, dal Ministro dell’Interno a quello della Giustizia, dal vertice dell’Amministrazione penitenziaria al Capo della polizia, dal Comando generale dell’arma dei carabinieri ai responsabili dei servizi sanitari, fino al Consiglio superiore della magistratura. Fino a ora di risposte se ne sono sentite poche e maldestre. Ne aspettiamo di più chiare e convincenti. del 05/11/14, pag. 9 Imu alla Chiesa, la Ue riapre il caso Ammesso dalla Corte di giustizia un ricorso che punta a recuperare le somme non pagate dagli enti ecclesiastici nel periodo di “fiscalità agevolata” dichiarato illegittimo nel 2012. Il valore del contenzioso è stimato in 4 miliardi ALBERTO D’ARGENIO ROMA . L’Unione europea riapre il caso sugli sconti fiscali alla Chiesa. Lo fa con una decisione, a suo modo clamorosa, della Corte di giustizia del Lussemburgo: i giudici europei hanno deciso di ammettere nel merito un ricorso che potrebbe costare agli enti ecclesiastici che operano in Italia fino a quattro miliardi di euro, l’ammontare di Ici e Imu non pagato dal 2008. E in discussione potrebbero entrare anche le nuove regole approvate dal governo Monti nel 2012 che, secondo i ricorrenti, hanno confermato gli sconti fiscali cambiando solo apparentemente le regole già condannate dalla Commissione europea come aiuti di Stato illegali. Il caso è stato aperto nel 2006 da una denuncia dell’ex deputato Maurizio Turco e del fiscalista Carlo Pontesilli, esponenti del Partito Radicale, contro una legge varata dal governo Berlusconi in piena campagna elettorale. Dopo una serie di archiviazioni (secondo alcuni osservatori in odore di insabbiamento) da parte di Bruxelles e numerose contro denunce, nel 2012 hanno ottenuto la condanna del regime fiscale di favore concesso ad alberghi, scuole e cliniche gestite dagli enti ecclesiastici. Si trattava dello sconto del 100% sull’Ici, poi diventata Imu, e del 50% sulle tasse sul reddito, ovvero l’Ires 29 sulle attività nei settori dell’istruzione e della sanità privata. Un sistema di favore che per l’Antitrust europeo distorceva il mercato, favorendo i beneficiari rispetto ai concorrenti che invece le tasse le pagavano tutte. Aiuto di Stato discriminatorio. Ma allora Bruxelles non è andata fino in fondo e rinnegando una giurisprudenza ultra trentennale non ha ingiunto al governo di recuperare i balzelli non pagati negli ultimi cinque anni. Una montagna di soldi che l’Associazione nazionale dei comuni appunto stima intorno ai quattro miliardi. Ora - con una decisione del 29 ottobre dell’Ottava sezione del Tribunale che ha applicato una nuova norma del Trattato di Lisbona - la Corte del Lussemburgo ha dato torto alla Commissione europea che chiedeva l’irricevibilità della causa e rinvia la questione a un giudizio sul merito. Bruxelles avrà tempo fino al 10 dicembre per presentare una memoria difensiva in grado di giustificare la decisione di non chiedere i rimborsi per «generale e assoluta» impossibilità di procedere al recupero. Poi saranno i ricorrenti a presentare una memoria e infine si arriverà a sentenza. Nel caso immediatamente esecutiva, appellabile ma i cui effetti non potranno essere sospesi se non da un ribaltamento definitivo del giudizio. Ma la partita non si chiude qui. I ricorrenti sono convinti che la decisione della Corte possa aprire a ulteriori sviluppi. Nel 2012 il governo Monti dopo un lungo negoziato con la Commissione Barroso (allora si sussurrava di insistenti telefonate da entrambe le sponde del Tevere in direzione Bruxelles) non solo era riuscito a limitare i danni e ad evitare il recupero dei soldi trattenuti dagli enti ecclesiastici, ma aveva anche ottenuto la chiusura del dossier sul futuro varando nuove regole che avrebbero dovuto rendere più rigoroso l’accesso agli sgravi fiscali. Insomma, norme scritte per impedire che attività no-profit beneficiarie di sconti fossero in concorrenza sul mercato svolgendo attività commerciali. Ma i ricorrenti non la pensano così, e sono pronti ad allegare alla causa pendente di fronte ai giudici del Lussemburgo la documentazione per dimostrare che di fatto rispetto alla condanna del 2012 nulla è cambiato, impugnando anche la circolare del Ministero dell’Economia della scorsa primavera che ha definito nel dettaglio le nuove norme, secondo i denuncianti interpretando in modo troppo estensivo la legge di Monti e tornando a favorire la Chiesa, anche permettendo a qualsiasi ente formalmente no-profit di operare di fatto sul mercato senza pagare le tasse. La stessa denuncia sarà poi inoltrata ancora una volta alla Commissione europea ora guidata dal lussemburghese Juncker, che come commissario alla Concorrenza ha scelto la liberale danese Margrethe Vestager. del 05/11/14, pag. 21 Protezione civile condannata a pagare per il mancato G8 alla Maddalena Senza soldi per combattere le emergenze, dovrà versare 39 milioni alla società Mita In cassa, la Protezione civile ha tre milioni. Anzi, li aveva prima delle alluvioni di ottobre. Mentre scriviamo di sicuro non li ha più. Il suo capo Franco Gabrielli si sgola ripetendo che dal 2011 le risorse sono state ridotte al lumicino, mentre avrebbe bisogno almeno di 300 milioni l’anno. Tutto inutile. Dieci giorni fa, in compenso, un collegio arbitrale presieduto da Franco Gaetano Scoca ha deciso che la Protezione civile deve pagare 39 milioni alla società Mita resort di Andrea Donà dalle Rose ed Emma Marcegaglia, ex presidente della Confindustria: nominata nella scorsa primavera presidente dell’Eni, ironia della sorte, dal governo con cui era in causa. 30 Ma perché mai Gabrielli, che non ha un euro per combattere il fango, dovrebbe dare tutti quei soldi a una società che gestisce lussuose residenze posseduta per metà da un imprenditore che è anche manager pubblico? Semplice: sono i danni che Mita resort avrebbe subito in termini di mancati guadagni a causa della bonifica mai completata dello specchio di mare antistante all’ex Arsenale della Maddalena. E il capo della Protezione civile si dovrebbe persino leccare i baffi, visto che la richiesta iniziale era addirittura di 210 milioni. L’avvocatura dello Stato ha ovviamente deciso di impugnare il lodo. Ma comunque vada a finire, questa storia è un altro pezzetto dell’eredità ammorbante di quel bluff del G8 in Sardegna capace di regalare alla Maddalena un cimitero di ferro e cemento disabitato da cinque anni che il mare sta divorando. Ricordiamo com’è andata. Per organizzarlo su quell’isola meravigliosa non si badò a spese. In un baleno il conto arrivò a 400 milioni, con appalti maggiorati del 60 per cento a causa dell’urgenza e di vari disagi, assegnati alle ditte della Cricca specializzate nell’accaparrarsi i lavori dei Grandi eventi gestiti dalla Protezione civile dell’allora onnipotente Guido Bertolaso. Nel vecchio Arsenale venne realizzata una struttura alberghiera di lusso che avrebbe dovuto ospitare per il G8 i potenti della Terra. Sarebbe stata una propaganda formidabile per il suo impiego successivo come resort e yacht club, da assegnare in concessione trentennale ai privati. Il «bando sartoriale», come l’ha definito su Repubblica Carlo Bonini, fu aggiudicato all’unico partecipante: Mita resort, appunto, presieduta allora da Emma Marcegaglia. Che oltre a essere presidente della Confindustria era anche in affari con una società statale, Italia turismo del gruppo Sviluppo Italia, nonché con i «patrioti» (definizione di Berlusconi) che avrebbero dovuto salvare l’Alitalia. Quattrocento milioni letteralmente buttati dalla finestra. La decisione del premier Silvio Berlusconi di spostare il G8 dalla Maddalena all’Aquila sconvolse lo scenario. La concessione venne rinegoziata e allungata di altri dieci anni, fermo restando però l’impegno a realizzare le bonifiche dell’area marina destinata a ospitare lo yacht club. Dove c’era di tutto, dal mercurio agli idrocarburi pesanti. Peccato che quelle bonifiche non siano mai state completate, e che addirittura l’operazione abbia provocato, secondo la magistratura di Tempio Pausania che ha indagato 17 persone, danni ambientali ancora più gravi. Vero è che questo non ha impedito l’organizzazione delle regate della Luis Vuitton World series, round della Coppa America di vela. Proprio lì in quell’acqua avvelenata e sempre con i soldi della vecchia Protezione civile. Ma nemmeno ha impedito che sulla faccenda si abbattesse un diluvio di carte bollate. Con lo Stato che cercava di tirare in ballo la Regione Sardegna e la Regione che faceva di tutto per divincolarsi. E intanto che litigavano, l’hanno avuta vinta i privati. I quali vengono pure liberati dalla concessione, col risultato che lo spettrale resort di lusso dovrà essere preso in carico dal suo proprietario, la Regione Sardegna. Buona fortuna al governatore Francesco Pigliaru. 31 LEGALITA’DEMOCRATICA del 05/11/14, pag. 10 Nota dell’Arma smentisce Mancino su stragi e 41-bis Giuseppe Lo Bianco La sua posizione non è mai cambiata e l’ha confermata nell’ultima dichiarazione di lunedi scorso: “Io non ho saputo mai nulla di una trattativa fra mafia e Stato. Così come non sanno nulla Napolitano, Ciampi e Scalfaro. E sono sicuro che anche Spadolini avrebbe detto la stessa cosa”, ha ribadito il senatore Mancino commentando la deposizione di Napolitano. Questa volta, però, a smentirlo, è arrivata una nota del comando generale dell’Arma dei carabinieri dell’8 febbraio 1994, a pochi giorni dalla cattura a Milano dei fratelli Graviano, che segna la fine delle ostilità stragiste di Cosa Nostra aprendo la strada al primo governo Berlusconi del marzo successivo. Depositata agli atti del processo della Trattativa Stato mafia e inviata al Gabinetto del ministro dell’Interno dell’epoca (Mancino, ndr), al Sisde, al Sismi, alla Guardia di Finanza e al Cesis la nota conferma per la prima volta come i carabinieri ai più alti livelli (dopo la Dia di De Gennaro e lo Sco di Manganelli) sapevano perfettamente quello che accadeva in quell’estate infuocata del ‘93 e, cioè una trattativa tra Stato e mafia mirata al carcere duro. E, sia pure in forma ipotetica, ma chiara, lo rassegnavano al ministro dell’Interno Nicola Mancino. “In merito agli attentati di Roma, Milano e Firenze –scrive il comando generale –era stato ipotizzato che le organizzazioni criminali avessero incluso nella loro politica stragista anche l’obbiettivo di avviare una negoziazione con lo Stato diretta ad ottenere l'abbattimento delle misure detentive applicate in forza dell’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario e che, comunque, il rinnovo dei decreti del 20 luglio ‘93 potesse essere stata l’occasio - ne scatenante degli episodi criminosi”. E a distanza di pochi giorni dalle ultime proroghe dei provvedimenti di carcere duro, mettevano in guardia il ministro dal rischio di nuovi attentati. “Se ciò risponde al vero – conclude il paragrafo criminalità organizzata della nota – è ragionevole ipotizzare che in conseguenza della proroga dei provvedimenti scaduti si possano verificare ulteriori gravi attentati”. 32 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE Del 5/11/2014, pag. 6 Profughi e rom, l’Europa condanna l’Italia Diritti. Mancanza di certezze sul l’alloggio e proseguimento della politica dei campi L’Italia finisce nel mirino dell’Europa per quanto riguarda il modo in cui nel nostro Paese vengono trattati richiedenti asilo e rom, tanto da rischiare l’apertura di una procedura di infrazione da parte della Commissione europea per l’esistenza di campi-ghetto in cui vengono ospitate le famiglie rom. Due i casi che hanno suscitato l’attenzione delle istituzioni europee. Il primo riguarda una famiglia di afghani che rischia di essere espulsa dalla Svizzera verso l’Italia e che per evitare questa possibilità ha presentato ricorso alla Corte di Strasburgo per i diritti umani. E la corte ieri, condannando la Svizzera per la procedura di espatrio, ha stabilito che l’Italia è un Paese che non offre sufficienti garanzie ai richiedenti asilo per quanto riguarda l’alloggio. La famiglia, padre, madre e sei figli nati tra il 1999 e il 2012, era arrivata sulle coste calabresi nel 2011 dall’Iran e quindi, in base al regolamento di Dublino, il Paese competente per decidere della loro richiesta d’asilo era l’Italia. Ma la famiglia preferì recarsi prima in Austria e poi in Svizzera per vedersi riconosciuto questo diritto, temendo che in Italia le condizioni di vita sarebbero state inadatte, soprattutto per i bambini. E la Corte europea dei diritti umani ieri gli ha dato ragione. I giudici hanno infatti stabilito, in una sentenza definitiva, che qualora il governo svizzero dovesse rinviare la famiglia in Italia senza prima aver ricevuto da questa dettagliate informazioni su dove e come la famiglia verrebbe alloggiata, si concretizzerebbe una violazione del loro diritto a non essere sottoposti a trattamenti inumani e degradanti. Secondo i giudici, «non è infondato ritenere che i richiedenti asilo rinviati adesso in Italia da altri Paesi europei, in base al regolamento di Dublino, corrano il rischio di restare senza un luogo dove abitare o che siano alloggiati in strutture insalubri e dove si verificano episodi di violenza». È la prima volta che la Corte di Strasburgo si pronuncia contro un invio in Italia di richiedenti asilo da un altro Paese europeo. Una decisione simile finora era stata presa solo nei confronti della Grecia. In base alle informazioni fornite dalla Corte ci sono circa 20 ricorsi pendenti simili a quello della famiglia afghana. Il secondo caso riguarda invece le condizioni dei campi in cui vengono ospitati i rom e ha interessato la Commissione europea che adesso minaccia di aprire una procedura di infrazione per via delle politiche abitative segregative che le autorità italiane continuano ad attuare nei confronti dei rom. A far esplodere il caso è stata una lettera inviata dalla Direzione generale giustizia della Commissione europea al governo italiano e resa pubblica dall’Associazione 21 Lugio. «Nella missiva la Commissione europea punta il dito sulla condizione abitativa dei rom nel nostro Paese richiedendo alle autorità italiane informazioni aggiuntive» e soffermandosi in particolare sul campo di situato in località La Barbuta a Roma. Si tratta, spiega la 21 Luglio, di «un sito molto remoto e non accessibile, e dotato di recinti e impianti di sorveglianza. Dispositivi di alloggio di questo tipo risultano limitare gravemente i diritti fondamentali degli interessati, isolandoli completamente dal mondo circostante e privandoli di adeguate possibilità di occupazione e istruzione. Malgrado il rischio di una procedura di infrazione paventato dall’Europa — prosegue l’associazione -, il Comune di Roma sembra voler continuare con una politica che rafforza il ‘sistema campi’ programmandone la progettazione e la costruzione di nuovi». 33 SOCIETA’ del 05/11/14, pag. 15 LO SCONCIO DEI DISABILI SENZA SCUOLA OGGI DAVANTI A MONTECITORIO LA CONSEGNA DEI DOSSIER: LE STORIE DEI RAGAZZI CUI È NEGATO IL DIRITTO ALL’ISTRUZIONE Cos’è cambiato da metà settembre, quando è partita la campagna di Tutti a scuola con il Fatto ? Poco o nulla. Anzi, qualcosa sì: nella legge di Stabilità è previsto un taglio di 100 milioni al Fondo per la non autosufficienza. Dopo l’estate delle docce gelate, il risultato è questo. La campagna era iniziata con il caso di Napoli: seicento ragazzi disabili lasciati a casa da scuola, perché la Provincia non ha fondi (la situazione è tuttora immutata). Oggi davanti a Montecitorio –dalle 11 alle 15 –si terrà una manifestazione con un presidio e la consegna del dossier al governo. Ci saranno i ragazzi di Tutti a scuola con le loro famiglie: chiedono solo di poter andare a scuola, di avere accesso a un diritto garantito dalla Costituzione. Ma che dovrebbe essere assicurato dall’umanità, da un’idea nemmeno troppo ampia di dignità. Per questi bambini e ragazzi, andare a scuola è tutto: la scuola è la vita, perché significa crescere, progredire, imparare, socializzare. Significa il tentativo di una normalità possibile. Leggete le loro storie qui sotto: e poi dite se questo è un Paese civile. del 05/11/14, pag. 12 La campagna di Tutti a scuola con il Fatto ALL’INIZIO dell’anno scolastico è stato subito chiaro che eravamo alle solite. A forza di tagli, patti di Stabilità (per non dire dei problemi legati alla pseudo abolizione delle Province) la situazione scolastica dei bimbi e ragazzi affetti da handicap e disabilità continua a peggiorare. Tanti, troppi, di loro non cominciano nemmeno l’anno scolastico: restano a casa. MANCANO i fondi per l’assistentato materiale, il trasporto, gli insegnanti di sostegno. A metà settembre l’associazione Tutti a scuola, assieme al nostro giornale, ha lanciato una campagna, invitando i genitori a segnalare i casi di disservizi scolastici legati alla disabilità. Sono arrivate centinaia di segnalazioni da tutta Italia: oggi il dossier sarà consegnato al governo. del 05/11/14, pag. 17 Sì al divorzio facile e cause più veloci 34 Passa con la fiducia il primo provvedimento del pacchetto Giustizia. Meno ferie per i magistrati ROMA Grazie a un altro voto di fiducia, il governo porta a casa il primo provvedimento del pacchetto Giustizia varato il 30 agosto dal Consiglio dei ministri. Con 353 sì e 192 contrari, la Camera ha approvato il testo proposto dalla II commissione per convertire in legge il decreto che mira a velocizzare la giustizia civile, sepolta sotto 5 milioni di procedimenti pendenti. Il voto finale è previsto per domani. Poi non resta che attendere la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale per vedere gli effetti del provvedimento: tra gli altri il divorzio davanti all’ufficiale civile senza l’assistenza obbligatoria dell’avvocato (solo in assenza di figli minorenni), la riduzione dei termini feriali nei tribunali (la sospensione sarà dal 1° al 31 agosto) e la contrazione (da 45 a 30 giorni) delle ferie dei magistrati. In realtà, il decreto che ha fatto molto rumore perché sottrae ben 15 giorni al periodo estivo di sospensione dei termini feriali, contiene molti interventi per arginare i 4,5 milioni di procedimenti civili che ogni anno vengono aperti nei tribunali. I correttivi messi a punto prevedono la facilitazione del procedimento arbitrale e la conciliazione con l’assistenza degli avvocati. Una corsia preferenziale che, però, avrà un costo per chi la richiede. Dello stesso segno sono gli interventi finalizzati a frenare l’abuso di giustizia: chi perde la causa dovrà rimborsare le spese dell’intero processo; le cause semplici saranno sempre istradate sul binario del rito ordinario; chi non paga volontariamente i propri debiti alla fine dovrà sborsare molto di più; il creditore potrà conoscere tutti i beni del suo debitore, con accesso per il tramite dell’ufficiale giudiziario alle banche dati pubbliche (anagrafe tributaria, archivio dei rapporti finanziari). Previste, poi, nuove modalità di pignoramento degli autoveicoli. Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, è molto soddisfatto: «Ora abbiamo il primo provvedimento del pacchetto Giustizia che diventa legge e pone le condizioni per affrontare l’arretrato civile e anche per cambiare il processo civile che affronteremo con la delega in maniera più organica». Il secondo passo infatti, dopo l’istruttoria affidata dal ministro alla commissione presieduta dal giudice Giuseppe Berruti, sarà quella di coordinare in un disegno organico gli interventi messi in cantiere. A proposito delle ferie dei magistrati, ora si attende l’assemblea generale indetta per domenica in Cassazione dall’Associazione nazionale magistrati: «La misura non è punitiva ma è una richiesta di collaborazione per aiutare al Paese», dice il responsabile Giustizia del Pd, David Ermini. Al Senato, invece, con margini meno rassicuranti per la maggioranza, oggi iniziano le votazioni in commissione sul testo Buemi emendato dal governo che amplia la responsabilità civile dei magistrati. E qualche serio grattacapo per il Pd potrebbe arrivare da un altro ddl di Enrico Buemi (socialista eletto nelle liste dem) che propone di modificare, in senso garantista, la legge anticorruzione che porta il nome di Paola Severino. Dino Martirano Del 5/11/2014, pag. 1-15 LA QUESTIONE GIOVANILE E LA SINISTRA Se la sinistra non trova le nuove generazioni Piero Bevilacqua Dobbiamo a un valente demografo, Massimo Livi Bacci, una circostanziata analisi della questione giovanile in Italia alla vigilia della Grande Recessione (Avanti giovani alla riscossa, Il Mulino, 2008). Lo studioso mostrava come la fascia di popolazione tra i 15 e 30 35 anni viveva una condizione di emarginazione sociale che la distingueva tra i paesi dell’Europa a 15.I giovani italiani, ad esempio, dipendevano per il 50% dal reddito della famiglie, contro il 30% della media europea. Gli adulti in Italia guadagnavano in media 2,8 volte il reddito dei giovani, contro 2,5 volte in Francia, 1,9 volte in Germania. Ma in generale i nostri ragazzi risultavano più indietro nel completamento degli studi, nel trovare occupazione, metter su casa, formare una propria famiglia. In sintesi, il grado di autonomia, la capacità di emancipazione e di libertà individuale della gioventù italiana apparivano inferiori a quella di gran parte dei coetanei europei per quasi tutti gli indici presi in esame. E quell’analisi non scendeva alla più basse fasce d’età. A metà anni ’90 i bambini italiani sotto la linea mediana ufficiale della povertà rappresentava il 21,3% del totale, terzi dopo USA (26,3%) e Russia (21,3) (The Dynamics of Child poverty in industrialised Countries, Cambridge 2001).Piazzamento davvero onorevole. Ricordo questi dati – cui sono seguite e continuano a seguire altre importanti ricerche come il Rapporto dell’Istituto G.Toniolo, La condizione giovanile in Italia, il Mulino 2013 – per sventare in anticipo una manipolazione consueta: quella di rappresentare un grave problema strutturale come esito transitorio della “crisi” degli ultimi anni. E’ evidente invece che la condizione di emarginazione della nostra gioventù precede la crisi, è l’esito aggravato di un corso politico che dura da decenni, alla cui base c’è una cronica disoccupazione e la sempre più dispiegata precarizzazione del lavoro. Alla falange dei giovani che negli ultimi decenni accedevano alle prime occupazioni si è parato dinanzi una crescente mancanza di sbocchi e la strada stretta di una legislazione sempre più svantaggiosa ed emarginante. Sicché non stupisce se la disoccupazione giovanile tocca oggi il picco del 44%, mentre il numero di giovani tra i 15 e i 24 anni che non lavorano, non studiano, non seguono corsi formazione (Neet) hanno raggiunto il primato europeo del 22,25%. Con la crisi la divaricazione generazionale è solo aumentata: gli over 65 sono diventati più ricchi, quelli sotto i 40 ancora più poveri. Forse però questi dati non dicono ancora la grande novità storica: la classe dirigente anziana che detiene il potere, da anni sta muovendo una vera e propria lotta di classe contro la gioventù del nostro paese. Padri e nonni ricchi contro figli e nipoti poveri, o precari e subalterni. Essa surroga sempre più il welfare pubblico con la famiglia, i diritti universali con il familismo. Quando, ovviamente, la famiglia non è anch’essa povera… Lo fa con gli strumenti del governo, attraverso il ceto politico, e direttamente nelle istituzioni pubbliche e nei luoghi di lavoro privati. Pochi dati da aggiungere a quelli più noti, inflitti dalla “legislazione di guerra” dell’ultimo governo Berlusconi-Tremonti, e poi proseguita dagli altri esecutivi. Negli ultimi 10 anni le tasse universitarie sono cresciute del 63%, mentre in Danimarca, Svezia, Norvegia, Finlandia, Germania ci si laurea gratis. In compenso le borse di studio sono crollate al 7,5 %, a fronte di uno studente su tre della Francia. Anche i posti di dottorato, già scarsi, sono diminuiti del 19%. Nel frattempo si rende sempre più estesa la pratica del numero chiuso per gli accessi alle facoltà universitarie, si sbarra la strada all’istruzione con una giungla di norme e di vessazioni, con lo scopo di ricostituire una Università di élite, gettando negli occhi dell ‘opinione pubblica il fumo del merito e dell’eccellenza. Ma ciò che sfugge a ogni statistica è il dilagare del lavoro non pagato: nelle fabbriche si diffondono gli “stages gratuiti”, nelle scuole i supplenti giovani spesso non ricevono gli stipendi o li ricevono con enormi ritardi, ma stanno al gioco con il fine di “fare punteggio”. Nell’Università non si conta più il lavoro volontario degli aspiranti ricercatori che sperano in un assegno di ricerca o in un concorso a venire. Negli studi degli avvocati e in tante altre attività professionali i giovani lavorano per anni senza reddito, per “imparare il mestiere”. E la pratica dei master a pagamento, che promettono carriera e posti di lavoro, rasenta in 36 tanti casi la truffa. Dove domina il “libero mercato” chi è già incluso e organizzato tende a togliere spazi a chi arriva. Dovrebbe dunque essere chiara l’enormità economica, politica, umana della questione giovanile in Italia, articolazione generazionale della disuguaglianza strutturale creata dalle pratiche neoliberistiche in tutto il mondo.Incarnazione e insieme causa ed effetto del nostro declino. Almeno due generazioni stanno letteralmente andando perdute, consumeranno la loro gioventù tra lavori intermittenti, disoccupazione, attese, frustrazioni, scarso reddito, impossibilità di progettare alcunché. Il nostro paese sta rinunciando all’energia vitale, alla creatività, capacità di lavoro e di progetto della sua scarsa riserva demografica. Scarsa, perché i giovani sono una minoranza: poco più di 10 milioni tra i 20 e i 34 anni al censimento del 2011, a fronte di quasi 49 milioni e mezzo del totale. Tutto questo mentre ci assorda la retorica sulla necessità della competizione, della valorizzazione del “capitale umano”, sulla crescita, e le altre fuffe che la miserabile cultura capitalistica dei nostri anni riesce a elaborare. Ora, io credo che la questione giovanile costituisca una straordinaria occasione politica per la sinistra e una leva potente per invertire il declino. Alle retoriche del governo e sue adiacenze si può contrapporre un vero e proprio programma per la gioventù, quale parte di un progetto per l’intero paese. La prospettazione di una serie di obiettivi che possano mobilitare il consenso e anche l’entusiasmo giovanile, oggi sommerso sotto una montagna di delusioni e rancore. Non si tratta solo di rivendicare il reddito minimo di base, che comporta rilevanti impegni di spesa, ma anche di puntare a iniziative legislative “minori”, che possano ricreare un clima di fiducia tra la politica – che è cosa diversa dalla propaganda elettorale – e le nuove generazioni. Perché, ad esempio, non consentire ai nostri ragazzi , entro una determinata fascia di età, sconti importanti per l’ingresso ai teatri, ai musei, per l’acquisto di libri, per la mobilità? Perché non creare un fondo di garanzia che consenta l’apertura di mutui da parte delle banche alle giovani coppie che non possono contare su un reddito continuativo e sicuro? Perché non aprire un campagna per la costituzione di nuove case per gli studenti (utilizzando caserme o altri stabili dismessi), la diffusione sul territorio di asili nido che aiuterebbero tanto le giovani coppie a cercare e mantenere un lavoro? Sono solo esempi di quel che si può proporre, di quel che si può fare per attivare la fantasia dei diretti interessati, che devono uscire dalla loro rassegnata frantumazione e porsi come soggetto consapevole di una ripresa della lotta di classe in quanto generazione e aggregato sociale. Ma per intestarsi questa battaglia la sinistra radicale e popolare, deve riprendere il passo che ha perduto in questi ultimi tempi: deve “andare” dai giovani, davanti alle fabbriche, alle scuole, alle università, ovunque si trovino. Deve andare adesso, non alla vigilia delle elezioni, per fare eleggere qualche pur bravo candidato. Deve riacquistare il gusto di organizzare persone e lotte. E’ questo il terreno su cui movimenti e figure politiche, oggi variamente collocate, possono trovare il punto sperimentale di aggregazione che tutti attendiamo. E’ una strada drammaticamente obbligata. Renzi e i suoi non sposteranno di un centimetro il piano inclinato in cui l’Italia va precipitando. Preparano solo gli strumenti politici per controllare la disgregazione sociale che sta dilagando nel paese. Con questo articolo apriamo una campagna di discussione sul nostro giornale, versione cartacea e on line, sui problemi delle giovani generazioni. Pubblicheremo denunce, analisi, racconti di esperienze personali, ma anche suggerimenti e proposte che perverranno dai vari settori della società italiana. Se ci riusciremo metteremo insieme un Libro bianco sulla condizione della gioventù scritto dai diretti protagonisti. Ma nel frattempo intendiamo alimentare un ambito specifico della lotta politica nel nostro paese. 37 BENI COMUNI/AMBIENTE (ins. Tuttogreen) del 05/11/14, pag. VI Le città italiane, ecosistemi in crisi Verbania al top, Agrigento è ultima La recessione strangola il trasporto pubblico; segnali positivi per la raccolta dei rifiuti Francesco Grignetti Ecosistema urbano, quanto è difficile rendere amiche le nostre città. L’ultimo Rapporto della Legambiente sulla vivibilità ambientale dei capoluoghi di provincia italiani, presentato a Torino nei giorni scorsi, è l’ennesimo grido di dolore. Le città italiane si rivelano a tre velocità: lente, lentissime, o statiche. Un pianto al confronto con quello che si può vedere in giro per l’Europa. La classifica sulla vivibilità urbana, che tiene conto dell’aria, dell’acqua e dell’energia, lo stato della mobilità, della raccolta rifiuti e anche degli incidenti stradali, propone al vertice Verbania, Belluno, Bolzano, Trento e Pordenone. A passarsela meglio sono in genere le città medio-piccole, soprattutto del Nord, anche se tra le prime 10 in classifica troviamo tre città del Centro: Oristano, L’Aquila e Perugia. Agrigento, all’opposto, è ultima assieme a Crotone e Isernia. A Crotone, per dire, sono appena 0,02 i metri quadrati di superficie pedonale a disposizione di ogni residente; soltanto il 16,6% dei rifiuti è raccolto in modo differenziato. Isernia dichiara l’8% di rifiuti raccolti in maniera differenziata, 71 auto ogni 100 abitanti, zero metri equivalenti di strada destinata ai ciclisti, zero potenza installata da solare termico e fotovoltaico negli edifici comunali. Quanto allo smog, aumentano le situazioni critiche nei Comuni più grandi: lo mostrano gli indici di biossido di azoto a Trieste, Milano, Torino e Roma. «Solo a Bolzano - si legge - le politiche di mobilità sono riuscite a limitare gli spostamenti motorizzati privati al di sotto di un terzo degli spostamenti complessivi». In 26 città invece il 66% degli spostamenti si fanno con auto e moto private. Eppure, in tanto sfacelo, ci sono diverse esperienze che fanno ben sperare. A TorinoMirafiori c’è la prima e unica Zona 30 chilometri l’ora di concezione «europea»: 50 ettari in cui vivono 10.000 abitanti. Nel giro di due anni il traffico nelle ore di punta è diminuito del 15% circa e del 30% per i mezzi pesanti; si sono ridotti del 74% i giorni di prognosi per incidenti; il rumore è diminuito di 2 decibel; il risparmio complessivo è stato di 1,5 milioni di euro, di cui 500.000 soltanto di costi sanitari. E il 68% dei residenti si dichiara soddisfatto. Ad Andria, in Puglia, la raccolta differenziata dei rifiuti era del tutto sconosciuta fino all’estate del 2012: in pochi mesi, «per merito innanzitutto dei cittadini andriesi - riconosce Legambiente - che hanno operato un profondo cambiamento nel loro stile di vita quotidiano», le cose sono cambiate radicalmente. Ad Andria ora si raccoglie il 66,7% di rifiuti in maniera differenziata. In generale la raccolta dei rifiuti è diventata una cartina di tornasole della vivibilità urbana. Si osservano, al solito, due Italie: un terzo dei Comuni non raggiunge nemmeno l’obiettivo del 35% da centrare nel lontano 2006. Un altro terzo invece supera abbondantemente il 50%. E 8 Comuni virtuosi - tra cui due città campane, Benevento e Salerno - hanno superato l’obiettivo di legge del 65%, «ponendo le basi per lo sviluppo di un’economia basata sul riciclo e riuso delle risorse che è una dei pilastri fondamentali dell’agenda europea per il 2020». È in grave ritardo, invece, lo sviluppo del trasporto pubblico, che anzi arretra sotto i colpi della crisi finanziaria. «Eppure - ragiona il presidente di 38 Legambiente, Vittorio Cogliati Dezza - è proprio la crisi economica in edilizia, la pessima qualità della mobilità urbana, le opportunità offerte dalla digitalizzazione e dalle nuove tecnologie energetiche, che rendono possibile e necessario avviare concreti percorsi di rigenerazione urbana. Serve un piano nazionale che mostri una capacità politica di pensare un modo nuovo di usare e vivere le città. Purtroppo, il decreto SbloccaItalia rappresenta solo l’ennesima occasione persa». del 05/11/14, pag. 50 89.000 posti se l’Italia nel 2020 riciclerà il 50% degli scarti urbani. Lo prevede il rapporto del consorzio Conai presentato oggi agli Stati Generali dell’economia sostenibile a Rimini Fiera, dove si fa il punto sul futuro dell’ambiente Green jobs Rifiuti, e il Paese torna al lavoro ANTONIO CIANCIULLO Altri 89mila posti di lavoro e un aumento di fatturato di 6,2 miliardi nel periodo 2014 2020. È il regalo che porterebbe all’Italia il rispetto dell’impegno a riciclare il 50 per cento dei rifiuti urbani spostando carta, vetro, plastica, metalli, legno e organico dalla discarica agli impianti di recupero. Il calcolo sta nel rapporto che il Conai (Consorzio nazionale per il recupero degli imballaggi) presenta agli Stati Generali della Green Economy che si tengono oggi e domani a Ecomondo, alla Fiera di Rimini. «Noi abbiamo fatto un conteggio teorico e un conteggio pratico», spiega Roberto De Santis, presidente del Conai. «Nel primo caso si ipotizza un Paese perfetto, in cui tutte le regioni raggiungono al 2020 l’obiettivo minimo del 50 per cento e l’uso della discarica viene praticamente azzerato. Bellissimo, e si arriverebbe a quasi 200mila posti di lavoro aggiuntivi. Ma, diciamo la verità, è più un sogno che una previsione. Noi riteniamo invece, dati alla mano, che nel 2020 si possa arrivare al 50 per cento di riciclo come somma di regioni che andranno oltre l’obiettivo e di regioni in ritardo. Questa valutazione è realistica e dà risultati molto interessanti, compresi i 4 milioni di tonnellate di rifiuti che potrebbero venire sottratti alla discarica». Una proiezione figlia del presente. Oggi la media italiana è data da due elementi principali: un terzo dei rifiuti urbani che viene avviato al riciclo e poco più del 40 per cento che va in discarica; ma al Nord questo 40 per cento si dimezza, mentre nel Centro Sud sale al 60 per cento. Vuol dire che lo scenario virtuoso poggia su un aumento della raccolta differenziata nelle aree in cui è ancora molto bassa e su un aumento del numero di impianti di trattamento in quelle in cui i cittadini fanno già la loro parte ed è il sistema industriale a essere indietro. L’insieme di questi due interventi dà un volume d’affari incrementale della filiera (raccolta differenziata, trasporto, riciclo, compostaggio) pari a 6,2 miliardi nel periodo 2014-2020, con 1,7 miliardi di investimenti in infrastrutture e un valore aggiunto di 2,3 miliardi. «Per raggiungere questo risultato occorre però agire anche dal lato dell’offerta: bisogna creare più prodotti che utilizzano materiali riciclati», aggiunge De Santis. «È vero che c’è il green public procurement , cioè l’obbligo da parte della pubblica amministrazione di una quota di acquisti green, ma è anche vero che bisogna allargare il mercato spendendo in ricerca per ampliare la gamma dell’offerta. Come Conai abbiamo investito 400mila euro per migliorare la qualità dei processi di lavorazione dei materiali giunti dalla raccolta differenziata». Le premesse per arrivare in tempo al traguardo ci sono. Sette regioni (Piemonte, Lombardia, Trentino, Veneto, Friuli, Marche e Sardegna) hanno 39 già raggiunto l’obiettivo del 50 per cento di riciclo e altre tre Regioni (Emilia Romagna, Valle d’Aosta e Umbria) appaiono vicine al traguardo (superano il 46 per cento). Lo documenta la Banca dati presentata nei giorni scorsi da Anci (Associazione nazionale comuni italiani) e Conai: «C’è una metà dell’Italia che si è impegnata con successo e ha raggiunto in anticipo l’obiettivo europeo», spiega Filippo Bernocchi, delegato Anci per energia e rifiuti. «In queste zone virtuose quasi tutto quello che si raccoglie viene recuperato, mentre in altre la raccolta differenziata cresce molto più velocemente del riciclo. E questo vuol dire che si fa male, sprecando denaro, emissioni di anidride carbonica, energia per trasportare materiali mai utilizzati. Per questo noi riteniamo che occorra concentrare l’attenzione sul recupero, non sulla raccolta differenziata». «Nella Ue a 28 Paesi raggiungere l’obiettivo del 50 per cento di riciclo significa creare 875mila posti di lavoro: solo con il riciclo degli imballaggi risparmiamo 2,2 miliardi di euro di energia», aggiunge Alessandro Marangoni, ad di Althesys, la società di ricerca che il 19 novembre presenta il primo rapporto del WAS - Waste Strategy, il think tank sulla gestione dei rifiuti e il riciclo. «Inoltre il riciclo contribuisce a migliorare la bilancia dei pagamenti dell’Italia evitando importazioni di materie prime per 6,5 miliardi di euro» . 40 INFORMAZIONE Del 5/11/2014, pag. 14 Editoria a rischio ko Ri-mediamo. Delitto "perfetto" del governo Renzi. Mentre decine e decine di giornali chiudono, il governo azzera il fondo editoria nella legge di stabilità 2015. Nemmeno il fascismo aveva osato tanto con la libertà di informazione Vincenzo Vita Chissà se il maestro Muti vorrà portare – davanti a Palazzo Chigi — la Messa da Requiem di Verdi, così mirabilmente diretta lo scorso 10 ottobre a Chicago in occasione dell’anniversario dei duecento anni dalla nascita del grande compositore di Busseto. Testo e musica ben si addicono alla imminente morte dell’editoria non profit, cooperativa, locale – circa cento testate, di cui un terzo è già defunta o in agonia — alla cui esistenza dovrebbe contribuire la specifica posta istituita presso la presidenza del consiglio. Il Fondo fu introdotto e aggiornato da una lunga sequenza normativa (l. 416/1981, l. 67/1987, l. 250 /1990, l. 62/2001, DPR 223/2010, l. 103 /2012), per controbilanciare lo strapotere televisivo e l’iniqua distribuzione della pubblicità. Proprio la l. 103/2012, ora in vigore, vincola i finanziamenti ai contratti di lavoro a tempo indeterminato e alla diffusione effettiva. Sempre in attesa della tanto agognata riforma del sistema, di cui c’è bisogno come il pane: in un’Italia scivolata al 49° posto della classifica per la libertà di informazione e retta (si fa per dire) da una normativa figlia dell’era dei grandi gruppi e del conflitto di interessi. Ricapitoliamo gli eventi. Il Fondo è passato da 506 milioni di euro del 2007 agli attuali 55,9: cifra calcolata al netto delle spese «fisse», che curiosamente premono sulla stessa voce (rimborso a Poste Italiane, convenzioni della Rai, e così via). In verità, ecco il fulmine a ciel sereno (?) della improvvisa incertezza sulla sorte del già insufficiente capitolo di bilancio. «Chi l’ha visto?», cantava Gaber, ironizzando con simpatia sulla storica trasmissione della terza rete della Rai. Appunto, chi l’ha visto il Fondo, visto che se ne sono perse le tracce. Il sottosegretario con delega all’editoria Lotti sembrerebbe preoccupato. E ne ha motivo, visto che la fine di un così rilevante numero di testate sarebbe ununicum nella storia nazionale: neppure con il fascismo era successo qualcosa di simile. Ma non finisce qui. Il delitto diviene perfetto con il capitolo 2183, Tabella C dellaLegge di stabilità 2015, in discussione in questi giorni alla camera. I virtuali 98,5 milioni stanziati – tolte le solite spese «fisse» — spingono il contributo editoria sotto lo zero. C’è sempre una prima volta, incredibilmente. Quindi? Libri in tribunale, per non rischiare persino involontari falsi in bilancio. E sì, perché il taglio arriva alla fine dell’anno, a resoconti stilati ed approvati. È un’improvvida e grave deriva, che si collega alla complessiva riduzione della spesa per la cultura, la scuola, l’università, la ricerca, i saperi. Meglio cittadini poco informati? Il sospetto non è infondato e, se ci si sta sbagliando, ben venga. Come ha denunciato la Federazione della stampa in una bella iniziativa promossa insieme a «Stand Up for Journalism» sul lavoro, nel 2013 altri 800 giornalisti hanno perso il posto. Inoltre, si parla della scomparsa di una trentina di fogli locali, per non parlare dell’emittenza. Attenzione, qui parliamo della parte nota ed «emersa», da moltiplicare se volgiamo lo sguardo all’inferno del precariato. Ai nuovi servi della gleba. 41 Eppure, lo stile del governo Renzi potrebbe apparire conversativo e pieno di promesse: in verità la pratica reale è drammatica. «E così, con un bacio, io muoio», esclamava morendo Romeo, nella famosa tragedia shakespeariana. E nell’altra, non meno celebre, l’ombra di Banco – però — perseguita Macbeth. Il Parlamento tace? Intanto, si apra una stagione di lotta, perché il silenzio non paga mai. del 05/11/14, pag. 12 SPOT IN FUGA, LE CIFRE DEL TRACOLLO RAI di Giorgio Meletti e Carlo Tecce La Rai sta andando a fondo e tutti fanno finta di niente. Per mesi gli esegeti del servizio pubblico televisivo si sono strappati i capelli per il salasso da 150 milioni di euro imposto dal premier Matteo Renzi alla presidente Annamaria Tarantola e al direttore generale Luigi Gubitosi. MA LA VORAGINE autentica dei conti Rai è sul fronte della raccolta pubblicitaria. Nel 2007, prima della grande crisi, la concessionaria Sipra ha venduto spot per 1,371 miliardi di euro. Nel 2013 il contatore si è fermato a 768 milioni. Quest’anno il capo di Rai Pubblicità Fabrizio Piscopo ha già ammesso che non andrà oltre i 670/690 milioni nella migliore delle ipotesi. In sette anni, i ricavi pubblicitari della Rai si sono semplicemente dimezzati. Nello stesso periodo Mediaset ha perso circa il 30 per cento della pubblicità, perché il periodo è duro per tutti. Però le televisioni del Biscione sono private e possono manovrare a piacimento il mix di prodotto e il costo dei palinsesti, mentre la Rai deve fare i conti con gli obblighi del servizio pubblico per il quale paghiamo il canone, e invece manifesta una certa rigidità strategica. Nessuna azienda normale rimarrebbe ferma di fronte al dimezzamento dei ricavi tipici. La Rai, invece, continua imperterrita la sua navigazione e tutte le sue orchestre e orchestrine continuano a suonare. Come se non fosse accaduto niente. In questo nuovo anno orribile – che segna l’ennesima perdita di fatturato pubblicitario nonostante i mondiali di calcio, dai quali ci sai aspettava molto e che hanno invece fruttato solo 45 milioni di ricavi – il vertice Rai ha reagito alle difficoltà con due mosse, una palliativa e una decisamente assurda. Quella palliativa riguardava l’accorpa - mento di Tg1 e Tg2 e delle altre testate giornalistiche Tg3, Tgr e Televideo sotto l’om - brello di Rainews. Una razionalizzazione di costi piuttosto marginale peraltro abortita rapidamente. QUELLA assurda riguarda la quotazione in Borsa della controllata Raiway, che gestisce gli apparati di trasmissione, tralicci, ripetitori e via dicendo. La prossima settimana prenderà il via il collocamento sul mercato del 35 per cento delle azioni, operazione dalla quale Gubitosi conta di ricavare almeno 250 milioni. Operazione tre volte assurda. Primo. È offensiva per il mercato, perché ripropone il malcostume solo italiano di quotare una società controllata che deve quasi tutto il fatturato alla controllante. Non a caso il prospetti di collocamento di Raiway avverte che il principale fattore di rischio per gli investitori è connesso “alla concentrazione dei ricavi dell’emittente nei confronti di un numero limitato di clienti”. L’83 per cento dei ricavi Raiway arriva dalla Rai. Secondo. Chi comprerà azioni Raiway si consegnerà così alle decisioni della Rai: se vorrà salvaguardare il proprio bilancio, la società di viale Mazzini pagherà poco i servizi a Raiway, i cui azionisti non vedranno un dividendo neppure dipinto; se invece vorrà 42 premiare gli investitori strapagherà i servizi di Raiway, e forse alla fine quei 250 milioni incassati costeranno alla Rai più che se li prendesse in banca. Terzo. La cosa più incomprensibile è vendere un pezzo del proprio patrimonio – e il network di antenne è forse la cosa più preziosa di Viale Mazzini – per ripianare le perdite correnti del 2014. Nulla che affronti di petto la vera malattia della Rai, la perdita di spot che ormai è evidente anche al telespettatore. La Rai per legge può avere un affollamento pubblicitario del 4 per cento (limite settimanale) ma in questa stagione non va oltre il 3,5. Gli spot non si vendono benché Rai Pubblicità applichi sconti sino al 90 per cento. Le fasce più difficili da riempire sono quelle della mattina e della prima serata, dove le reti Rai non raggiungono gli ascolti promessi agli investitori. Due esempi. Ballarò ha uno share medio del 7,5 per cento – l'anno scorso era quasi il doppio – e dunque al conduttore Massimo Giannini capita di non avere più quattro interruzioni pubblicitarie durante il programma (che dura 2 ore e 50 minuti), ma soltanto tre. Ballan - do con le stelle, il varietà di punta del sabato sera, superato spesso dal programma omologo di Canale 5, ha lo stesso problema. Anche sul fronte del canone le prospettive non sono rosse. Nel 2013 la Rai ha raccolto 1,68 miliardi di euro, perdendo i 500 milioni legati a un’evasione stimata nel 27 per cento. QUEST ’ANNO il canone è stato colpito dal prelievo di 150 milioni di euro deciso dal governo per coprire gli 80 euro in busta paga. La legge di Stabilità prevede che dal prossimo anno al canone sarà applicato un taglio progressivo per cui nel 2017 dagli 1,68 miliardi del 2013 si passerà a 1,42 miliardi, con una perdita di ricavo del 15 per cento. Di fronte a questo quadro il direttore generale, Gubitosi, sembra avere un solo pensiero: portare a casa i 250 milioni della quotazione Raiway per chiudere in attivo il bilancio 2014, che senza quella boccata d’ossi - geno sarebbe destinato a un rosso di 150 milioni, proprio il salasso di Renzi, al quale la Rai non è stata in grado di reagire in nessun modo. Infatti i conti del primo semestre si sono già chiusi con una perdita di 77,9 miliardi, la metà della tassa Renzi più spiccioli. del 05/11/14, pag. 26 Canone, Mediaset si fa lo sconto solo 9 milioni per le frequenze tv ALDO FONTANAROSA ROMA . Al momento di versare allo Stato il “fitto” per le sue frequenze tv, Mediaset si applica uno sconto. Invece di pagare 20,39 milioni (più o meno l’importo degli anni precedenti, più o meno quanto versa la “gemella” Rai) ne paga solo 8,85. Meno della metà, insomma. Per sua autonoma scelta. Ed è proprio il Biscione a rendere pubblica la decisione. Siamo a pagina 27 di un ricorso che i suoi legali presentano ai giudici del Tar nel 2013, pochi giorni prima di Natale, è il 9 dicembre. Scrive il professor avvocato Giuseppe Rossi che il “fitto” per le attività televisive dell’anno prima (il 2012) è stato onorato, certo, ma soltanto «sino al 30 giugno». E’ come se un inquilino versasse il pigione per metà anno e lo negasse al padrone di casa (qui il nostro Stato) per la seconda metà. Mediaset, peraltro, paga mal volentieri questi 6 mesi, «al solo scopo di evitare procedure di recupero coattivo» e l’adozione di sanzioni. L’autoriduzione fiscale di Mediaset è solo l’ultimo tassello di un quadro a dir poco caotico. C’è Mediaset che fa ricorso al Tar e paga meno della metà del dovuto (per il 2012) C’è Telecom Italia Media Broadcasting che presenta un ricorso gemello al Tar, per la sua 43 creatura tv dell’epoca (la 7). E c’è il Garante per le Comunicazioni (l’Ag-Com) che finisce due volte sul banco degli accusati. Per aver rinviato la riforma del canone frequenze (nel 2013) e per aver fatto questa riforma nel modo sbagliato (nel 2014). Sbagliato almeno secondo il governo Renzi che si prepara ad azzerarla con un suo decreto urgente. Per 12 anni, gli editori tv nazionali pagano l’1% del loro fatturato come canone annuo per le frequenze. Il metodo di calcolo è stasolo bilito dalla Legge Finanziaria per il 2000 (la 499 del 1999, all’articolo 27). Quest’articolo 27 della Finanziaria del 2000 non è stato mai abrogato. E’ vivo e tuttora vincolante. Eppure Mediaset punta i piedi con un agguerrito ricorso al Tar del Lazio, a Natale 2013. Il ricorso — che porta la firma di Elettronica Industriale, la sua società dei ripetitori — contesta intanto una presunta omissione del Garante Comunicazioni (l’AgCom). I legali di Mediaset ricordano che il vecchio sistema di pagamento, quello della Finanziaria 2000, doveva finire in soffitta a partire dal gennaio del 2013. Spettava all’AgCom stabilire nuovi criteri di calcolo del canone «entro 90 giorni» dall’entrata in vigore di una certa legge (la 44 del 2012). E invece l’AgCom che combina? Proroga di un anno il vecchio regime del 2000 con una sua delibera d’emergenza dell’ottobre 2013. Delibera che il Tar — chiede ora Mediaset — deve asfaltare. Ma Mediaset sostiene anche che l’obbligo di pagare l’1% del fatturato potrà anche avere valore, ma fino al 30 giugno del 2012. Dal 30 giugno 2012, l’Italia entra in una nuova era geologica. Abbandona le trasmissioni con tecnica analogica per il digitale terrestre. E nuove tecnologie chiamano nuove regole. Per questo, dopo aver avvistato l’AgCom, il Biscione versa il canone solo per i 6 mesi dell’era analogica. Sono 5 milioni 620 mila euro (per Canale 5); 2 milioni 337 mila (per Italia 1); e 894 mila per Rete 4. Il totale fa 8 milioni 852 mila euro (contro i 20,39 dovuti per l’intero anno). A settembre del 2014, l’AgCom cambia finalmente i criteri di calcolo del canone. Ma stavolta è il governo Renzi a puntare i piedi e ad annunciare che il vecchio sistema (quello del 2000) deve restare in vigore un altro anno, in attesa di una legge che riorganizzi le cose. Che cosa diranno ora quelli di Mediaset? E che cosa i giudici del Tar, investiti di tanto caos? 44 CULTURA E SCUOLA Del 5/11/2014, pag. 10 La servitù coatta dei creativi Terre promesse. L’arte contemporanea è un settore florido che non è stato scalfito dalla perdurante crisi economica globale. La sua «base di massa» è costituita dal lavoro gratuito di giovani in cerca di visibilità che possono citare sul proprio curriculum la partecipazione a «eventi» artistici Valeria Graziano In inglese il lavorare gratis si traduce con free labour, un’espressione che significa sia lavoro gratuito che lavoro libero, trattenendo tutta l’ambiguità che accompagna le condizioni di vita e lavoro di chi opera nel settore dell’arte contemporanea. C’è un’obiezione frequente quando si parla di lavoro gratuito e di arte che bisogna prendere sul serio, in parte per confutarla, in parte per scovarne i meriti. Mi riferisco al commento, sentito tante volte in situazioni informali ma anche in alcune sedi più ufficiali, secondo il quale l’arte non è propriamente un lavoro. Iniziamo con l’esaminare l’assunto nascosto in questa critica mossa a chi, occupandosi d’arte come artista, curatore, critico, educatore o altro, non riesce guadagnarsi da vivere in maniera dignitosa. Il primo mito da sfatare è che si tratti di un’attività marginale, per pochi appassionati. Sussiste la percezione diffusa che la pratica artistica sia solo per ceti sociali «alti», e che quindi la questione del lavoro gratuito rimanga una problematica tutto sommato superficiale. È importante, invece, sottolineare come questa retorica sia falsa e dannosa. A partire dalla metà degli anni Novanta, infatti, in Europa ha iniziato a diffondersi il modello di sviluppo economico delle cosiddette «industrie creative». Si tratta di un modello che ha attratto e reclutato una forza lavoro trasversale alle classi sociali, incoraggiando i giovani a perseguire una carriera che li portasse a sviluppare le competenze per poter interpretare i linguaggi creativi internazionali, ricombinandoli come fonte di innovazione per il paese. In parallelo, il numero degli iscritti a corsi di formazione artistica e creativa ha continuato a crescere a livello europeo, coinvolgendo, fin quando i costi dell’istruzione superiore sono stati accessibili, diverse classi sociali (Unesco; Eurostat). Nonostante l’entusiasmo di molti governi per la retorica delle «industrie creative», tuttavia, il reddito e la stabilità contrattuale di chi lavora nel settore restano tutt’ora significativamente più bassi rispetto a professioni comparabili, sia nell’Unione Europea (Eurostat 2011), che in Australia (Australian Art Council, 2014) e Stati Uniti (Bls, 2013). UNA POTENTE ECONOMIA Il secondo punto da confutare è che l’arte contemporanea sia un settore scarsamente redditizio o poco rilevante per l’economia. La rivista Forbes nel 2012 ha dichiarato il mercato dell’arte «l’economia più forte del mondo». Il mercato dell’arte contemporanea ha raddoppiato il suo valore negli anni 2007–2008, e dopo la crisi finanziaria, si è ripreso a tempi di record, raggiungendo i 2.046 miliardi di dollari nel 2013, il 40% in più rispetto all’anno precedente (ArtPrice Report, 2013). E questa cifra si limita alle vendite a collezionisti tramite aste, senza contare le transazioni tra privati, gli introiti di musei, biennali, festival, e mostre itineranti, e l’indotto indiretto generato dal turismo culturale e dal merchandising. Se è vero come dice Okwui Enwezor, curatore della prossima Biennale di Venezia, che il mercato è solo una componente dell’arte contemporanea, è anche vero che si ragiona forse troppo poco sulla relazione esistente tra questo e le altre componenti. Oltre che falsa, la percezione diffusa che l’arte e la cultura contemporanea siano questioni elitarie è dannosa perché riproduce una visione del fare arte come attività per pochi, 45 rischiando di consegnare la cultura nelle mani di coloro che condividono questa impostazione dal momento che li favorisce, contribuendo al loro status sociale. Ed è proprio il dilagare del free labour ad assumere un ruolo strategico in questa tendenza di estrema polarizzazione, sbarrando l’ingresso a quanti non possono permettersi di lavorare gratis. Per potersi riappropriare della cultura contemporanea è proprio dal free labour che si potrebbe ripartire, comprendendone i meccanismi di funzionamento nelle due forme più diffuse di stage e iperlavoro. Con gli stage, l’esperienza del free labour emerge come rito di passaggio obbligatorio durante il periodo di formazione, sotto forma di prestazioni non retribuite in cambio di una promessa di visibilità futura. Un sistema che chiede ai giovani (e in particolare a giovani donne, la maggioranza degli studenti nel settore arte) il prezzo più alto. RITI DI INIZIAZIONE Nonostante il nome «stage» evochi il gradino di un percorso, esso è sempre di più una condizione ciclica e obbligatoria per i creativi. È ormai considerato normale avere in curriculum tre, quattro, cinque stage prima di poter essere considerata per qualche ingaggio pagato. Inoltre molte opportunità di stage si trovano in metropoli internazionali (e per questo, tanti sono costretti a migrare verso il nord del mondo) dove il costo della vita è alto e dove gli stagisti devono trovare un secondo impiego per potersi mantenere. Tuttavia, questi stagisti non solo tengono in piedi un settore dal quale sistematicamente vengono sottratte risorse pubbliche, ma contribuiscono anche al valore del brand delle università e delle scuole specialistiche (spesso a pagamento) che li dovrebbero formare. Questi centri di formazione stipulano spesso accordi con istituzioni culturali, festival o musei per garantire l’esclusivo accesso agli stage ai loro studenti. Ma che cosa dovrebbe insegnare lo stage agli aspiranti artisti e creativi? Come racconta l’inchiesta del «Carrot Workers Collective» di Londra, ci sono due principali esperienze nel settore artistico, entrambe assai problematiche. Nel primo caso le mansioni richieste sono di lavoro dequalificato o apertamente servile. Lo stagista porta il caffè, va in tintoria e porta a passeggio il cane del curatore, sorveglia le sale espositive, attacca i francobolli per gli inviti ai vernissage. Ciò che si impara durante lo stage è la propria vulnerabilità di fronte al potere di chi controlla gli spazi di visibilità. Si impara a dissimulare la frustrazione di fronte ai propri capi, ci si allena a prevaricare i compagni e ad approfittare opportunisticamente di ogni occasione. C’è poi un secondo tipo di stage dove, al contrario, ai nuovi è richiesto un contributo creativo di alto livello, un’idea artistica originale, la curatela di un evento, una soluzione di design innovativa, la scrittura di un testo per un catalogo, il montaggio di un video. Anche se la stagista tornerà a casa più contenta dello stagista-servo, questo caso è ancora più problematico proprio perché lo stage ha insegnato che la gratificazione dovrebbe bastare come compenso e che bisogna dire di sì a qualunque invito se questo «fa curriculum». Questo meccanismo agisce malignamente in un contesto in cui spesso sono i giovani ad essere portatori delle idee e competenze più preziose, in un mercato che si nutre di novità, più che di esperienza, per produrre valore. Il ruolo degli stagisti è cruciale anche per mantenere docili e iperproduttivi i lavoratori dell’arte sempre più precarizzati e minacciati di essere rimpiazzati da qualcuno disponibile a svolgere le loro stesse mansioni gratuitamente. Oltre ad essere un efficace dispositivo di disciplina, il ruolo del lavoro gratuito nell’arte ha però altri effetti nocivi. Il suo massiccio impiego ha reso impercettibile la sistematica riduzione di risorse pubbliche nel settore culturale. Molti finanziamenti erogati per iniziative artistiche non prevedono nemmeno più la voce di spesa per i compensi al personale. Il contributo gratuito di stagisti e volontari e l’iperproduttività dei lavoratori sopperiscono alla mancanza di risorse, all’interno di una retorica del sacrificio in nome della cultura. 46 Inoltre, il mercato dell’arte attraverso il meccanismo del free labour impone ai lavoratori un crescente ribasso dei compensi: oggi vivere solamente di arte contemporanea è assai raro. Molti che si trovano in questa situazione ricorrono a una strategia di sdoppiamento. Da un lato si continua a portare avanti la propria pratica artistica, a promuoverla, a fare networking; dall’altro si cercano fonti di guadagno alternative per rendere tutto ciò sostenibile. Secondo una recente inchiesta sugli artisti nel Regno Unito, un’alta percentuale smette intorno ai 45 anni o alla nascita del primo figlio (Nesta, 2008). Spesso questo secondo lavoro, di cui si parla malvolentieri, consiste in un impiego nelle stesse industrie culturali e creative in mansioni che non hanno nulla di creativo (amministrativi, guide, installatori, ecc.). Anche se pagati meno di ruoli equivalenti in altri settori, questi ingaggi permettono di continuare a sentirsi parte della «scena», individuata dal sociologo Pascal Gielen come la nuova unità di produzione del capitale semiotico. Tuttavia, frequentare la «scena» non è importante solo per una questione di appartenenza identitaria: come fa notare Gielen, è anche l’unico modo per tutelare le proprie idee e impedirne l’appropriazione da parte di altri più affermati. Uno sdoppiamento ancora più radicale colpisce quanti ripiegano su un secondo lavoro estraneo alle industrie creative. Questa situazione porta a uno scollamento tra la percezione della propria identità (sono un curatore, un videomaker, un performer) e il profilo professionale per cui si viene pagati. Dal punto di vista contributivo, molti artisti e creativi sono in realtà lavoratori del settore terziario. Tuttavia, siccome non si identificano come tali, finiscono con il fornire una mano d’opera transitoria e disinteressata a rivendicare i propri diritti, in attesa di essere «scoperti» dal sistema artistico. PRATICHE DI AUTORGANIZZAZIONE Nelle industrie culturali si sperimentano nuovi meccanismi di sfruttamento della totalità della vita, ma proprio in questi ambiti emergono forme di resistenza che possono offrire spunti utili per una riflessione più allargata sul lavoro stesso. Negli ultimi anni sono nate in vari paesi pratiche collettive che denunciavano l’insostenibilità del free labour. Alcune di queste, come «A/traversad*s por la Cultura» in Spagna o «Cantieri per pratiche non affermative» in Italia, sono partite da percorsi di inchiesta per sopperire alla carenza di statistiche ufficiali sul tema del lavoro gratuito. I «Precarious Workers Brigade» e i «Future Interns» nel Regno Unito si sono invece concentrati sullo «stagismo» e sul ruolo dei processi pedagogici nel riprodurre miti quali l’artista/genio/bohémien o l’«artista/imprenditore di se stesso». Altre esperienze invece hanno affrontato il lavoro gratuito come parte di una lotta più estesa contro lo sfruttamento strutturale che contrappone, nel «sistema arte», il lusso dei vertici alla pauperizzazione della base. Sono questi i casi di W.A.G.E. negli Stati Uniti che ha creato un marchio di certificazione etica per iniziative culturali che pagano equamente i propri collaboratori; di «Trabajadores de Arte», una rete che riunisce artisti in sette paesi latinoamericani fornendo strumenti per calcolare compensi equi; e la piattaforma ArtLeaks, impegnata a pubblicare in forma anonima segnalazioni di abuso e sfruttamento. Nonostante i diversi livelli di successo, queste pratiche contribuiscono a scalfire la patologica divisione tra contenuti «critici» e forme organizzative in ambito artistico. Il loro aspetto più interessante risiede nella capacità di porre il problema del lavoro non in chiave corporativia o professionalizzante, ma in quanto limite strutturale alle possibilità di superare le ingiustizie dell’ordine sociale esistente. Un’importante fonte di ispirazione è stata la protesta degli «Intermittenti dello Spettacolo» francesi, che nel 2003 furono tra i primi a mobilitarsi contro le condizioni di ricatto in cui si stava riorganizzando il settore culturale in Europa e a capire come questo rappresentasse un attacco al sistema di welfare per tutti. Nel rifiutarsi di porre la questione del free labour solo in termini di precarietà e mancato reddito, queste pratiche di ribellione tematizzano la contraddizione tra la libertà promessa 47 dal free labour e il lavoro. Forse proprio a causa della tensione tra arte intesa come rifiuto del lavoro e arte come professione, le esperienze di lotta in questo ambito hanno spinto molto più di altre sull’urgenza di alzare la posta in gioco, di ribellarsi non solo alle condizioni contrattuali ma al lavoro stesso. La scommessa che si nasconde nell’affermazione che l’arte non è proprio un lavoro è saper immaginare la potenza delle pratiche, non solo artistiche, ma anche di cura, di cooperazione e d’invenzione, una volta liberate dalla scarsità artificiale e dall’ansia esistenziale che, nella logica lavorativa, le sfigurano. Del 5/11/2014, pag. 13 La faticosa crescita della musica dal basso Indie. In due documentari usciti nelle ultime settimane lo stato di salute della scena indipendente in tempi di crisi Marco De Vidi Nel giro di poche settimane sono usciti due documentari che con un approccio schietto e diretto cercano di restituirci un ritratto della musica indipendente in Italia, di quell’underground che cerca di diventare grande a suon di concerti e chilometri percorsi. Si tratta di due piccole produzioni, anch’esse indipendenti, realizzate sfruttando al meglio i pochi mezzi a disposizione – ed in questo del tutto coerenti con quel sottobosco musicale raccontato «dal basso», con cui condividono autenticità e passione. I due film sono tra loro complementari per come raccontano le vicissitudini di bands e musicisti. Conquiste, opera collettiva di quattro giovani autori (Diego Zicchetti, Enrico Guidi, Francesca Magnoni e Matteo Munaretto), parte dal microcosmo della Romagna, descrivendo la «scena» di un territorio che ben rappresenta le dinamiche che caratterizzano l’ambiente musicale in ogni provincia italiana. Semitoni: non è un intervallo si concentra invece su tre gruppi differenti per genere e area geografica di provenienza, ma molto simili nell’approccio. I due registi Michele Ricchetti e Shapor Ebrahimi hanno deciso di seguire alcune realtà musicali ritenute dei validi esempi, senza voler dare una visione complessiva del mercato della musica ma focalizzandosi sul punto di vista di Fuzz Orchestra, His Clancyness e Eels on Heels. In Conquiste si viaggia lungo tutta la «costa est» dove, nei piccoli paesini dell’entroterra o nelle località affollate di discoteche della Riviera, suonare diventa il modo per creare qualcosa di unico e bello. Sono molte le comparse musicali nel film, dai Wolther goes stranger al cantautore Havah, dai Fast Animals and Slow Kids a Brace, autore di canzoni coinvolgenti e surreali, ma anche fondatore dell’etichetta Tafuzzi e animatore di un piccolo festival ormai divenuto culto. Ci sono soprattutto i Cosmetic, di cui seguiamo le vicende fin dagli esordi: è la storia di una band formatasi tra i corridoi di scuola, di adolescenti ora adulti che con costanza e dedizione sono riusciti ad arrivare sui più importanti palchi italiani. Ora fanno parte della Tempesta, etichetta indie tra le più conosciute (creatura dei Tre Allegri Ragazzi Morti, anch’essi presenti nel doc), esperimento certo da apprezzare: un collettivo di artisti che si autogestiscono, in collaborazione continua tra di loro e che cura in modo maniacale ogni singola uscita. Un’attenzione totale, soprattutto, alle esigenze dei musicisti. E questo è un fenomeno che in Italia sta diventando ormai rilevante: i musicisti che per sbarcare il lunario imparano a occuparsi di ogni aspetto del fare musica, dall’organizzazione di tour, alla comunicazione, alla promozione. È possibile dunque vivere di musica? Dipende. Semitoni cerca di ottenere qualche risposta da alcuni tra i gruppi più interessanti oggi in Italia. I giovanissimi Eels on Heels, che dalla piccola Trani diventano un gruppo sempre più apprezzato oltre confine per il loro 48 intenso electronoise, con passaggi a Bbc Radio e un produttore internazionale come James Aparicio, collaboratore dei Liars. Eppure i tre sono precari, come molti coetanei costretti a fare diversi lavori e che alla musica dedicano i ritagli di tempo. Jonathan Clancy, in arte His Clancyness , da anni propone un folk-rock originale che lo ha portato a suonare in tutto il mondo. E per quanto la musica sia centrale, è sempre stata affiancata dalla necessità di altro, per cui Jonathan si è dedicato per anni al lavoro in radio a Bologna, oltre che all’organizzazione del festival Handmade di Guastalla, un piccolo gioiello. I Fuzz Orchestra sono invece uno dei gruppi più che in Italia macina più chilometri, arrivando a suonare dappertutto. Si tratta di una band che propone un heavy rock duro e coltissimo, zeppo di citazioni da film degli anni ’60 e ’70. Suonare a cachet basso (perché altrimenti non c’è spazio) si può, ma implica fare numerosissime date, guidare per ore ogni giorno, esibirsi e ripartire. Più si suona, più diventa possibile pagare le bollette e arrivare alla fine del mese. Anche queste sono conquiste. del 05/11/14, pag. 48 Al via il servizio in abbonamento Kindle Unlimited di Amazon: 15 mila i titoli nella nostra lingua, pochissimi i bestseller. I grandi editori: “Ecco perché diciamo no” I libri in streaming arrivano in Italia ma i big disertano STEFANIA PARMEGGIANI IL LIBRO non è più lo stesso. Da ieri anche in Italia si può leggere un romanzo senza comprarlo e senza andare in biblioteca. Lo si può affittare, come un album musicale o una serie televisiva, abbonandosi a Kindle Unlimited, la piattaforma di Amazon che a luglio è stata lanciata in America e dopo poco in Gran Bretagna e Germania. Da settimane si aspettava il debutto italiano. Ieri è avvenuto, in contemporanea con la Spagna: «Lettura illimitata a euro 9,99 al mese», dice lo slogan che invita a provare il servizio gratuitamente per un mese. Il lettore può scegliere tutto ciò che vuole da un catalogo di 700mila titoli, di cui 15mila in italiano, scaricandone fino a dieci per volta sui dispositivi Kindle ma anche su iPhone, iPad, smartphone e tablet Android, pc e Mac. Solo che si deve accontentare: assenti o quasi le novità, pochissimi i bestseller. Gli editori italiani, salvo rare eccezioni, hanno deciso di aspettare: non sono convinti che il modello Spotify si possa applicare all’editoria. «Non si possono appiattire i libri, metterli sul mercato tutti allo stesso prezzo, indipendentemente dalla qualità e dal valore ». Stefano Mauri, numero uno del gruppo editoriale Gems, non è contento dell’ultima mossa di Jeff Bezos. Non gli piace il modello unico, un t anto al chilo, applicato alla letteratura: «Un conto è Pavarotti, un conto chi canta sotto la doccia. Il primo è frutto di molta fatica e di una durissima selezione naturale». Come a dire: ben venga lo streaming per gli autori fai da te, che si autopubblicano e cercano una vetrina, ma per gli altri meglio i tradizionali canali di vendita. Eppure tra i titoli in vetrina su Kindle Unlimited vi è la saga di Harry Potter, pubblicata da Salani che è uno dei marchi della sua galassia editoriale: «È un accordo a monte preso dalla J. K. Rowling per tutto il mercato internazionale », spiega lui. Anche Riccardo Cavallero, direttore generale libri trade del gruppo Mondadori, chiude la porta in faccia ad Amazon, facendo una scelta identica a quella che in America ha spinto 49 le Big Five, cioè le cinque più importanti case editrici, a rifiutare l’affitto dei propri libri: «Non ci è sembrato un progetto conforme alla nostra strategia commerciale. Non siamo entrati adesso e non entreremo in futuro». Possibile che si possa rifiutare Amazon? E anche se in Italia gli editori riuscissero a fare fronte comune contro Bezos, la lettura in streaming si può fermare? Nel mondo ci sono altre piattaforme simili, ad esempio l’americana Scribd che ha strappato un actattica: cordo ad Harper Collins, vanta un catalogo di 400mila libri e ha un sito con 80 milioni di visite mensili. Oppure Oyster che offre i volumi di sei dei dieci più grandi publisher americani, tra cui Simon& Schuster. «Per ora le nostre priorità sono altre — sostiene Cavallero — se non riusciamo ad equiparare l’Iva degli ebook a quella della carta, il mercato digitale sarà definitivamente affossato, streaming o non streaming». Più prudenti Feltrinelli, che resta alla finestra in attesa di conoscere l’impatto di Kindle Unlimited sui lettori digitali, e Rcs. Il direttore generale Massimo Turchetta è possibilista: «Guardiamo con grande curiosità a questo nuovo modello di business che osserviamo con interesse già dall’esperienza americana ». Ma per ora niente: i suoi libri sono esclusi dalla lettura illimitata. Dietro la prudenza potrebbe esserci una valutazione alcuni editori starebbero pensando a delle piattaforme simili da allestire in casa propria. Per ora lo hanno fatto con Bookstreams ventinove piccoli editori, tra cui Nottetempo e Nutrimenti. E Laterza, che ha lanciato sul mercato Lea, piattaforma digitale che mette a disposizione dell’utente 500 libri. «Non è solo un luogo dove leggere — spiega Giuseppe Laterza — ma un club dove fruire di contenuti aggiuntivi, interagire con gli autori, riconoscersi nell’identità della nostra casa editrice». Dato l’investimento in proprio, ovviamente non ha aderito a Kindle Unlimited. Tra gli editori che lo hanno fatto c’è invece Elido Fazi. «Il mio fatturato dipende per il 30% dagli ebook. È una quota molto alta, ovvio che sono interessato a nuove piattaforme e servizi». La sua è stata una scelta calcolata: «Amazon mi ha fatto un offerta per i singoli libri e io ho valutato quali di questi mi conveniva dare in abbonamento per un anno, e quali continuare a vendere solo nella forma tradizionale». Alla fine ha scelto di mettere su Kindle Unlimited quattrocento volumi tra cui un capolavoro come Stoner di John Edward Williams. Anche Newton Compton ha aderito alla piattaforma, ma con cautela: «Abbiamo un catalogo di tremila titoli — dice l’editore Raffaello Avanzini — e ad Amazon abbiamo dato non più di 180 libri. Molti di questi sono liberi dai diritti, gli altri sono o i primi romanzi di una saga o titoli che possono fare da richiamo per un autore». Non crede che l’abbonamento possa sostituir- si alle vendite: «Parliamoci chiaro: quanti libri si possono leggere in un mese? Il paragone con Spotify o Netflix non regge». Ma se gli editori italiani hanno rifiutato o accettato con poco entusiasmo Kindle Unlimited, come ha fatto Amazon a debuttare sul mercato italiano con quindicimila titoli? «Con il self publishing », sostiene ancora Avanzini. Malgrado lo scetticismo degli editori italiani, Amazon sottolinea tutti i vantaggi per l’utente. «D’ora in poi i clienti italiani potranno esplorare nuovi autori, libri e generi — afferma Jorrit Van der Meulen, vice presidente Kindle Europa — Kindle Unlimited offre ai nostri clienti un modo semplice e conveniente per scoprire migliaia di libri, incluse centinaia di novità, apprezzare gli autori in lingua originale e godersi incontri inaspettati con nuove storie e personaggi». I lettori possono fare zapping tra testi simili, iniziare a leggere e abbandonare dopo poche pagine ciò che non piace, accedere a una biblioteca sterminata in altre lingue, sperimentare generi a cui non si erano mai avvicinati. E come per la musica, come per le serie televisive, potranno evitare di comprare i libri. Purché li scelgano tra quelli in catalogo. 50 del 05/11/14, pag. 1/25 “La scienza è donna, così guiderò il Cern” Signora delle particelle Il sogno di ballare alla Scala e l’amore per il pianoforte «Esploro l’infinita bellezza della musica della scienza» «Sognavo di diventare una ballerina del teatro Bolshoi o della Scala. Mi attirava danzare, disegnare figure nell’aria, ma ero anche una bimba curiosa, cercavo mondi nella fantasia. E così arrivai alla scienza». Fabiola Gianotti, protagonista della scoperta del bosone di Higgs, la famosa «particella di Dio», ha appena ricevuto la notizia della nomina a direttore generale del Cern di Ginevra. «È capitato tutto all’improvviso e la giornata è diventata frenetica». Ma la voce è sempre calda, le parole veloci: «Avrò molto lavoro da fare», dice, come se dovesse affrontare uno dei tanti normali compiti che già affollano la sua agenda quotidiana. Il Cern, il laboratorio europeo di ricerca nucleare, è oggi il luogo più importante al mondo per indagare la natura e, grazie al super acceleratore Large Hadron Collider, per volare in quel nuovo mondo inseguito da bambina. «Studiavo e leggevo la biografia di Marie Curie e la sua passione, la sua dedizione mi hanno contagiato portandomi a studiare fisica». Da allora ha dedicato la vita alla ricerca. Fabiola Gianotti, 52 anni, romana d’origine, si è formata all’Università Statale di Milano e vent’anni fa, scienziata dell’Istituto nazionale di fisica nucleare, è entrata al Cern studiando alcune parti del superacceleratore con il quale avrebbe più tardi lavorato. Quando guidava l’esperimento Atlas era a capo di tremila ricercatori di ogni nazionalità. «La fisica al Cern ti porta a vivere in una dimensione umana straordinaria senza differenze di sesso, età, nazionalità. Qui ci si misura con le capacità che si è in grado di esprimere e per certi aspetti potrei dire che al Cern la scienza è donna, perché ognuna di noi gode delle stesse opportunità, senza timori, in un confronto di cultura e valori individuali che forse non ha pari altrove. Bisogna solo credere e vivere fino in fondo ciò che abbiamo scelto». E con questa consapevolezza guarda con entusiasmo al futuro. «So di avere davanti prove difficili da affrontare, dovrò compiere scelte ardue, ma sogno di mantenere il Cern al vertice dell’eccellenza scientifica mondiale. La fisica fornisce basi della conoscenza che possono trasformarsi in tecnologie preziose. Chi pensa che la fisica quantistica sia presente nelle telecomunicazioni per codificarle, ad esempio, oppure che nel Gps ci sia l’applicazione della teoria della relatività di Einstein? Eppure è così. Lo stesso Web è nato al Cern». Quando racconta le sue ricerche, Fabiola usa con disinvoltura la parola «bellezza» per comunicare il fascino delle dimensioni che esplora con la mente. «La nuova fisica è un giardino incantato», spiega facendo scivolare le parole verso le altre passioni che l’accompagnano. Ha un unico rammarico: la sfida di cui è stata protagonista l’ha allontanata un po’ dalla musica, dall’amato pianoforte. «Le note di Schubert, il mio autore preferito, mi riempivano l’animo. Ora il mio tempo è tutto nella musica della nuova fisica». «Non so se riuscirò a eguagliare i grandi italiani che mi hanno preceduto alla guida del Cern: Edoardo Amaldi, che ne è stato uno dei fondatori; Carlo Rubbia, che qui ha conquistato il Nobel; Luciano Maiani, che ha dato il via alla costruzione del nuovo acceleratore Lhc. Avverto la grande responsabilità del mio compito, il prestigio che l’accompagna, ma non sono preoccupata e sono cosciente della modestia con la quale devo guardare al mio impegno. Qui si può far progredire la scienza, ma il Cern ha anche 51 valore come luogo di educazione, e come laboratorio di straordinaria interazione sociale nella quale il concetto di pace è alla base dello studio, della convivenza e dell’esplorazione». Fabiola Gianotti ha conquistato la copertina del settimanale americano Time come donna dell’anno, la rivista Forbes l’ha inclusa tra le cento donne più influenti del mondo, il suo nome è di prestigio in tanti comitati internazionali, e numerosi sono i riconoscimenti attribuiti al suo lavoro. Lei sorride e accompagna le parole verso l’amore per la fisica ricordando con orgoglio di appartenere a una preziosa tradizione italiana che con Enrico Fermi ha avuto il suo caposcuola. Giovanni Caprara 52 ECONOMIA E LAVORO del 05/11/14, pag. 2 Ue: Italia peggio della Grecia recessione e debito record Scontro Renzi-Juncker Il presidente della Commissione: “Non guido banda di burocrati” La replica: “E io non vengo a Bruxelles col cappello in mano” ROBERTO PETRINI ROMA . Italia maglia nera d’Europa, in un Continente che segna drammaticamente il passo. Le previsioni autunnali di Bruxelles confermano che l’economia arranca. L’intera Eurozona archivierà quest’anno con una crescita del Pil dello 0,8 con un taglio di quattro decimali rispetto alle stime della primavera scorsa. La revisione al ribasso colpirà anche il 2015 quando la crescita dell’area che aderisce all’euro sarà limitata all’1,1 per cento con una caduta di più di mezzo punto rispetto a quanto ci si aspettava nel maggio scorso. Anche la Germania rivista al ribasso: il prossimo anno crescerà solo dell’1,1 per cento. Al debutto come presidente della Commissione Jean Claude Juncker non rinuncia alla polemica: «Non sono a capo di una banda di burocrati, se così fosse l’Italia sarebbe stata trattata in modo completamente diverso», manda a dire a Renzi che nei giorni scorsi aveva attaccato le tecnocrazie comunitarie. Risponde il premier dai microfoni di Ballarò: «Non vado in Europa con il cappello in mano, non prendo lezioni». E il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, commenta le stime Ue: «La recessione non è finita, la riduzione del debito è una sfida ineludibile ma si vince solo crescendo in modo stabile». La ripresa europea, iniziata a metà del 2013, è definita «fragile» e «lenta», la fiducia «più bassa che in primavera» e si sottolinea che sulle previsioni rimangono «rischi di una revisione negativa ». Tensioni geopolitiche, fragilità mercati finanziari e mancate riforme strutturali pesano sulla situazione economica. Debutto con giudizi mesti da parte dei protagonisti dei dossier economici della Commissione al loro debutto: «La situazione non sta migliorando con sufficiente rapidità», ha sentenziato Jyrki Katainen, ora vicepresidente. Il quadro negativo resta un alibi piuttosto debole per l’Italia che esce dall’ «autumn forecast » malconcia. La crescita con cui chiude l’anno è del - 0,4% (governo - 0,3), un punto in meno rispetto a quanto la stessa Commissione attribuiva al nostro paese in primavera. Scenario assai magro anche il prossimo anno: +0,6 (la metà esatta della stima di primavera) ma lo stesso livello sul quale conta il governo. Solo Cipro (+0,4) farà peggio di noi il prossimo anno, mentre la Finlandia ci eguaglierà al +0,6% di crescita del Pil e la Grecia, dopo la cura della Troika e da una base di partenza assai bassa, crescerà con il 2,9% (anche se la disoccupazione è al 25%). L’exploit del debito pubblico italiano, il secondo dell’Eurozona dopo la Grecia (168,8%), conferma che oltre alla situazione economica anche quella finanziaria preoccupa: nel 2015 raggiungeremo quota 133,8 nonostante le privatizzazioni. Solo la variabile cruciale del deficit- Pil resta entro i margini consentiti: il rafforzamento della manovra 2015 da 4,5 miliardi dei giorni scorsi chiesto da Bruxelles fa scendere il rapporto dal 2,9 previsto al 2,7%. “È essenziale per la crescita che la legge di Stabilità - ha detto Padoan - mantenga 53 la sua compattezza»: dai «6 miliardi in tre anni di ammortizzatori sociali» al «meno 37% di Irap per le imprese». Riduzione contenuta per la pressione fiscale nel 2015. del 05/11/14, pag. 2 Ora torna lo spettro della procedura contro Roma a novembre un nuovo esame ANDREA BONANNI BRUXELLES . Più che uno schiaffo, quella che Jean-Claude Juncker ha dato a Matteo Renzi è stata una bacchettata sulle dita. Di quelle che davano i vecchi maestri, e che fanno male. « Ho detto a Matteo Renzi che non sono a capo di una gang di burocrati. Sono il presidente della Commissione europea, una istituzione politica, e mi attendo che i primi ministri rispettino questa istituzione». Appena arrivato alla testa del governo europeo, Juncker sta facendo passare un messaggio molto chiaro: l’epoca del tremebondo Barroso, servo sciocco di tutti i potenti di passaggio, è finita. Il suo primo gesto come presidente della Commissione è stato di andare a Francoforte per presentare un libro del suo maestro Helmut Kohl, in cui il padre della riunificazione tedesca critica la Merkel ad alzo zero, perfino per il suo modo di stare a tavola. Il secondo è una lezione di etichetta politica che ieri ha impartito, a freddo, incontrando i capigruppo del Parlamento europeo, ai due più giovani leader europei: Renzi e Cameron, colpevoli di aver fatto dichiarazioni alla stampa violentemente critiche nei confronti delle istituzioni comunitarie. Nel caso di Renzi, poi, i suoi attacchi contro la «burocrazia di Bruxelles» fatti arrivando al vertice della settimana scorsa erano ancora più fuori luogo in quanto l’Italia, fino a dicembre, detiene la presidenza di turno dell’Unione europea. E dunque quando il premier italiano parla lo fa non solo come leader politico nazionale ma con una veste istituzionale che gli dovrebbe suggerire maggiore misura. Naturalmente non è che Juncker, vecchia volpe della politica, si illuda di far cambiare l’atteggiamento di due giovani volpi come Renzi o di Cameron. Sa bene che i due parlano a Bruxelles per farsi ascoltare a Roma e a Londra da opinioni pubbliche nazionali sempre più insofferenti verso l’Europa. E non si faranno certo intimidire da una correzione per quanto giustificata. Non è un caso che ieri Renzi, con un ardito rovesciamento dialettico, abbia risposto a Juncker via twitter: «Per l’Italia, la sua storia, il suo futuro chiedo rispetto. Anzi, pretendo il rispetto che il Paese merita». In realtà sia Renzi sia Juncker hanno lo stesso problema: quello di ristabilire il proprio status in Europa. L’uno come leader di un Paese che, fin dai tempi di Berlusconi, viene guardato con diffidenza e con sufficienza. L’altro come capo di una istituzione che il suo predecessore aveva trasformato in scendiletto dei governi. Lo scontro era dunque inevitabile. E non è stato il primo. Basta ricordare la lettera con cui Renzi, ignorando platealmente le richieste di Juncker, ha candidato la Mogherini al posto di Alto rappresentante per la politica estera della Ue rifiutandosi di fornire un nome e di lasciare al presidente il compito di definire il portafoglio. Né, verosimilmente, sarà l’ultimo. E infatti il presidente della Commissione, che è uomo da non sottovalutare, condisce la sua bacchettata con quella che suona in realtà come una sottile minaccia. «Se avessimo dato retta solo ai burocrati, il bilancio italiano sarebbe stato trattato in ben altra maniera », ha chiosato ieri in Parlamento, lasciando intendere che la mancata bocciatura preventiva 54 della Finanziaria è frutto di una mediazione politica e non dell’applicazione rigida delle regole europee. Questo sarà, non a caso, il prossimo terreno di confronto tra Roma e Bruxelles. La mancata bocciatura, infatti, non significa automaticamente promozione. La Commissione deve pronunciarsi sulle leggi di bilancio dei vari Paesi entro novembre. E ieri il nuovo esecutivo ha presentato le previsioni economiche d’autunno, che all’Italia nel 2015 assegnano un debito record al 133,8 per cento del Pil e un deficit strutturale di bilancio pari allo 0,9 per cento, cioè ancora lontano dal pareggio che sarebbe necessario per far calare il debito. Che cosa significano queste cifre, viste da Bruxelles? L’Italia, teoricamente è sottoposta ad un doppio vincolo di bilancio: da una parte dovrebbe ridurre il deficit strutturale almeno dello 0,5 per cento ogni anno; dall’altra, per far calare il debito, dovrebbe tagliare il fabbisogno anche di più, per una cifra variabile tra lo 0,7 e lo 0,9 per cento. Per quest’anno, essendo ancora in recessione, potrebbe evitare di essere messa sotto procedura di infrazione perché scatta quello che in gergo comunitario è chiamato il «waiver» (sospensione) delle norme del Patto di Stabilità. Ma l’anno prossimo le previsioni ci assegnano una sia pur debole crescita dello 0,6 per cento. E dunque, se la Commissione applicasse alla lettera le norme europee, potrebbe chiederci una significativa manovra correttiva, ben superiore a quello 0,2 per cento che ha già ottenuto a fine ottobre. Oppure potrebbe decidere di aprire una procedura per debito eccessivo che ci metterebbe automaticamente nel banco dei sorvegliati speciali. La decisione, per ora, resta in sospeso e verrà presa dal collegio dei commissari. La frasetta pronunciata ieri da Juncker sta lì a ricordare a Renzi che, per il momento, il coltello dalla parte del manico lo tiene Bruxelles. del 05/11/14, pag. 4 Padoan: manovra, niente assalti Sanità a rischio per le Regioni Il ministro: la pressione fiscale salirà al 43,6%, 6 miliardi per la Cig ROMA Ci sarà una «fase di stagnazione anche nel secondo semestre 2014, ma a settembre c’è stato un significativo incremento dell’occupazione». Pier Carlo Padoan, ministro dell’Economia, fa il punto sulla legge di Stabilità intervenendo in audizione di fronte alla Commissione bilancio di Montecitorio, dopo che sindacati e enti locali hanno duramente criticato il provvedimento: le Regioni, in particolare, temono «tagli nella sanità». La manovra, ammonisce il ministro, deve mantenere «la sua compattezza e unitarietà». I consumi privati hanno in parte risposto alle misure del governo — spiega Padoan — ma c’è ancora incertezza per gli investimenti». Comunque la riduzione del rapporto tra debito e Pil «rimane una sfida ineludibile per l’Italia, che possiamo vincere solo tornando a crescere in modo sostenuto e stabile». Tra le note positive, «il sistema bancario italiano è solido e pronto a sostenere la ripresa». Con la legge di Stabilità, la pressione fiscale «mostra una riduzione contenuta nel 2015 — precisa Padoan — passando dal 43,3% del 2014 al 43,2%, e si stabilizza al 43,6% in ciascuno degli anni 2016 e 2017». Un aumento «solo dello 0,3%». «Solo?!», ha subito twittato il capogruppo di Forza Italia alla Camera, Renato Brunetta. 55 Il ministro ha difeso anche le misure su Tfr e fondi pensione: l’aliquota sui rendimenti «resta decisamente inferiore» a quella sulle rendite finanziarie ( 26%). E ha sottolineato che per gli ammortizzatori sociali ci sono 6 miliardi in tre anni. Le critiche più forti alla manovra arrivano da Regioni e Comuni. Piero Fassino, presidente Anci, parla di «un taglio per 3,7 miliardi». Ma ci sarebbe uno spiraglio: «Il governo è disponibile a aumentare di 500 milioni il fondo crediti di difficile esigibilità (oggi pari a 1 miliardo e mezzo)», annuncia lo stesso Fassino. E ci sarebbe pure la disponibilità ad accettare che gli oneri di urbanizzazione siano utilizzati anche per il 2015 sulla spesa corrente. Il presidente della Conferenza delle Regioni, Sergio Chiamparino, avverte che «è impossibile non toccare anche la sanità, l’80% della spesa delle Regioni». Un giudizio complessivamente positivo sulla manovra viene invece dall’Associazione bancaria italiana (Abi), ma il direttore generale, Giovanni Sabatini, mette in guardia sulle misure di Tfr in busta paga. Stesso allarme da parte dell’Associazione costruttori (Ance) mentre Confcommercio stima che l’eventuale incremento di Iva e accise porterà una crescita dei prezzi del 2,5%. Dopo le proteste di ieri davanti al Mef e a Palazzo Chigi dei rappresentanti delle associazioni vicine ai malati di Sla e ai disabili, su input del premier Matteo Renzi, il governo ha deciso di aumentare da 250 a 400 milioni il fondo per i cittadini non autosufficienti (che era stato tagliato di 100 milioni). Intanto il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio, nel presentare l’accordo di partenariato 20142020 tra la Ue e l’Italia (del valore di 44 miliardi), annuncia che «è operativa l’Agenzia per la Coesione territoriale», istituita per il monitoraggio sistematico degli interventi finanziati con fondi europei. Poi Delrio avverte: «Chi non spende bene i fondi pubblici viene sostituito: a rischio sono 7-8 miliardi». Sempre ieri si è svolto a Palazzo Chigi un vertice per mettere a punto le proposte italiane per il piano di investimenti da 300 miliardi annunciato dal presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker. Francesco Di Frischia del 05/11/14, pag. 10 Con il Tfr in busta paga la pensione integrativa subirà per sempre una sforbiciata del 15% VALENTINA CONTE ROMA . Tre mensilità in più nel prossimo triennio. E fino al 15% di pensione integrativa in meno, per sempre. Uno scambio equo e ragionevole? Lo decideranno i milioni di italiani che grazie alla legge di Stabilità nel 2015 potranno dirottare il Tfr in busta paga, da marzo sino a giugno 2018. Se è vero che la scelta tenterà soprattutto le famiglie a basso reddito, bisognose di credito, in bolletta e dunque non avvezze a risparmiare (il 34% di questo segmento, secondo quanto calcolato ieri dall’Ufficio parlamentare di bilancio), è pur vero che tutti gli altri lavoratori potrebbero essere più sensibili alle sirene di Bankitalia. Laddove raccomanda al governo una valenza transitoria della misura poiché l’adesione soprattutto dei meno abbienti e dei giovani «aggrava il rischio che questi abbiano in futuro pensioni non adeguate». Il pericolo in effetti c’è. Ma il premier Renzi, intervistato ieri sera da Ballarò 56 , ha ribattuto così: «Le pensioni dei giovani sono a rischio perché non lavorano, e non per il Tfr. I cittadini saranno liberi di decidere sul Tfr, non credo cambieremo la norma». Ognuno poi si farà i suoi conti, ci mancherebbe. Ma le giovani generazioni, i “milleuristi” con carriere discontinue, oramai immersi nel contributivo puro, se non vogliono assottigliare ancora di più il magro assegno futuro devono pensarci bene. A guardare una prima simulazione di Progetica, ad esempio, tre lavoratori che oggi hanno 30, 35 e 40 anni e guadagnano rispettivamente mille, 1.500 e 2 mila euro netti al mese perderebbero tra l’8 e il 15% di integrazione alla pensione, se optassero per il Tfr subito in tasca. A fronte di tre mensilità extra (la quota di liquidazione annuale è grossomodo pari a uno stipendio), dunque tre quattordicesime, lascerebbero sul campo una fetta di quiescenza, maturabile grazie all’investimento di quella stessa cifra nei fondi pensione (oggi tra il 50 e il 60% dei dipendenti mette il Tfr nei fondi). Soldi subito per tre anni, ma vitalizi striminziti? Decideranno i lavoratori. Tenendo conto, tra l’altro, che il Tfr subito viene tassato di più (ad aliquota marginale Irpef, quindi fino al 43%, anziché come reddito separato tra il 20 e il 23%). Con il duplice e ridicolo rischio di perdere gli altri bonus (gli 80 euro o i vantaggi legati all’Isee), sebbene il ministro Padoan abbia scongiurato il cumulo dei redditi. Comunque la si pensi, alla fine si avrà un bottino più magro: meno patrimonio, oltre che pensioni più basse. A proposito di pensioni, in attesa che l’Inps ora guidata da Tiziano Treu spedisca a casa la mitica busta arancione (l’estratto conto che simula i futuri assegni pensionistici), la prospettiva per i giovani precari, ex precari, intermittenti è raccapricciante. Sempre Progetica, società indipendente di consulenza in educazione e pianificazione finanziaria, calcola che se l’economia va male (Pil piatto a zero) e la carriera è stop and go, un trentenne che oggi prende mille euro di stipendio ne intascherà la metà di pensione. Se lavorasse con contratti degni e continuati e il Pil dei prossimi anni fosse in media dell’1,5% (il Pil influenza l’entità della pensione), arriverebbe a quasi 900 euro. Tenuto conto poi che l’aspettativa di vita allontana l’età dell’uscita, quel trentenne potrebbe trovarsi a 70 anni alla mensa pubblica. Va considerato anche questo nell’opzione del Tfr anticipato. Proprio perché spiega Andrea Carbone, partner di Progetica, mai come oggi «la decisione di integrare l’assegno pensionistico pubblico attraverso la previdenza complementare diventa la scelta se “subire” o “gestire” anche altri rischi, come quello che l’economia italiana continui a crescere poco o niente e che la propria carriera lavorativa possa essere discontinua». Peccato che il governo abbia appena alzato le tasse proprio sui fondi pensione. Del 5/11/2014, pag. 4 LAVORO Cgil: “Brutali contro Renzi” Jobs Act. Danilo Barbi, vice di Camusso: «Risponderemo a chi attacca l’articolo 18». Il sindacato ha una finanziaria alternativa: «Patrimoniale sui ricchi per 10 miliardi: sarebbero 740 mila nuovi posti» Antonio Sciotto Si riscalda sempre di più lo scontro sul Jobs Act, adesso che il testo è in procinto di essere discusso alla Camera. Ieri nel corso di un’audizione sulla legge di stabilità, il segretario confederale Cgil Danilo Barbi (componente dell’esecutivo guidato da Susanna Camusso) è stato netto: «Noi non consentiremo così facilmente di modificare l’articolo 18 57 liberando un canale per i licenziamenti illegittimi come ha provato a fare Berlusconi – ha dichiarato – Ci opporremo brutalmente a questo tentativo». Subito dopo il segretario ha precisato: «Ci opporremo con la stessa brutalità di chi ha cambiato l’agenda politica introducendo modifiche all’articolo 18 mai proposte nelle dichiarazioni programmatiche nè nelle campagne elettorali». Ad arroventare il linguaggio, a fine settembre, era stato lo stesso presidente del consiglio Matteo Renzi, che dalla sua missione negli Usa aveva parlato della necessità di un «cambiamento violento» per l’Italia. La Cgil e il premier restano per il momento su due opposte barricate: la prima impegnata nel percorso di mobilitazioni che oggi vede schierati i pensionati e sabato i lavoratori del pubblico impiego (entrambe le iniziative sono unitarie, con Cisl e Uil), mentre il 14 e il 21 la Fiom aprirà la stagione degli scioperi generali. Dall’altro lato, Renzi gioca le sue carte: ieri l’apparizione a Ballarò, e subito dopo la riunione con la minoranza Pd per un possibile accordo su Jobs Act e articolo 18 che possa isolare il sindacato. Quanto alla legge di stabilità, Barbi ha spiegato che secondo la Cgil il governo «sta programmando il disastro sociale». La manovra «è inadeguata e insufficiente in termini di investimenti e politiche di sostegno alla crescita», spiega la Cgil. Servirebbe al contrario un «Piano per il lavoro»: quello che il sindacato ha già presentato da tempo, ma che non riesce a discutere con il governo, visto che qualsiasi tipo di concertazione, o anche solo di dialogo, è sparito del tutto dal panorama dell’Italia renziana. Il governo, prosegue Barbi, «scommette su una forte riduzione delle tasse alle imprese (taglio generalizzato dell’Irap sul costo del lavoro e sgravi contributivi per nuovi contratti a tempo indeterminato) e sulla svalutazione del lavoro (Jobs Act, come “collegato” alla legge di stabilità) sperando che, senza vincoli e con meno tutele, aumentino gli investimenti privati e, per questa via, l’occupazione». «Ma non succederà – è l’analisi della Cgil – perché il permanere di una crisi di domanda scoraggia le imprese». Anche gli incentivi direttamente legati alla stipula di nuovi contratti a tempo indeterminato realizzeranno, secondo il sindacato, «più stabilizzazioni e sostituzioni che nuovi occupati». Le politiche per le imprese e le misure fiscali per lo sviluppo, inoltre, «non sono adeguate e manca una vera politica industriale. In più sottendono una politica concettualmente antimeridionale, determinando un’ulteriore differenziale nella coesione del Paese». Ecco quindi la contro-finanziaria della Cgil, fatta di investimenti, valorizzazione del lavoro e dei servizi pubblici, tasse sulla ricchezza. Il sindacato ribadisce la necessità che per creare posti di lavoro si debbano coinvolgere, con uno speciale contributo, i milionari: il 5% delle famiglie più ricche del Paese, quelli che la crisi non l’hanno percepita lontanamente, neanche con il cannocchiale. Quei “poteri forti” che il buon Renzi potrebbe decidersi finalmente di scomodare. La Cgil propone «un piano straordinario per l’occupazione giovanile e femminile (appunto il Piano del lavoro, ndr), da finanziare attraverso un’imposta sulle grandi ricchezze finanziarie che con un gettito di circa 10 miliardi di euro l’anno potrebbe garantire oltre 740 mila nuovi posti di lavoro (pubblici e privati), aggiuntivi, in tre anni». E ancora, la Cgil chiede: «Una nuova politica industriale per l’innovazione, con il sostegno delle grandi imprese pubbliche nazionali e della Cassa depositi e prestiti; una forte riduzione del carico fiscale sui redditi da lavoro e da pensione, attraverso un piano di lotta per la riduzione strutturale dell’evasione fiscale e della corruzione, recuperando le risorse utili ad aumentare ed estendere il bonus Irpef». L’ultimo punto, sono quegli 80 euro che da tempo i sindacati (anche Cisl e Uil) vorrebbero fossero estesi a categorie come i pensionati e gli incapienti. Ma finora Renzi non li ha ascoltati. 58
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