RASSEGNA STAMPA

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mercoledì 5 novembre 2014
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Da Radio Vaticana del 05/11/14
Alla Carovana Internazionale Antimafie il
"Premio Falcone"
E’ uno dei principali riconoscimenti europei all’impegno civile: è il “Premio Falcone”,
istituito dal Consiglio d’Europa e dalla città di Strasburgo, che quest’anno vede premiata la
Carovana Internazionale Antimafia, promossa da Arci, Libera, e Avviso Pubblico. Sono
venti anni, dal 1994, a meno di due anni dalle stragi di Capaci e via D’Amelio, che
Carovana viaggia in giro prima per l’Italia e ora per l’Europa, soprattutto per tenere alta
l’attenzione sul fenomeno mafioso, per promuovere impegno sociale e progetti concreti. A
ricevere il Premio oggi a Strasburgo, è stato il coordinatore, Alessandro Cobianchi.
Francesca Sabatinelli gli ha chiesto quali sono stati in questi anni i successi di Carovana:
R. – Senz’altro, nei primi anni è stato proprio quello di andare incontro alle persone. La
Carovana nasce per questo: va in quei luoghi in cui non si riusciva a parlare né di mafia né
tantomeno di antimafia. Penso a Capaci, a Gela. Credo che questo sia stato il risultato
maggiore. Nel corso degli anni, Carovana ha avuto anche la capacità di mettere in
discussione alcuni luoghi comuni, come quello che le mafie fossero radicate soltanto nelle
regioni meridionali. Un altro importante risultato di questi anni è stato proprio la scelta
europea, la volontà delle organizzazioni che costituiscono Carovana, che sono Arci,
Libera, Avviso Pubblico, con il sostegno di Cgil, Cisl e Uil, di incontrare nuovi partner, di
non ragionare più soltanto sul nostro Paese, sull’Italia, ma di provare a confrontarsi con
altre organizzazioni, di altri Paesi, avendo soprattutto la possibilità di ragionare "dal
basso". Quello che a noi interessa è costruire una rete di associazioni che siano
impegnate direttamente contro lo mafie o comunque siano impegnate sui temi della
giustizia sociale, allo scopo poi di costruire un percorso che vada ben oltre naturalmente il
singolo viaggio di Carovana. Credo che Carovana un merito ce lo abbia: quello di mettersi
in discussione ogni anno e quindi di cercare nuove strade.
D. – Nel 2013, Carovana ha affrontato i costi dell’illegalità. Quest’anno, vi siete messi in
viaggio contro la tratta di esseri umani, che sappiamo essere uno dei grandi terreni fertili
per le organizzazioni criminali. Voi state compiendo un viaggio in tutta Europa, che vi
metterà a confronto con le varie realtà. Faccio degli esempi: lo sfruttamento nell’edilizia in
Francia, quello minorile in Romania, il settore turistico a Malta, lo sfruttamento del lavoro
domestico in Italia…
R. – Noi abbiamo lanciato un appello ai partner con cui lavoriamo, chiedendo di
focalizzare un punto, per non parlare tutti di tutto. E’ stato straordinario che alcuni Paesi,
come è accaduto proprio in Francia, ci segnalassero qualcosa che noi non ci
aspettavamo, come ad esempio lo sfruttamento del lavoro nell’edilizia. E’ stato anche
interessante creare questo collegamento fra ciò che ci hanno detto i nostri partner maltesi
e molti partner di Carovana italiana, che lamentavano la stessa difficoltà rispetto a un
tema, quello dello sfruttamento nel lavoro turistico. Alla fine avremo un quadro chiaro,
Paese per Paese, perché naturalmente siamo collegati anche a un progetto europeo che
prevede anche la realizzazione di un libro, in cui noi intendiamo presentare questi dati. Il
tema della Carovana si divide in due parti: quello del viaggio – che naturalmente è la parte
epidermica, quella cioè delle sensazioni, ciò che si coglie parlando con le persone – e poi
quello della vera e propria ricerca. Noi pensiamo di unire questi due punti. A noi interessa
anche ragionare su quali siano le ragioni che portano, Paese per Paese, alle condizioni di
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sfruttamento delle persone, con un dato che già abbiamo naturalmente e che è questo
famoso milione di persone che in Europa vive in condizioni di schiavitù.
D. – Voi siete tra gli osservatori privilegiati sul fenomeno delle mafie in Italia. Si sta
parlando, negli ultimi tempi, di un ritorno a quegli spaventosi gruppi di fuoco che ci
ricordiamo all’inizio degli anni Novanta. Dalla cosiddetta “mafia dei colletti bianchi”, che
non è certo meno pericolosa, sembrerebbe quasi che si sia tornati a una riorganizzazione
di stampo terroristico, se la vogliamo così definire. A voi risulta che vi sia un riarmo della
mafia?
R. – Sì, ed proprio questo uno dei problemi che abbiamo avuto e che probabilmente non
ha ingenerato la nostra vittoria totale nei confronti delle organizzazioni criminali, ossia
quello di pensare che le mafie siano in trasformazione tale da dimenticarsi la loro parte
antica, se così posso dire. Sì, è vero che esiste una “mafia dei colletti bianchi”, ma è
anche vero che la mafia resta profondamente radicata ancora ai territori, che mantiene
ancora un forte collegamento. Questo ci ha impedito di avere una lettura totale, perché
tutti convinti che si potesse parlare ormai di un nuovo, dimenticando – ripeto – che le
mafie si trasformano, sono nuove, ma sono anche vecchie. E poi naturalmente, rispetto
alla recrudescenza, forse abbiamo commesso il secondo errore – dai mezzi di
comunicazione agli operatori del settore, ai cittadini – e cioè pensare che le mafie quando
non sparano, non ci sono. Invece, in questi anni, si sono arricchite e hanno trovato sempre
nuovi canali su cui investire. La cosa che a noi preoccupa è che ci svegliamo soltanto
quanto c’è una recrudescenza della loro azione militare. Noi siamo convinti che in alcuni
momenti storici, come potrebbe essere questo, ci sia un tentativo di cambiare strategia.
Però, non crediamo che questo sia il punto: il punto fondamentale è quello di capire cosa
accade nei momenti in cui le mafie non fanno rumore. Sono i momenti probabilmente più
preoccupanti per la loro evoluzione e per il fatto che decidono davvero di aggredire
qualsiasi settore dell’economia, provocando poi morti in modo anche indiretto, non quelle
eclatanti che noi leggiamo o vediamo o che hanno caratterizzato un periodo della nostra
storia.
Link al servizio
http://it.radiovaticana.va/news/2014/11/04/alla_carovana_internazionale_antimafie_il_pre
mio_falcone_/1110130
Da Repubblica.it del 05/11/14
Caso Cucchi, Grasso: "Chi sa parli". Renzi:
"Lo Stato è chiaramente responsabile"
Le parole del presidente del Senato, ex procuratore nazionale antimafia,
che domani riceverà i familiari: "Solidarietà alle famiglie delle vittime". Il
pg valuta il ricorso e attende la relazione dei giudici della Corte
d'appello che hanno modificato la sentenza di primo grado, assolvendo
tutti gli imputati nel processo per la morte del ragazzo. Sabato
fiaccolata davanti al Csm a Roma
"Vorrei fare un appello. Ci sono dei rappresentanti delle Istituzioni che sono certamente
coinvolti in questo caso. Quindi, chi sa parli. Che si abbia il coraggio di assumersi le
proprie responsabilità, perché lo Stato non può sopportare una violenza impunita di questo
tipo". Sul caso di Stefano Cucchi, il geometra di 31 anni arrestato nell'ottobre del 2009 a
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Roma per droga e morto, una settimana dopo, all'ospedale Pertini interviene da Bari il
presidente del Senato, Pietro Grasso.
"Intanto è doverosa e giusta - ha aggiunto - la solidarietà alle famiglie delle vittime di
violenza. La violenza non può far parte della dignità di uno Stato civile, soprattutto quando
viene da rappresentanti delle istituzioni. Noi speriamo di continuare a cercare la verità,
nonostante ci siano state delle sentenze che non hanno saputo o potuto trovarla.
Pensiamo - ha concluso Grasso - che bisogna continuare su questa strada dando la
massima solidarietà ai familiari delle vittime".
E domani mattina, mercoledì 5 novembre, il presidente del Senato riceverà a Palazzo
Madama i familiari di Stefano Cucchi. Ad accompagnare la sorella Ilaria e i genitori del
ragazzo sarà il presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani Luigi Manconi
(Pd).
Intervistato da Massimo Giannini nel programma Ballarò, su Raitre, anche il premier ha
parlato del caso Cucchi: "E' una vicenda che a me fa molto male, lo Stato è chiaramente
responsabile - ha detto Matteo Renzi - . Quel ragazzo, poteva essere mio fratello visto che
ho più o meno l'età della sorella. Se fossi al bar potrei dire cosa penso di quella sentenza,
ma siccome sono il premier non posso entrare nel potere giudiziario. E' evidente che c'è
una responsabilità dello Stato, la partita non è chiusa e giudici valuteranno".
Il 31 ottobre scorso in Corte d'appello tutti gli imputati nel processo (sei medici, tre
infermieri e tre agenti penitenziari) erano stati assolti. I giudici avevano così modificato la
sentenza di primo grado in cui erano stati condannati per omicidio colposo cinque camici
bianchi, più una sesta per falso, assolvendo gli altri.
Cucchi, botta e risposta su twitter. "Grasso è di M5S". E lui: "Sempre stato per giustizia e
legalità"
La Procura generale. Ora la Procura Generale di Roma "valuterà la sussistenza di motivi"
per ricorrere in Cassazione ma solo "dopo aver letto le motivazioni" della sentenza di
assoluzione in appello degli imputati.
Come spiega il procuratore generale della Capitale, Luigi Ciampoli, "la Procura Generale
di Roma esaminerà, con la lettura delle sentenza, la motivazione che darà la Corte
d'assise di appello alla decisione di non accogliere le richieste di condanna degli imputati,
fatte con ampia e argomentata requisitoria dal Pg di udienza, valutandone la congruità, la
coerenza e la legittimità".
Solo in seguito "valuterà, di conseguenza - ha aggiunto Ciampoli - la sussistenza di motivi
di ricorso in Cassazione, dove - ha sottolineato - già pende altro ricorso, sempre
presentato dalla Procura Generale di Roma, contro un'altra sentenza relativa alla presunta
responsabilità del personale medico del carcere di Regina Coeli che diede assistenza a
Cucchi prima del trasferimento all'ospedale Pertini".
Ieri, uscendo dagli uffici del tribunale di piazzale Clodio dopo l'incontro con il procuratore
capo Giuseppe Pignatone, Ilaria Cucchi, sorella di Stefano aveva affermato: "Abbiamo
avuto assicurazione dal capo della procura di Roma che rileggerà tutti gli atti della
vicenda". "Con animo sereno e senza pregiudizio, né positivo é negativo, procederemo a
una rilettura complessiva degli atti dell'inchiesta, dal primo all'ultimo foglio, per le eventuali
posizioni che non sono state oggetto di processo. E all'esito di questo esame, una volta
conosciute le motivazioni della sentenza della corte d'assise di appello di Roma, faremo le
nostre valutazioni" aveva confermato Pignatone, che però, dopo un successivo incontro di
circa 40 minuti con i pm che hanno condotto l'inchiesta sulla morte di Cucchi, ha voluto
precisare: "I pm Vincenzo Barba e Maria Francesca Loy hanno svolto un lavoro egregio,
ho estrema fiducia in loro". Parole che avevano fatto nuovamente arrabbiare i familiari del
giovane, decisi in questi giorni a portare avanti la battaglia per ottenere verità e giustizia
sulla morte di Stefano.
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La fiaccolata. Intanto, dopo la reazione virale in Rete lanciata dalla campagna
#SonoStatoIo, a Roma è stata organizzata la prima manifestazione in piazza promossa
dalla famiglia Cucchi e dall'associazione Acad (contro gli abusi in divisa). Una fiaccolata
prevista per sabato 8 novembre alle 18.30 sotto al Consiglio superiore della magistratura
in piazza Indipendenza dal titolo "Accendiamo la verità. Mille candele per Stefano Cucchi".
"Stefano è stato ucciso dalle botte subite mentre era detenuto, dai medici che non lo
hanno aiutato, dai depistaggi per coprire i colpevoli - si legge nel duro comunicato che
lancia l'evento - C'è bisogno di luce per illuminare quei luoghi bui dove ogni giorno si
umiliano le esistenze e si
calpesta la democrazia. E dobbiamo accenderla tutti e tutte insieme. Contro le bugie,
contro l'impunità, contro la tortura. Perché non accada mai più" concludono i promotori che
hanno raccolto già molte adesioni tra i centri sociali, i comitati di lotta romani e le
associazioni come l'Arci Roma, A Sud o le Madri per Roma Città Aperta.
http://roma.repubblica.it/cronaca/2014/11/04/news/caso_cucchi_procura_di_roma_valuter
_ricorso_dopo_motivazioni_sentenza-99715128/
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ESTERI
del 05/11/14, pag. 15
Sanità, petrolio e immigrazione le scommesse
della destra in cerca di un nuovo leader
FEDERICO RAMPINI
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
NEW YORK
DOVE porteranno l’America e il mondo, questi repubblicani? Con Barack Obama più
debole che mai, il futuro della destra Usa riveste un’importanza crescente. Se dopo le
legislative di midterm dovessero azzeccare il candidato vincente per la Casa Bianca nel
2016, quali ne saranno le conseguenze? Il modo più concreto per anticipare che tipo di
America vogliono i repubblicani, è guardare la loro azione al Congresso negli ultimi anni.
Avendo alle spalle già quattro anni di maggioranza alla Camera (vinsero le midterm del
novembre 2010), hanno avuto un ruolo forte, non soltanto da opposizione di sua maestà.
I loro cavalli di battaglia sono chiari. Sul piano fiscale: mai aumentare le tasse, guai a
usarle come strumento per ridurre le diseguaglianze sociali. Il deficit di bilancio (che
peraltro si è assottigliato a vista d’occhio, grazie alla crescita: dall’11% di deficit Pil al
2,6%) va risanato esclusivamente tagliando le spese. Dunque no a nuovi piani
d’investimenti pubblici, che si tratti di rinnovamento delle infrastrutture o di fondi per la
scuola. Sull’ambiente: stop con le penalizzazioni dell’industria americana in nome della
lotta al cambiamento climatico, niente carbon tax, no agli ulteriori limiti sulle emissioni di
gas serra. Via libera invece al fracking, la nuova tecnologia per l’estrazione di shale gas e
petrolio nelle rocce: già parzialmente autorizzato da Obama, i repubblicani vogliono
cavalcare il boom petrolifero che sta dando all’America l’autosufficienza energetica (anche
se l’aumento dell’estrazione ha contribuito al crollo del prezzo del greggio mettendo in
difficoltà le stesse compagnie petrolifere che finanziano la destra).
Un dossier chiave è l’immigrazione. La destra ha accusato Obama di voler introdurre una
strisciante amnistia per i clandestini, o almeno per alcune categorie di giovani immigrati
senza regolare permesso di soggiorno. I repubblicani promettono pugno duro, aumento
delle deportazioni. Ci sono altri obiettivi più estremi. Gran parte del partito, soprattutto
quegli eletti che nelle primarie hanno avuto i consensi del Tea Party, si sono
solennemente impegnati ad abrogare la riforma sanitaria di Obama. Non sarà facile
superare il veto del presidente. Inoltre disfare una riforma come quella avrebbe
conseguenze incalcolabili, a cominciare dalla perdita di assistenza medica per qualche
decina di milioni di cittadini. Non mancano le correnti più legate alla destra religiosa che
promettono di rendere illegali non solo i matrimoni gay ma anche le interruzioni di
gravidanza. Alcuni di questi temi valoriali, tuttavia, sono di competenza dei singoli Stati
Usa e non del Congresso.
In politica estera, le voci dei falchi repubblicani hanno ripetutamente accusato di
debolezza Obama: in Ucraina di fronte a Vladimir Putin, in Siria e Iraq di fronte ai jihadisti,
in Iran sul dossier nucleare. Nei ranghi della destra c’è stata una spettacolare rivalutazione
dei “neoconservatori”, tutta l’armata di George W. Bush è stata rilanciata dalla Fox News e
dal Wall Street Journal (proprietà di Rupert Murdoch): da Dick Cheney e Donald Rumsfeld,
a John Bolton e Bill Kristol. Se ne può dedurre che la destra spingerà per un intervento
armato in piena regola, sul territorio conteso dallo Stato Islamico in Iraq e in Siria? Bisogna
tener conto però che la maggioranza dell’opinione pubblica non vuole un’altra guerra. E in
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seno al partito repubblicano ci sono correnti isolazioniste, ben rappresentate da Rand Paul
che predica un disimpegno americano dalle crisi internazionali.
Il pericolo più insidioso per i repubblicani è di sopravvalutare questo test elettorale. Non
bisogna dimenticare che alle elezioni di midterm e alle presidenziali votano due Americhe
molto diverse fra loro. Le legislative non mobilitano, la posta in gioco non è così netta e
appassionante come la scelta di un presidente. La partecipazione alle urne cala
soprattutto fra quelle categorie che hanno portato due volte alla vittoria Barack Obama: i
giovani, gli afroamericani, gli ispanici. Invece vanno a votare compatti i seguaci del Tea
Party, soprattutto i bianchi anziani; le “pantere grigie” che formano lo zoccolo duro della
destra hanno sempre mostrato una formidabile disciplina elettorale. In questa dinamica c’è
un rischio implicito per i repubblicani. Spostandosi sempre più a destra possono inimicarsi
ulteriormente quelle categorie che saranno decisive per conquistare la Casa Bianca nel
2016. La demografia conta. Gli Stati Uniti hanno una popolazione giovane e in aumento —
se paragonata con l’Europa — grazie soprattutto agli immigrati. Tutto ciò che Obama ha
detto e fatto sull’immigrazione, ha consolidato la sua “coalizione etnica”. Per questo la
vera battaglia per l’egemonia dentro il partito repubblicano comincia ora, e forse deve
prescindere dal risultato elettorale. Questa destra ha gestito le elezioni di midterm senza
un leader e senza una piattaforma chiara. Il leader teorico, secondo la tradizione
americana, sarebbe l’ultimo candidato presidenziale e cioè Mitt Romney. Una corrente
repubblicana lo vorrebbe ricandidare nel 2016, e lui è riapparso in molti comizi a fianco di
candidati locali. Ma su Romney si è incollata l’immagine dell’opportunista: moderato
quando governava il Massachusetts, ultraconservatore durante le primarie del 2012, ha
seminato diffidenza anche nella sua base. Rand Paul piace ai giovani, spinge per un
ritorno alla purezza antica, vuole una destra isolazionista, libertaria in modo maniacale: lui
ebbe comprensione per Edward Snowden contro il Grande Fratello dello spionaggio
digitale. Il complesso militar-industriale lo odia, ovviamente. La vera chance per i
rapubblicani è… Ronald Reagan. Per ritrovare la capacità di vincere la Casa Bianca,
occorre studiare quello che fu l’ultimo grande leader della destra. Più pragmatico di quanto
lo si ricordi, capace di aumentare spesa pubblica e tasse quando necessario. Meno falco
in politica estera della sua iconografia: ritirò i marines da Beirut dopo una strage. I
candidati per riportare in quell’alveo il partito repubblicano non mancano, da Jeb Bush a
Chris Christie. Fondamentale è stabilire un dialogo con le minoranze etniche. Ma contro
questi candidati moderati la minaccia peggiore può venire proprio dai loro compagni di
partito al Congresso. Se nei prossimi due anni il Congresso saprà solo dire no alle
iniziative di Obama, farà ostruzionismo fino alla paralisi, la rimonta democratica ha buone
possibilità di successo.
Del 5/11/2014, pag. 7
«In difesa di Kobane, laica multietnica e
senza Stato»
Guerra all'Isis. Nuovi raid aerei contro gli uomini di al Baghdadi
Chiara Cruciati
Fuori dal Policlinico di Diyarbakir alle 8 di mattina è già comparso un piccolo mercato
improvvisato. Qualcuno prepara tè e caffè, altri vendono patatine e dolciumi. Qualche ora
dopo il via vai di infermieri e medici si mescola ai piccoli commercianti che pranzano: un
tavolino e sopra il cibo portato dalle mogli e i figli. Difficile trovare qualcuno che parli
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inglese ma basta pronunciare la parola Kobane per ricevere una risposta immediata:
«Viva Kobane, viva Kobane!».
«Per comprendere cosa succede a Kobane, vanno rigettate le semplificazioni dei media –
spiega al manifesto Murad Akincilar, sindacalista e direttore dell’Istituto di Ricerca Politica
e Sociale di Diyarbakir – Si deve tornare all’ideologia del Pkk per capire perché oggi quella
città è un tale simbolo. Negli anni ’90 il Partito Kurdo dei Lavoratori ha lanciato un programma di liberazione rigettando allo stesso tempo l’ideologia dello Stato-nazione e il
legame tra autodeterminazione dei popoli e statalismo. È nato così un nuovo paradigma
fondato sulla creazione di comunità indipendenti, multietniche e senza Stato». Quello che
i tre cantoni di Rojava, di cui Kobane è parte, hanno messo in pratica negli ultimi due anni:
un progetto sociale basato su un’economia rispettosa dell’ambiente e scevra del modello
del sistema industriale di Stato, sull’emancipazione delle donne e sul concetto di comune.
«L’obiettivo è la creazione di realtà indipendenti, senza che dietro ci sia uno Stato, realtà
tenute insieme da un contratto sociale privo di riferimenti etnici. Il Pkk non parla solo di
kurdi, ma di turkmeni, arabi, assiri. Per questo Kobane è oggi target dell’Isis e di Usa, Turchia e Kurdistan iracheno. Allo stesso tempo è anche per questo che la resistenza è tanto
forte: nessuno vuole perdere quel modello, finalmente messo in pratica».
Quelle forze che temono il modello Rojava, però, ora hanno messo in campo sforzi per frenare l’avanzata dell’Isis: Barzani ha inviato 150 peshmerga, Ankara ne ha permesso il
passaggio, Washington bombarda le postazioni islamiste nella città assediata. «Turchia
e Usa sono quelli che per un anno hanno finto di non vedere la crescita dell’Isis, sperando
che andasse a scapito della resistenza kurda — aggiunge Akincilar — Oggi intervengono:
il loro obiettivo non è risolvere il conflitto, ma gestirlo e togliere il merito di un’eventuale vittoria alle Unità di protezione popolare e al Pkk. Ankara fa oggi in Siria quello che fa da
quasi un secolo nel Kurdistan turco dove agisce però con altri mezzi: repressione della
resistenza, discriminazione economica e sociale attraverso mancati investimenti industriali, confisca di terre, annullamento dell’identità kurda».
Diyarbakir, principale città della regione del Kurdistan turco, il cui distretto conta oltre un
milione di residenti: non esistono zone industriali, non esistono fabbriche. I residenti vivono
delle rimesse degli emigrati all’estero, di lavori senza contratto da stagionali nelle stesse
terre confiscategli negli anni ’90 e di commercio al dettaglio. «Lo Stato qui non c’è.
O meglio lo si vede solo nelle uniformi della polizia», conclude Murad. Un’opinione diffusa:
le poche bandiere turche che sventolano a Diyarbakir sono protette da fili spinati, oltre
i cancelli delle stazioni di polizia. L’unico sostegno arriva dal Pkk: «La ragione è semplice:
il Pkk non è un movimento verticistico – dice al manifesto Iclal Ayse Küçükkirca, giovane
ricercatrice kurda all’Università di Mardin – Il Pkk è fatto di donne, uomini, dei nonni prima
e dei nipoti ora. Kobane ha cementato un sentimento che era già forte: in strada alle manifestazioni vedi sfilare famiglie intere, anziani, bambini».
Che Kobane possa diventare motivo di una nuova unione tra i kurdi divisi in Medio
Oriente? «Ne dubito – conclude Iclal – Il riavvicinamento ai peshmerga è avvenuto per il
particolare momento storico che stiamo vivendo. Le celebrazioni in strada per il loro arrivo
sono legate al desiderio di vedere Kobane salva. Ma non ci sarà un dopo. A bloccarlo non
sarà solo la distanza politica tra noi e Irbil, ma il ruolo della Turchia».
del 05/11/14, pag. 1/17
Iraq. Quasi due milioni di persone — la metà minorenni — sono state
costrette ad abbandonare le loro abitazioni. Molte hanno trovato riparo
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nei campi dell’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, che
però non bastano mai
Layla, la neonata scampata all’Is che dorme
in una cassetta
GAD LERNER
ERBIL (KURDISTAN IRACHENO)
L’AEREO da Amman devia la sua rotta per non sorvolare le roccaforti del Califfato che ha
umiliato il mondo civile prendendosi Mosul e facendone uno dei centri di un regime
fondato sul terrore e sull’esaltazione della morte. È l’Unhcr, ovvero l’Agenzia delle Nazioni
Unite per i rifugiati, che ci ha chiamati a condividere qui a Erbil, nel Kurdistan iracheno,
un’esperienza che non potrà lasciarci indifferenti: cosa significa davvero offrire rifugio a
intere popolazioni in fuga da una guerra di sterminio; mentre a pochi chilometri di distanza
infuriano i combattimenti grazie a cui i peshmerga curdi stanno bloccando l’avanzata delle
brigate internazionali del jihadismo sunnita.
Insieme alla portavoce italiana dell’Unhcr, Carlotta Sami, atterriamo a oriente di Mosul di
soli cinquanta chilometri, rassicurati dal ritrovarci nell’unica regione irachena in cui vige
tuttora il rispetto dei diritti umani. L’estate scorsa, in meno di tre settimane, il Kurdistan
iracheno si è visto arrivare in casa più di 800mila disperati da dissetare (siamo in mezzo al
deserto), sfamare, risanare. Faceva un caldo terribile, così come ora fa freddo. Ai profughi
iracheni — un mosaico di etnie, lingue e confessioni religiose diverse — si aggiungono
220mila transfughi siriani. Gli ultimi sono quelli scappati da Kobane, passando dalla
Turchia.
Ci sono città, come la settentrionale Dohuk, che ormai contano tre o quattro profughi per
ogni residente. Li hanno dovuti ammassare nelle scuole, nei centri commerciali, sotto i
ponti, nei giardini pubblici. Dappertutto. E poi naturalmente ci sono gli attendamenti dei
campi profughi: non bastano mai. Per evitare che si trasformino in megalopoli ingovernabili
di polvere e fango, progettano di allestire altri sedici campi profughi oltre a quelli già saturi.
Lo scopo è di evitare situazioni caotiche e pericolose come il campo giordano di Zaatari, a
ridosso del confine con la Siria, giunto a contare 140mila persone.
Nella catastrofe umanitaria, non si segnalano episodi rilevanti di ostilità da parte degli
abitanti del Kurdistan. Di fronte a una vera invasione, a un esodo vero, nessuno qui
indossa la ben nota maglietta “Stop invasione” esibita da Matteo Salvini per opporsi al
passaggio sul suolo italiano di alcune decine di migliaia di fuggiaschi, per lo più
intenzionati a raggiungere il Nord Europa.
«Te la senti di guardare delle immagini molto forti?», mi chiede un alto funzionario delle
Nazioni Unite, prima di infilare una chiavetta Usb nel suo computer. È una precauzione
che non adoperano, neanche di fronte ai loro numerosi bambini, i profughi delle tende che,
prima di scappare, hanno dovuto respirare l’odore dei cadaveri abbandonati in mezzo alle
strade di casa. Sui loro smartphone mostrano fotografie atroci di teste mozzate. Temo
gliele facciano pervenire gli stessi assassini dell’Is, come strumento di guerra psicologica. I
tagliagole ostentano la loro volontà di sterminio al fine di terrorizzare e ottenere
sottomissione. Dai telefonini di alcuni miliziani uccisi, poi, gli operatori Onu hanno
recuperato altre testimonianze di questa diffusa pornografia della morte: selfie scattati col
prigioniero prima e dopo avergli sparato in testa; addirittura un mucchio di bambini fucilati.
Li ho dovuti vedere con i miei occhi. Foto a colori, è l’unica differenza rispetto a quelle dei
soldati nazisti in un’Europa 1941 che speravamo irripetibile.
Le due mani che si uniscono a formare un tetto sopra una famiglia di rifugiati — cioè il
marchio dell’Unhcr — sono riprodotte su ognuna delle tende allineate a migliaia, spesso in
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mezzo al deserto, con barriere metalliche e di filo spinato a filtrarne l’accesso. Stanno
diventando un logo abituale della contemporaneità come i simboli della Nike e della CocaCola.
Per rendere più sopportabili le piogge invernali a Gawilan, dove vengono concentrati i
profughi di Kobane, si è deciso di gettare basi di cemento e, a fianco della tenda, latrine in
muratura che sostituiscano le file di gabinetti chimici imbarazzanti e puzzolenti. Quel
cemento aiuta la sopravvivenza, certo, ma è anche indizio di cronicità: stanno nascendo
pseudo- città mostruose con cui il pianeta intero dovrà fare i conti, non solo il Kurdistan
che le ospita.
Dovrei ora riferire i racconti di atrocità subite, di fughe notturne, di figli dispersi, che
attraverso traduzioni improvvisate abbiamo raccolto dentro le tende, dopo esserci tolti le
scarpe, seduti sui materassini pieghevoli da campeggio che ne costituiscono l’unico arredo
possibile. Tra gli yazidi, in particolare, considerati dai tagliagole una popolazione indegna
perfino di essere convertita o sottomessa, aleggia la vergogna delle adolescenti
imprigionate nei bordelli per miliziani sorti nella zona di Sinjar. Con analogo tremore si
accenna ai bambini sequestrati per l’indottrinamento in apposite madrasse a Mosul.
Mi è rimasta impressa, fra i tanti, Layla, nata dieci giorni prima nel campo di Hersham, che
ha per culla una specie di cassetta. Il padre, Mohamed Abid Sali, fuggito dai sobborghi di
Mosul, mi mostra i segni del proiettile che lo ha trapassato e la fotografia della madre,
anch’essa Layla, uccisa con tre fratelli da un’autobomba. In queste tende semivuote si
trova spesso una televisione: insieme ai telefonini riempie il tempo di una reclusione
permanente senza futuro immaginabile. Attendono permessi di lavoro, sognano di
raggiungere familiari emigrati lontano prima della catastrofe.
Mi trovavo qui, tra i profughi stipati nel buio dell’enorme centro commerciale Ankawa con
le scale mobili arrugginite, piuttosto che nel limitrofo giardino pubblico trasformato in
tendopoli, quando Beppe Grillo sproloquiava sul suo blog di “Affarenostrum”, insinuando
chissà quali prebende lucrerebbero le organizzazioni non governative cui le Nazioni Unite
subappaltano la gestione dei ricoveri.
Da Amman a Erbil avevo volato di fianco a Gaia Van Der Esch, 27 anni, coordinatrice regionale di Acted, l’ong in cui lavorava uno degli ostaggi decapitati dall’Is, l’inglese David
Haines. Gira come una trottola per la regione. A capo del campo di Hersham c’è
un’olandesina di 23 anni, Yasmine Colijn, una potenza generosa. Con loro tanti italiani di
“Un ponte per”, “Terres des hommes” e altre organizzazioni. Professionisti che vivono nel
rischio e nelle privazioni da anni, che l’estate scorsa hanno accompagnato Unicef e Unhcr
in missioni di primo soccorso spericolate dentro a città assediate dall’Is. Provvedono alle
scuole, alle vaccinazioni, alle terapie d’appoggio per i traumatizzati, allo smistamento del
cibo e al rifornimento idrico. Grillo dovrebbe venire a scusarsi per aver malignato sul loro
stipendio.
Certo è che stiamo parlando di un’impresa umanitaria costata finora più di 100 milioni di
dollari, del tutto insufficienti a coprire il fabbisogno e a impedire che l’inverno si trasformi in
una ulteriore tragedia. Gli stanziamenti governativi (Arabia Saudita in testa, seguita a
molta distanza da Giappone e Usa) non potranno bastare mai. Unhcr copre già quasi il
20% delle sue spese con le donazioni dei privati e sarà imprescindibile aumentare questa
percentuale. Per questo è stata lanciata una campagna di sottoscrizione anche in Italia.
Il governo regionale del Kurdistan è sottoposto a uno sforzo titanico per evitare la paralisi
del suo territorio, trasformato in gigantesco rifugio e sottoposto agli attacchi dell’Is. Dal
giugno scorso sta gestendo un silenzioso smistamento che deve tenere conto anche degli
ostacoli linguistici (molti fuggiaschi parlano arabo, non curdo) e religiosi: gli sciiti vengono
dirottati verso la città di Sulaymaniyah per destinarli poi all’Iraq meridionale; i cristiani
cercano di raggiungere la Giordania e quando possibile l’Europa; i sunniti vengono
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separati dagli yazidi e dalle altre minoranze ormai a rischio di estinzione. Poi ci sono i
turcomanni… Oggi il nazionalismo curdo si erge in Iraq a garante di un equilibrio
fragilissimo, supportato in ciò dagli interessi petroliferi e commerciali che hanno reso
solido il rapporto con la confinante Turchia. Mentre a Est, silenziosamente, operano
talvolta di supporto reparti di pasdaran iraniani. Ma le tendopoli della Mesopotamia
insanguinata rappresentano un problema del mondo intero, indicano un fallimento della
nostra civiltà. Questa desertica, inospitale retrovia di una guerra che dilaga ben oltre i
confini della Siria e dell’Iraq, ha il volto dei bambini. Nel 2014 sono complessivamente 1
milione e 800mila le persone costrette in tutto l’Iraq a sopravvivere lontano dalle loro case.
Più di metà sono minorenni. Non è forse un problema delle Nazioni Unite? Non è forse un
problema nostro?
Del 5/11/2014, pag. 7
Lady Pesc si affida alla speranza
Israele/Territori Occupati. Appena nominata Federica Mogherini, nuovo
Alto Rappresentante della politica estera dell'Ue, comincia il suo
mandato con una visita in Israele e nei Territori palestinesi occupati.
Auspica che nasca lo Stato di Palestina entro cinque anni
Michele Giorgio, GERUSALEMME
Dpo gli anni impalpabili della gestione Ashton, ci si attendeva un piglio diverso, più deciso,
verso il conflitto israelo-palestinese dalla nuova lady Pesc. E invece Federica Mogherini,
Alto rappresentante per la politica estera europea — che di fatto comincia il suo incarico
proprio con una visita, venerdì e sabato, in Israele e nei Territori palestinesi occupati –
sembra partire più con un auspicio che con la determinazione che richiede questo storico
dossier mediorientale. «Trovo che il nodo più interessante è se riusciremo ad avere uno
Stato palestinese nei miei cinque anni di mandato», ha detto l’ex ministra degli esteri in
un’intervista a La Stampa. Se riusceremo nei miei cinque anni di mandato? E’ davvero
sconcertante che i massimi rappresentanti europei non pensino che sia venuta l’ora di
mettere fine subito con azioni concrete all’occupazione israeliana e di riconoscere dopo
decenni ai palestinesi il diritto all’indipendenza piena e alla libertà. Invece restano ancorati
all’esito dell’interminabile, inutile ed intermittente negoziato cominciato più di venti anni fa
ad Oslo e segnato dalle condizioni pesanti come macigni poste dalla parte più forte,
Israele. Lady Pesc è rimasta vaga nell’intervista proprio sul riconoscimento dello Stato di
Palestina giunto da più parti europee, come il governo svedese e il parlamento britannico.
«Mettiamola così, bisogna guardare alla luna, non al dito — ha risposto a una domanda su
un possibile riconoscimento di tutta l’Unione — Il riconoscimento è il dito. La luna è lo
Stato palestinese, l’elemento più importante». Suggestivo. Ma cosa farà Mogherini per
arrivare alla luna visto che non si sbilancia neppure sul dito? All’orizzonte non si intravede
nulla di nuovo. Tutto lascia credere che, oltre alle dichiarazioni di circostanza fatte da chi
è all’inizio di una nuova importante missione, la nuova lady Pesc non farà altro che seguire
il rituale europeo nei confronti di israeliani e palestinesi. Con le esitazioni e le debolezze
tipiche dell’Unione quando si tocca la questione palestinese. «La nostra responsabilità è di
andare a vedere se, come sembra, ci sono margini perché l’Europa eserciti un ruolo. Ce lo
chiedono i cittadini europei», un’intera generazione «cresciuta mentre la questione israelopalestinese restava irrisolta». Proprio per questo non è più tempo di auspici e occorre
applicare le risoluzioni internazionali in Palestina. Mogherini oltre agli incontri in Israele
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con il premier Benyamin Netanyahu ed i ministri degli esteri e della giustizia, e poi
a Ramallah con il presidente Abu Mazen e il premier Rami Hamdallah, andrà anche
a Gaza. Proprio la soluzione dei problemi di Gaza e della sua popolazione, prigioniera in
un lembo di terra palestinese bloccato (e bombardato la scorsa estate) dagli israeliani
e tenuto sotto pressione dell’Egitto, sarà un test importante per valutare se e come la
nuova lady Pesc potrà voltare pagina nell’approccio a dir poco deludente dell’Ue al Medio
Oriente, segnato da ambiguità e debolezze, da profonde divisioni tra i vari Paesi membri
e da sostegni solo a parole all’indipendenza palestinese. E’ arduo non essere scettici
del 05/11/14, pag. 34
Il premier Abe l’aveva chiamata con enfasi “womenomics” Ma la
riscossa dei diritti delle donne non c’è stata Ecco quanto costano
soprusi e discriminazioni
Giappone rosa shock
GIAMPAOLO VISETTI
DAL NOSTRO INVIATO
TOKYO
LA pancia di Sanako Iwamoto, al quinto mese, sporgeva già troppo. Sabato il capo è
andato nel suo appartamento a Shinjuku con un mazzo di fiori da parte dei colleghi.
«Temono che il bordo della scrivania ti faccia male — ha detto — da lunedì stai a casa ».
Segretaria modello, si è licenziata per denunciare la discriminazione delle donne che
lavorano a Tokyo. Anche per Emiko Kitamura la gravidanza si è rivelata il capolinea. Ex
modella, commessa in un negozio di lusso a Ginza, è stata tagliata perché il suo profilo
«non rispecchia più lo stile del brand». I giornali giapponesi la chiamano matahara,
all’inglese, crasi di “maternity harassment”: molestie causa maternità.
A dieci giorni dall’offensiva anti- quote rosa che travolge il governo di Shinzo Abe, lo
scandalo oscura perfino il via libera di Sendai alla riaccensione dei primi due reattori
nucleari nel Paese, dopo il disastro di Fukushima. L’altra faccia dell’esibita “Womenomics”
è stata scoperta da Sayaka Osakabe, impiegata di 37 anni. Incinta per la seconda volta, si
è sentita dire che la sua condizione «imbarazzava i colleghi». Il suo superiore le ha chiesto
perché avesse deciso di «fare ancora sesso». «Il mio è un contratto a termine — dice — lo
stipendio è necessario, non ho avuto alternativa: ho dovuto abortire per la seconda volta».
Scegliere tra il lavoro e la maternità, in Giappone resta un dramma per milioni di donne. Il
conservatore Abe, all’ultimo Forum di Davos, aveva annunciato che «entro il 2020 il 30%
dei nostri manager saranno donne». Sul Wall Street Journal ha scritto che «l’Abenomics è
impossibile senza un ruolo sostanziale delle donne in economia». I media nazionali sono
ora scatenati nel dimostrare che le parole del premier non rispecchiano i fatti. Il neogovernatore della capitale, Yoichi Masuzoe, ha detto che le donne non dovrebbero
ricoprire incarichi politici «perché perdono l’equilibrio durante il loro ciclo mensile». Il
governatore nazionalista di Osaka, Toru Hashimoto, ha confermato che «durante la guerra
le donne di conforto erano necessarie per mantenere la disciplina militare ». Le
sopravvissute agli stupri giapponesi, in Cina e in Corea del Sud, sono insorte contro «la
vergogna di chi continua a considerare la violenza come un diritto».
Un appello online per rendere il sessismo un reato, in poche ore, è stato firmato da oltre
diecimila persone. «Sesso e violenza — dice la leader delle femministe Chizuko Ueno —
restano il modo con cui le giapponesi fanno dolorosamente conoscenza con il mondo». La
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svolta dei primi di settembre è già dimenticata. Shinzo Abe aveva rivoluzionato il suo
governo, portando cinque donne al vertice dei ministeri, come Koizumi nel 2006. «Voglio
aiutare le donne — aveva detto — a rompere la cupola di cristallo che le opprime». Il suo
partito, come i democratici, non pensano evidentemente che sia opportuno. Yuko Obuchi,
neoministra dell’Economia e simbolo del riscatto delle donne nel Paese, è stata costretta a
dimettersi. È accusata di aver speso 246 mila dollari di fondi elettorali in cosmetici e regali.
Nel 2009, già al governo, era stata la prima giapponese a osare partorire durante un
mandato politico. Subito fuori anche Midori Matsushima, ministra della Giustizia. È
imputata di aver donato ventagli agli elettori, ma pure di aver indossato una sciarpa nella
Camera Alta e di vestire di rosso anche al lavoro. Si è salvato invece Yoichi Miyazawa,
successore di Yuko Obuchi da pochi giorni. Il ministro di Industria e Commercio risulta
aver saldato con soldi pubblici un conto di 170 euro in un locale sadomaso di Hiroshima.
Le ragazze girano in biancheria intima, i clienti possono legarle e frustarle. Miyazawa ha
detto che si è trattato di «un errore » dei suoi collaboratori, costretti a rimborsare lo Stato.
«Se il caso avesse riguardato una donna — dice la manager di banca Hiroko Tatebe —
sarebbe caduto il governo ».
Il problema, osservano anche i media, è che «se nasci donna in Giappone devi ancora
scordarti il potere». Una Angela Merkel o una Dilma Rousseff qui sono impensabili.
«Siamo una superpotenza — dice il docente di sociologia Masahira Anesaki — fondata su
casalinghe, segretarie e commesse. Più in alto, semplicemente, le donne non vanno». Lo
ha certificato l’ultimo rapporto del World Economic Forum. Nella classifica mondiale del
divario di genere, il Giappone è al 104° posto su 142 Paesi, dietro al Tajikistan, ultimo nel
G20. Le giapponesi, rispetto ai maschi, a parità di posizione guadagnano il 60% in meno.
L’80% ha un’istruzione superiore, ma solo il 40,4% un impiego retribuito. Otto donne su
dieci, appena diventano madri, sono costrette a lasciare il lavoro, solo la metà riprende
quando i figli diventano indipendenti. Un quarto delle donne tra i 20 e i 40 anni è vittima del
mobbing anti-maternità: 2 mila i casi ora al vaglio dell’Associazione “Matahara.net”. «Ero
operaia — dice Tanaka Machi — ma appena sono rimasta incinta mi hanno spostata al
turno di notte. Poi il medico mi ha consigliato di licenziarmi». Solo una madre su tre
continua a lavorare, un terzo rispetto alla Svezia, e appena il 15% delle imprese
nipponiche presentano una donna nel management. Solo due al top: una nel board della
Japan Airlines, l’altra in quello della Panasonic.
Abe ha chiesto alle società di aumentare la presenza femminile, di coinvolgere in tutti i cda
«almeno una donna», ma rischia ora di essere travolto dall’accusa di «ipocrisia». Un
sondaggio rivela che per la metà dei giapponesi le donne non devono lavorare fuori di
casa e che per il 63% il premier «pensa a reclutare nuova forza lavoro e all’economia, non
alla parità tra i sessi». Avvertono i demografi: «L’invecchiamento della nazione è
sconvolgente. Senza il 30% in più di donne occupate, a tutti i livelli, i posti dovranno
essere assegnati a stranieri». Per le relatrici al Forum di Tokyo sul “gender gap”, la svolta
rosa sarebbe suggerita dalla «necessità politica di scongiurare un’ondata di immigrati».
I conti però premono. «Il 56% delle giapponesi — dice Kathy Matsui, analista di Goldman
Sarant’anni, chs — hanno un contratto a termine, rispetto al 21% dei maschi. Se le donne
occupate stabilmente arrivassero all’80% della quota degli uomini, il Pil aumenterebbe del
15%». L’ex ministro alla sanità di Tokyo fu travolto dall’accusa di considerare le donne
«solo una macchina da riproduzione». Abe, convinto che esse «potrebbero valere il 16%
della produzione industriale», rischia l’imputazione di ritenerle «solo uno strumento per la
crescita». La nomina delle cinque ministre doveva fermare il crollo di popolarità, dopo il
disastroso aumento dell’Iva e in previsione di un altro salto della tassa sui consumi nel
2015. Risultato: più 11% in poche ore. Dopo le dimissioni coatte, lo stesso giorno, il
gradimento è tornato ai minimi, sotto il 50%. «Il nesso tra offerta di pari opportunità e
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necessità di uscire dalla crisi economica — dice la executive di Itochu Corp, Mitsuru Chino
— è il punto debole della cosiddetta Womenomics ». Un equivoco che le giapponesi,
decise a non restare idol e konami girls ( le teenager-cantanti o mutuate dai videogiochi
che sembrano fatte in serie), non perdonano. «Quella di Abe — dice la leader del
movimento femminile Takazato Suzuyo — è un’operazione d’immagine. Pensa ad una
manciata di donne-manager, non alla massa anonima che sta sotto. Moglie in giapponese
si dice okusan , signora della casa: una condizione che nemmeno il premier vuole
concretamente cambiare».
Nel 2006, appena nato un erede maschio al trono imperiale dopo qua- Tokyo ha bloccato
la storica riforma della legge salica, che avrebbe permesso alla principessa Aiko di
succedere al nonno Akihito. La stessa neo-ambasciatrice Usa, Caroline Kennedy, figlia del
presidente assassinato, viene guardata con sospetto dai conservatori: riservatamente
definiscono il suo attivismo pro-donne «uno schiaffo ai maschi giapponesi ». La terza
economia del mondo non fa più figli, ha il debito pubblico al 240% del Pil e riaccende le
centrali atomiche. Resta però fondata su casalinghe, commesse e segretarie: purché non
si mettano in testa di diventare anche mamme.
Del 5/11/2014, pag. 8
Arrestato il sindaco di Iguala e la moglie per
la scomparsa dei 43 ragazzi
Messico. Gli studenti marciano sulla capitale
Geraldina Colotti
Due arresti eccellenti per il massacro di Iguala, in Messico. Si tratta dell’ex sindaco Luis
Abarca e di sua moglie Maria de los Angeles Pineda, sorella di tre narcotrafficanti legati al
cartello dei Guerreros Unidos. Una banda coinvolta nell’attacco a una mobilitazione studentesca, condotto il 26 dicembre a Iguala con la complicità della polizia locale.
In quell’occasione, morirono 6 studenti (uno dei quali presentava evidenti segni di tortura),
altri 25 rimasero feriti e 43 risultano da allora scomparsi. Secondo le testimonianze degli
abitanti e quelle di alcuni arrestati, un gruppo di 17 ragazzi è stato consegnato ai narcotrafficanti dalla polizia e questi — a loro dire credendoli appartenenti a una banda rivale —
li hanno uccisi e bruciati.
Decine di altri studenti sono stati visti mentre venivano caricati sul furgoni di polizia. E un
video che circola in rete, girato con un cellulare, ha registrato dall’interno l’attacco armato
agli studenti, i morti , i feriti e le loro grida di aiuto. Il sindaco e la moglie sono accusati di
essere i mandanti della mattanza, in combutta con il governatore dello stato di Guerrero,
ancora in fuga. Nei giorni scorsi, i Guerreros hanno fatto trovare un messaggio diretto al
presidente Enrique Peña Nieto. Hanno sostenuto che i 43 «normalistas» (così chiamati
per l’appartenenza alle combattive scuole rurali messicane) sono vivi. Hanno denunciato
per nome e cognome molti politici sul libro paga delle mafie. I Guerreros sono una scissione del cartello dei fratelli Beltran Leyva, uno dei più attivi nello stato. Una zona in cui
l’intreccio di violenza e malaffare guida da gran tempo l’agenda politica, una pratica purtroppo diffusa ai più alti livelli di potere in Messico.
Secondo il ministro degli Interni, Osorio Chong, dall’assunzione di incarico di Nieto (alla
fine del 2012) a maggio del 2014 risultano scomparse 8.000 persone, 22.000 se si somma
anche la precedente presidenza di Felipe Calderon. La lotta per bande s’incunea nelle forti
disuguaglianze sociali rinnovate da tutte le gestioni politiche e alimenta il grosso business
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della sicurezza guidato da Washington coi relativi fiumi di denaro erogati per le soluzioni
militari. Peña Nieto aveva promesso di mettere un freno allo strapotere dei militari nella
lotta contro i cartelli del narcotraffico. Ma di certo non ha smesso di circondarsi di elementi
tutt’altro che puliti. Secondo un’inchiesta di Amnesty International, nel 2013 oltre 1.500
persone hanno denunciato per tortura e violenze polizia o militari, e il 64% dei messicani
ha dichiarato che teme di essere torturato dalle forze dell’ordine.
E se pure l’elevatissimo livello degli omicidi è sceso rispetto all’acme della guerra dei cartelli (allora 23 assassinii ogni 100.000 abitanti, 19 casi ogni 100.000 abitanti nel 2013), le
misure neoliberiste adottate dal governo Nieto non hanno certo disinnescato tensioni
sociali e problemi strutturali. E il paese resta uno dei più pericolosi al mondo per le donne
e per i giornalisti. Gli studenti della Normal Rural di Ayotzinapa, repressi a Iguala, protestavano contro la privatizzazione della scuola pubblica, così come stanno facendo quelli
dell’Istituto Politecnico Nacional, in agitazione da tre settimane. Ora il governo ha deciso di
trattare, ma le mobilitazioni per riportare a casa i ragazzi scomparsi non si fermano. E 43
è il numero che torna in ogni iniziativa: dalle ore di digiuno e di preghiera di diverse organizzazioni religiose, che durerà fino a domani, alla marcia denominata «43x43», partita da
Iguala e diretta a Città del Messico. Oggi, terza giornata di protesta nazionale: anche per
chiedere le dimissioni del presidente Nieto e un cambiamento strutturale in Messico: «Non
dev’esserci impunità per nessuno e neanche per Peña Nieto», ha detto Manuel Lopez
Obrador, ex candidato presidenziale della sinistra, che non ha riconosciuto la vittoria di
Nieto nel 2012. Secondo Human Rights Watch, questa è la crisi più seria che il Messico
affronta dal 1968 sul piano dei diritti umani. In quell’anno vi fu il massacro di Tlatelolco che
i «normalistas» di Iguala si apprestavano a ricordare.
Del 5/11/2014, pag. 8
Nicolas Maduro aumenta ancora il salario
Venezuela. Al via il vertice dei movimenti sul cambiamento climatico
Geraldina Colotti
Dal prossimo 1 dicembre, il salario minimo aumenterà del 15% in Venezuela e arriverà
a 4.889,11 bolivar (776,05 dollari). Questo è il terzo aumento deciso per decreto dal presidente della Repubblica, Nicolas Maduro nel corso del 2014, per un rialzo totale del 68,2%.
Allo stesso tempo, il buono alimentazione associato passa da 1.297 a 2.095 bolivar. «La
borghesia – ha detto Maduro – durante i suoi ultimi 25 anni di governo ha disposto solo
8 aumenti salariali, mentre la rivoluzione bolivariana ne ha decisi 28 in 15 anni. Questo
è per noi il modello socialista che garantisce la protezione del popolo, e si basa sulla ridistribuzione della rendita e la giustizia sociale».
Il salario minimo venezuelano è così oggi il più alto dell’America latina, sempre molto al di
sopra della pesante inflazione, insita nelle storture economiche ereditate e in quelle dovute
al sabotaggio dei poteri forti e dei grandi gruppi di opposizione. Basti vedere le tonnellate
di prodotti sequestrati, dirette al mercato nero. Attualmente — ha aggiunto il presidente —
«il Venezuela ha il livello di disoccupazione più basso degli ultimi quarant’anni, nonostante
la guerra economica. La borghesia arriva col sorriso a dire che il nostro modello è fallito,
e noi con costanza ricominciamo a superare gli ostacoli. Se vogliamo costruire una nuova
società abbiamo bisogno di una nuova classe lavoratrice, portatrice di una nuova morale,
di una nuova cultura del lavoro». Nei giorni scorsi è stato anche deciso un ulteriore
aumento di stipendio alle Forze armate, nerbatura dell’unione civico-militare su cui si basa
il socialismo bolivariano. Una misura fortemente contestata dalle destre, costrette comun15
que a rincorrere le politiche economiche decise dal governo per erodere consensi
a Maduro tra le classi popolari. Secondo le ultime inchieste, l’indice di gradimento del presidente è sempre molto elevato, sostenuto dalla continuità dei progetti sociali portata
avanti dal chavismo: a partire dal massiccio piano di costruzione di case popolari, consegnate agli assegnatari già accessoriate.
Inoltre, con l’ingresso del Venezuela nel Consiglio di sicurezza dell’Onu, Maduro ha più
peso per contrastare i colpi bassi e il discredito dell’opposizione oltranzista a livello internazionale. E infine, con il nuovo ruolo che sta giocando il presidente colombiano Manuel
Santos, intenzionato a portare a soluzione politica il conflitto sociale con le guerriglie che
dura da oltre mezzo secolo, vi sono stati alcuni segnali positivi per disinnescare piani eversivi e attività di contrabbando alla frontiera. E ieri è cominciato nell’isola Margherita (Nueva
Esparta) il vertice dei movimenti sociali sul cambiamento climatico. Fino al 7 novembre, 79
organizzazioni non governative e movimenti sociali provenienti da 45 paesi del mondo si
riuniscono per trovare una posizione comune e presentarla alla Conferenza di Lima tra il
1 e il 12 dicembre.
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INTERNI
del 05/11/14, pag. 1/12
Le bugie del ministro
Così Alfano ha mentito sui lavoratori picchiati
Ecco perché la versione ufficiale viene smentita dal video Oggi alla
Camera il voto sulla mozione di sfiducia
CARLO BONINI
ROMA .
In un perfetto déjà vu, per la seconda volta in appena sedici mesi, il ministro dell’Interno
Angelino Alfano torna a sottoporsi al voto del Parlamento su una mozione di sfiducia
individuale. Di cui cambia solo il proscenio: un anno e mezzo fa fu il Senato, oggi la
Camera. Ma non la sostanza politica. Come nel luglio del 2013 (caso Shalabayeva), gli
ingredienti della vicenda che lo investe — gli scontri di piazza del 29 ottobre scorso
durante il corteo degli operai della Ast — ripropongono infatti un identico canovaccio.
Come in quell’estate, Alfano mente al Parlamento, cui annuncia una «rigorosa e oggettiva
ricostruzione dei fatti» che, al contrario, è costruita su circostanze ora fuorvianti, ora
sapientemente manipolate. Non è dato sapere se figlie del dolo o della superficialità con
cui le ha recepite da chi gliele ha confezionate (questura e Prefettura di Roma). In ogni
caso, necessarie innanzitutto a sottrarlo alla sua responsabilità politica di ministro e,
insieme, a dissimulare l’errore degli apparati. Ancora: come in quell’estate, la mossa gli è
resa agevole dal silenzio di un Presidente del Consiglio (allora Enrico Letta, oggi Matteo
Renzi), alla cui maggioranza sa di essere indispensabile. E in nome della quale ritiene per
altro di poter chiudere la faccenda con una “democristiana” e dunque ecumenica
«solidarietà ai lavoratori della Ast e della Polizia di Stato».
Per riuscire nell’operazione, è appunto necessario stravolgere i fatti e la loro sequenza.
Ma questa volta, grazie alle immagini degli scontri del 29 mattina registrate dalle
telecamere di “ Gazebo” e diffuse da Repubblica. it, l’azzardo mostra rapidamente la sua
natura abusiva.
LA “VOCE COLTA IN PIAZZA”
Dice Alfano in Senato il 30 ottobre.
« Èsubentrata la preoccupa-zione che alcuni manifestanti vo-lessero dirigersi verso la
vicina stazione Termini, atteso che ta-le voce era stata colta dai funzio-nari di polizia in
servizio a piazza Indipendenza. Un folto numero di manifestanti, dando vita a un
improvviso corteo, si è diretto verso via Solferino e, visto lo sbarramento opposto dalla
poli-zia, ha poi deviato verso altre vie limitrofe che conducono comun-que a piazza dei
Cinquecento e quindi alla stazione Termini.
Rafforzando così la preoccupa-zione che era già stata avvertita e cioè che volessero
dirigersi alla stazione » .
Non è fortunato l’ incipit della ricostruzione «oggettiva e rigorosa » del ministro. Nelle sue
parole, si contano infatti un’informazione tanto anodina quanto inverificabile («una voce
raccolta in piazza» vuole che i manifestanti intendano dirigersi verso Termini per
“occuparla”), e, soprattutto, una prima decisiva manipolazione che le immagini televisive
svelano come tale. Per poter infatti sostenere che le intenzioni dell’«improvvisato» corteo
siano, come vorrebbe la misteriosa “voce”, quelle di marciare su Termini, Alfano è
costretto a collocarne la testa in via Solferino, nel tratto che unisce piazza Indipendenza a
piazza dei Cinquecento. Ma è falso. Il corteo infatti non solo non si dirige o entra in via
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Solferino, ma, al contrario, piega sulla destra di piazza Indipendenza, per entrare in via
Curtatone. Una «via limitrofa » che non conduce affatto «a piazza dei Cinquecento» (corre
infatti in direzione esattamente opposta), ma al ministero, dove gli operai intendono e
dichiarano di andare. E dove — mostrano ancora le immagini televisive — dirigono per
scelta e non perché «uno sbarramento della polizia» gli abbia ostacolato il passo in via
Solferino.
IL “CONCITATO CONTATTO FISICO”
Ancora Alfano: «Al corteo è stato inutilmente intimato l’alt.
Per cui si è in breve arrivati a un concitato contatto fisico tra manifestanti e polizia da cui è
con-seguito il ferimento di 4manife-stanti e di 4operatori della Poli-zia di stato: un
funzionario e tre agenti del reparto mobile, i qua-li hanno riportato tutti lesioni guaribili da
un minimo di tre a un massimo di quindici giorni » .
Le immagini e il sonoro delle riprese televisive non lasciano percepire alcuna intimazione
al corteo di fermarsi. Al contrario, mostrano una improvvisa frenesia che coglie i funzionari
in borghese sulla piazza. Uno di loro indossa un giacca di pelle e lo si ascolta nitidamente
impartire immediatamente l’ordine di “carica” agli agenti del reparto mobile che chiude
l’accesso di via Curtatone. La “concitazione” comincia in quell’esatto momento. Con
quell’ordine, con le visiere che si abbassano, gli scudi che si alzano, i manganelli che
mulinellano sulle teste degli operai che sorreggono lo striscione in testa al corteo. Non c’è
dunque un «concitato contatto fisico». C’è una carica. C’è un funzionario che perde la
testa e ordina un uso sproporzionato della forza. Un funzionario così disorientato da
vederlo gridare a favore di telecamera « Dovete dircelo dove andate!!! », quando ormai il
guaio e fatto e qualche testa è già stata scassata. Ma anche di questo, nella «rigorosa e
oggettiva relazione » del ministro non c’è, né può esserci traccia. Anche perché questo
significherebbe non solo ammettere un errore e doversene scusare, assumendone il peso
politico. Significherebbe anche dover rispondere ad alcune domande. L’ordine di caricare
è stata l’iniziativa di un singo- lo? Quali indicazioni avevano ricevuto i funzionari in piazza
circa l’uso della forza? E da chi? Dal questore? Dal prefetto? E quali erano state le
direttive di ordine pubblico che questore e prefetto avevano ricevuto dal ministro? Il 29
mattina si doveva cercare la cogestione pacifica della piazza o, al contrario, la prova di
forza muscolare con Landini e gli operai? La verità è che nel vuoto della relazione di
Alfano non c’è traccia di responsabilità. Non è colpa di nessuno. Né «è stato il governo a
dare l’ordine di caricare » , dirà il presidente del Consiglio intervistato da Massimo Giannini
a Ballarò.
“SOPRAGGIUNGE LANDINI”
Manca un ultimo tassello: « È poi sopraggiunto il segretario generale della Fiom Landini, il
cui intervento ha contribuito a ri-portare la calma fra i manife-stanti. In seguito, ha avuto
avvio un breve negoziato per l’autoriz-zazione a effettuare un corteo verso la sede dello
sviluppo eco-nomico, che si è concluso positi-vamente con la definizione di un percorso
concordato » .
Anche nel dare conto di quest’ultimo anello della catena degli eventi, è necessario al
ministro un sapiente ritocco, utile a sostenere, tra le righe, che l’animosità del corteo è
stata raffreddata grazie alla “sopraggiunta” diplomazia del segretario della Fiom. Peccato
che Landini non sopraggiunga. Lo si distingue nitidamente a pochi passi dalla testa del
corteo nel tentativo insieme disperato e furioso di fermare i manganelli. « Che cazzo state
facendo?! », urla alzando le mani al cielo davanti agli agenti del reparto Mobile. « Siamo
lavoratori come voi! ». E peccato che Landini non negozi, ma gridi sul volto dello spiritato
funzionario di polizia con la giacca di pelle che è al ministero che gli operai vogliono
andare. Non alla stazione Termini. Al ministero. Perché è lì che porta la “limitrofa” via
Curtatone.
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del 05/11/14, pag. 12
Napolitano: “Da estremisti e antagonisti
rischio di violenze senza precedenti”
UMBERTO ROSSO
ROMA .
Un 4 novembre segnato da una grande preoccupazione per il capo dello Stato. C’è il
pericolo di «rotture e violenze sociali » senza precedenti. Innescate da un combinato
disposto potenzialmente esplosivo: l’ondata «esterna» dell’estremismo islamico alle porte
dell’Italia sommata all’escalation «interna » dell’antagonismo sociale, che torna ad agitare
le piazze del nostro paese.
Un allarme molto forte quello che Giorgio Napolitano lancia, nella giornata dell’Unità
nazionale e delle Forze Armate. Dunque, sulla spinta di quelle due forze “negative” e
anche «sull’onda di contrapposizioni ideologiche pure così datate e insostenibili», il rischio
è che «prendano corpo nelle nostre società rotture e violenze di intensità forse mai viste
prima». Appena un riferimento alla situazione di casa nostra, più che ai sindacati
indirizzato probabilmente alla galassia dei vari centri sociali e movimenti antagonisti,
perché il cuore del ragionamento di Napolitano riguarda soprattutto «tensioni e instabilità
crescenti» del contesto internazionale, minacciato dalle bandiere nere dell’Is.
Nuove e più aggressive «forme di estremismo e di fanatismo » che rischiano di investire i
territori degli “Stati falliti”, in primo luogo Libia, Iraq e Siria. Ma che si infiltrano anche in
Europa grazie «alla loro perversa forza attrattiva». E’ una minaccia reale, «anche
militare», che le nostre Forze Armate «devono essere pronte a contrastare e prima di tutto
a prevenire». Ma la conflittualità è alimentata anche da situazioni «di profonda
disuguaglianza». Bisogna dunque in primo luogo misurarsi «con problemi di giustizia e di
garanzia del rispetto delle regole e dei principi fondanti della convivenza umana ».
Il taglio delle spese militari? Napolitano decide di affrontare apertamente le polemiche
sulla riduzione degli armamenti, lo scontro fra «l’impegno a perseguire il necessario livello
di efficienza dello strumento militare» da un lato e dall’altro invece quella « ricorrente
pressione per una riduzione quasi «di principio» di quell’impegno e dei suoi costi». Ricorda
che di recente sono arrivate, in seno alla stessa Nato, «voci critiche» per la tendenza che
si sarebbe manifestata in diversi Stati membri a una riduzione della spesa militare, mentre
l’aggravarsi del quadro delle relazioni internazionali avrebbe dovuto spingere in senso
opposto.
Ma per il capo dello Stato da parte di ogni paese della Nato «si deve esser seri nel
prendere decisioni», non si possono «mai avallare visioni ingenue, non realistiche di
perdita d’importanza dello strumento militare ». E tuttavia, spiega il capo dello Stato, le
crisi internazionali non scoppiano perché mancano sul terreno armi moderne ma
soprattutto perché «c’è una perdita di leadership politica in seno alla comunità
internazionale». Allora «varrà la pena, credo, di discuterne», chiosa. A partire dal Libro
Bianco della Difesa.
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Del 5/11/2014, pag. 5
Cortei, ecco le nuove regole del Viminale per
le forze dell’ordine
Ordine pubblico. Oggi la Camera archivia il caso Alfano: Pd, Ncd e
Forza Italia contro la mozione di sfiducia
Evitare il contatto fisico e quando è inevitabile evitare di colpire parti vitali del corpo. Arrivano le nuove regole di ingaggio per le forze dell’ordine in servizio nei cortei, ma anche nei
servizi di rimpatrio degli immigrati e nelle procedure di arresto. Norme che, almeno in
alcuni casi, dovrebbero essere scontate, ma che purtroppo spesso vengono disattese
come dimostrano anche gli scontri del 29 ottobre scorso con gli operai delle acciaierie di
Terni. Le nuove regole verranno presentate domani ai sindacati di categoria al ministero
degli Interni e si pongono l’obiettivo di «tutelare l’incolumità dei cittadini ma anche degli
agenti chiamati a gestire la sicurezza». Oggi pomeriggio invece, alla Camera verrà
discussa la mozione di sfiducia presentata da Sel, M5S e Lega Nord contro il ministro
degli Interni Angelino Alfano proprio in seguito agli scontri con le tute blu di Terni. Mozione
destinata a finire in un nulla di fatto visto che oltre a Pd e Ncd, anche Forza Italia ieri ha
annunciato che voterà contro la sfiducia. Le nuove disposizioni sono contenute in un testo
composto da 15 schede operative, ognuna delle quali dedicata a uno specifico settore,
con istruzioni specifiche «sull’uso legittimo della forza e dei mezzi di coazione fisica». Si
va dalle tecniche di ammanettamento all’impiego dello spray al peperoncino, dalle fasce in
velcro da utilizzare per limitare i movimenti di soggetti particolarmente aggressivi al «bodycuff» che può essere impiegato nell’esecuzione dei rimpatri forzati, e allo «sfollagente»
strumento, è spiegato, che non deve mai essere considerato «mezzo punitivo». Ma su
tutte le regole, ne prevale una: il contatto fisico deve essere «l’extrema ratio» e solo dopo
che ogni tentativo di mediazione e dialogo con i manifestanti si sarà esaurito negativamente. Cinque i principi generali che le forze dell’ordine devono osservare nell’utilizzare
manette, manganelli, spray al peperoncino o altri strumenti. Il primo è, appunto, che «l’uso
della forza deve essere sempre proporzionato al grado di resistenza o violenza esercitate
dal soggetto e deve cessare non appena lo stesso abbia desistito e sia stato adeguatamente contenuto in posizione tale da non nuocere». Il Dipartimento afferma inoltre che «è
vietata ogni forma di accanimento» e che «non devono essere inferti colpi sul viso o in
parti vitali del corpo e non deve essere compromessa o minacciata la possibilità
dell’interessato di respirare». Chi viene bloccato a terra a faccia in giù, inoltre, deve rimanere in quella posizione il «tempo strettamente necessario», disposizione questa che si
spera possa evitare ilripetersi di casi come quelli di Federico Aldrovandi e Riccardo
Magherini. Così come l’ultimo principio. «In caso di soggetti in stato di alterazione fisica
o vulnerabili — si legge — l’approccio deve essere maggiormente caratterizzato dalla gradualità dell’intervento privilegiando, ove possibile, principalmente un azione di dialogo
o persuasione». Per quanto riguarda l’utilizzo del manganello da parte degli agenti, nelle
nuove regole si sottolinea che «non deve essere considerato come un mezzo punitivo,
deve essere impiegato con decisione e mai con brutalità» e deve essere utilizzato indirizzando i colpi «mai al capo, al volto e a tutte le parti vitali del corpo». In ogni caso, l’azione
«deve cessare immediatamente non appena viene raggiunta la finalità perseguita». Infine,
lo sfollagente non deve essere usato contro «persone inermi che abbiano desistito dalla
propria azione violenta» o «siano in posizione tale da non nuocere e non realizzino alcuna
forma di resistenza». Sono destinate intanto a chiudersi oggi con la discussione della
mozione di sfiducia nei confronti del ministro Alfano, le polemiche sulle violenze compiute
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dalla polizia contro gli operai dell’Ast di Terni. Il deputato del Pd Antonio Boccuzzi, ex operaio Thissen, ha annunciato che uscirà dall’aula al momento del voto se Alfano non fornirà
elementi nuovi rispetto a quanto già dichiarato al parlamento. Il suo sarà però un gesto
isolato. Pd, Ncd e Forza Italia voteranno infatti contro la mozione di sfiducia mettendo così
la parola fine al caso.
del 05/11/14, pag. 4
Renzi: “Il mio Jobs act è una riforma di
sinistra sia legge entro dicembre”
Il premier: “Subito il nuovo sistema elettorale, premio alla lista” Il
silenzio della minoranza pd all’assemblea dei gruppi
SILVIO BUZZANCA
ROMA .
«Non ho mai visto una riforma del lavoro di sinistra come questa. C’è un consenso
nazionale che va oltre il Pd. Toglie alibi, non diritti». Matteo Renzi difende così il Jobs Act
davanti ai parlamentari democratici. Un’assemblea che ha ascoltato il presidente del
Consiglio e si è conclusa senza un intervento da parte di un senatore o un deputato.
Segno che la minoranza ha deciso di evitare lo scontro. Il premier dunque non molla e
insiste nel volere portare a casa presto il provvedimento. E fissa anche una data: «Dal
primo gennaio il Jobs Act deve entrare in vigore. Il primo gennaio è la dead line». Un
affondo che arriva dopo un’intervista rilasciata a Ballarò in cui difende il suo progetto sul
lavoro, ma invoca anche «un po’ più di comprensione da parte di quella sinistra radicale»
per quello che il governo sta facendo in Europa. Renzi critica il ruolo politico del sindacato
e della Cgil in particolare. Evoca la Camusso che lo accusa di essere la come la Thatcher,
nega di avere mai usato la parola complotto. Ma spiega: «Il ”disegno” di cui parlo è una
cosa chiara: c’è una parte del sindacato che pensa di fare del lavoro il tema dello
scontro». E su questo tema ai gruppi invita tutti a non usare politicamente vicende come
quella dell’Ast di Terni, convinto «che si può chiudere un accordo». Comunque alla fine il
premier ammette: «Se serve metteremo la fiducia sul Jobs act». Il premier poi parla di
legge elettorale. E anche su questo preme l’acceleratore. Il premier dice: «Abbiamo detto
che si vota nel 2018 ma non dobbiamo aspettare il 2017 per cambiarla». Renzi dice che si
dovrebbero apportare al testo votato dalla Camera delle modifiche: per esempio alzare la
soglia di sbarramento per ottenere il premio di maggioranza al 40 per cento, in modo da
assegnare alla lista vincente 350 seggi. Resta aperto il dilemma: premio alla coalizione o
alla lista. Dubbio di dirimere con Berlusconi. E su questo Renzi dice: «Giusto fare le
riforme con Berlusconi, non le faccio da solo. Rispetto Berlusconi, Verdini e Letta, il fatto
che Berlusconi sia stato condannato e Verdini rinviato a giudizio attiene la loro vicenda
personale».
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del 05/11/14, pag. 6
L’opposizione Dem al contrattacco “Matteo ci
sta prendendo in giro non ci ha offerto alcuna
via d’uscita”
GOFFREDO DE MARCHIS
ROMA .
C’è una risposta sui tempi: il Jobs act dev’essere operativo entro il 1 gennaio 2015. Un
paletto chiaro, una data cerchiata sul calendario. Non c’è la risposta sulle correzioni da
inserire alla Camera. Da una parte Matteo Renzi lascia alla trattativa alcuni margini per
arrivare a un’intesa con la minoranza Pd. Dall’altra, non offre una linea da sostenere o da
criticare. «Ha fatto un catalogo — protesta Stefano Fassina — e sui titoli siamo tutti
d’accordo. Sui tempi anche, bisogna fare in fretta. La riforma del lavoro si può approvare a
Montecitorio anche la prossima settimana. Ma quale provvedimento votiamo? Come viene
regolato il licenziamento? Matteo deve sapere che prima o poi il momento della verità
arriva».
I dissidenti hanno vissuto l’assemblea di ieri sera come una presa in giro. È vero che il
clima non si è scaldato e non ci sono stati ultimatum del premier. Ma i fronti restano aperti.
Renzi non vuole scoprire le carte sul Jobs Act. Cerca di comprendere come si stanno
muovendo i gruppi in Parlamento. Se Palazzo Chigi fa un’apertura a qualche modifica, il
testo viene sommerso dagli emendamenti dei ribelli Pd e delle opposizioni, Cinque stelle in
testa? Con le correzioni la minoranza Pd vota la fiducia? O tanto vale confermare la legge
votata al Senato, perdere qualche pezzo e avere la certezza del risultato? Sono le
domande alle quali Renzi ha scelto di non rispondere o per le quali non ha ancora una
risposta.
Il premier preferisce l’accelerazione per incassare subito il Jobs Act. Ma molte sirene, non
solo quelle “nemiche”, gli suggeriscono un’altra strada. Il capogruppo del Pd alla Camera
Roberto Speranza lo ha messo in guardia: «Non credo che i ribelli non ti voteranno la
fiducia. Ma credo che in tanti potrebbero uscire dall’aula. E saranno più di 20. Forse 30,
forse di più. Non sarebbe indolore per il Pd». C’è una base che permetterebbe di assorbire
la frattura interna. È l’ordine del giorno della direzione del Pd, votata da larga
maggioranza, con l’astensione dello stesso Speranza e alcuni voti contrari. «Se Renzi
recepisce quel testo anche io che ho votato no in direzione, in Parlamento voto la
riforma», dice Francesco Boccia. «È due mesi che gli diciamo di tenere insieme il Partito
democratico su questa materia — insiste Pippo Civati —. Conviene anche a lui». Ma
Renzi non fa mai quello che gli conviene se a suggerirglielo sono i suoi oppositori.
Stavolta il caso è un po’ diverso. Il lavoro di tessitura svolto da Giuliano Poletti è già a un
buon punto, esiste una trattativa avviata e alcuni dissidenti lavorano a un’intesa. A
cominciare da Cesare Damiano e Guglielmo Epifani. Ma Renzi non si fida. Il punto per lui
è avere uno strumento operativo entro dicembre. L’obiettivo è mettere in circolo le risorse
necessarie alla decontribuzione dei contratti a tempo indeterminato. Il governo ha assoluto
bisogno di risultati statistici già nei primi mesi del 2015. Per smentire le previsioni di
Bankitalia e Istat e mandare un segnale all’opinione pubblico. «Il resto per me è tattica »,
ripete spesso il premier nei suoi colloqui privati.
Oggi riprende il dialogo. Con il retropensiero, espresso con chiarezza da Boccia che Renzi
punti alle elezioni in primavera. E le dichiarazione sulla legge elettorale fatte all’assemblea
di ieri sera hanno convinto anche qualcun altro. Per questo il premier ha precisato: «Si
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vota nel 2018 ma non possiamo attendere il 2017 per l’I- talicum». Dunque, in un gioco di
specchi e di sospetti ricomincia la mediazione sul Jobs Act. E se i mediatori hanno ancora
spazio per provare un accordo, i più scettici sono rimasti delusi per la vaghezza del
discorso renziano. Fassina ad esempio resta sulle barricate, anche per quello che riguarda
le ipotesi di correzioni: «Non basta inserire i disciplinari. Per me, così le modifiche sono
inadeguate. Non è l’articolo 18 a frenare gli investimenti. Non è cancellandolo che si
creeranno altri posti di lavoro».
Ieri è stato un giorno senza confronti. Di fronte all’attesa per le parole di Renzi, si sono
tirati indietro il presidente della commissione Lavoro Cesare Damiano, il responsabile
economico del Pd Filippo Taddei, il ministro Giuliano Poletti. È chiaro che a Palazzo Chigi
si aspetta di capire di quante truppe dispone il dissenso. La minoranza sembra muoversi
in ordine sparso. Civati e i bersaniani e Cuperlo più aggueriti. Area riformista che fa capo a
Speranza disponibile al compromesso. Una parte, in queste ore, ragiona persino sul
pericolo delle correzioni al Jobs Act. «Rischiamo di rendere più rigido l’articolo 18 se
mettiamo le fattispecie dei licenziamenti disciplinari nella legge delega. Meglio affidarsi al
ministero del Lavoro e ai decreti delegati», dice un deputato di questa minoranza della
minoranza.
Del 5/11/2014, pag. 2
POLITICA
La tagliola del jobs act
Renzi. In diretta a Ballarò nonostante lo sciopero degli operatori.
Saltano tutte le altre trasmissioni Rai, ma per trasmettere il premier
dietro le telecamere arrivano i funzionari e persino il vicedirettore di
Rai2
Andrea Fabozzi
Non c’è spazio per mediazioni sul jobs act. «Dal primo gennaio deve entrare in vigore, è la
dead line», dice Renzi ai parlamentari del suo partito. Un avvertimento a chi è contrario:
non c’è tempo per navette con il senato, il testo è quello anche perché bisognerà considerare il tempo necessario per far vistare alle commissioni i decreti delegati preparati dal
governo. Ieri sera il presidente del Consiglio è comparso in televisione da Ballarò. In onda
con un’intervista registrata mentre fisicamente era già alla riunione dei gruppi parlamentari
alla camera (esordio con una promessa: «Giovedì chiudiamo con l’elezione dei giudici
costituzionali, ma ora un applauso a Violante»). In onda a tutti i costi, passando sopra lo
sciopero degli operatori di ripresa un po’ come l’altro giorno era sfilato in una fabbrica di
Brescia dalla quale erano stati allontanati gli operai. Per mandare in onda (quasi) regolarmente il talk show di prima serata su Rai3, infatti, viale Mazzini ha dovuto fare i salti mortali. Comandando alle telecamere tre funzionari dell’azienda e persino un dirigente, il vicedirettore di Rai2 Massimo Lavatore — effettivamente vicedirettore per la «pianificazione
economica e mezzi» che ha in carriera trascorsi da operatore, e dunque sa dove mettere
le mani. La denuncia è del sindacato autonomo delle telecomunicazioni Snater, che ha
deciso l’astensione per protesta contro la pratica di «utilizzare per coprire gli eventi uno, al
massimo due dipendenti, per lo più tecnici invece di una squadra di operatori». Davide Di
Pietro della segretaria nazionale Snater, e operatore di Ballarò, a fine giornata spiega che
lo sciopero degli operatori di Roma è riuscito perfettamente, costringendo la Rai a far saltare tutte le trasmissioni in diretta (Agorà, La prova del cuoco) e a riprendere i Tg con solo
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le telecamere fisse. Porta a porta e Uno mattina hanno mandato vecchie puntate in
replica. Ma Ballarò, già in difficoltà con gli ascolti, non poteva rinunciare alla puntata di ieri.
E per non far saltare Renzi negli studi di Rai3 ecco arrivare un dirigente in funzioni da operatore, in prestito dall’altro canale. Probabilmente a causa dei troppi palcoscenici, si evidenzia qualche problema di coordinamento tra le dichiarazioni, visto che mentre Renzi
annunciava ai parlamentari Pd che «la legge di stabilità è rivoluzionaria perché riduce la
pressione fiscale», il ministro dell’economia Padoan spiegava in audizione notturna alla
camera che la pressione fiscale con la manovra salirà dello 0,3% entro il 2017».
Intanto il presidente del Consiglio ha deciso di cancellare la visita a Napoli, che lui stesso
aveva annunciato per sabato prossimo. Le ragioni sono facilmente comprensibili, visto che
in città i movimenti gli stavano preparando da tempo una pessima accoglienza, con corteo
da Fuorigrotta a Bagnoli. La giornata si annunciava assai più tesa di quella già non tranquilla appena trascorsa a Brescia. Oltre alle contestazioni di piazza, il presidente del Consiglio avrebbe trovato l’ostilità dichiarata della giunta de Magistris, rimasta scottata da una
fiducia iniziale ripagata con il commissariamento dell’amministrazione comunale per le
opere di risanamento di Bagnoli. La rinuncia è un evidente fuga, così mentre centri sociali
e movimenti di lotta napoletani confermano la protesta del 7 novembre, l’ufficio stampa di
palazzo Chigi prova a spiegare che «Renzi non è preoccupato da eventuali contestazioni»
e «visiterà alcuni comuni del sud entro la fine del mese». Ieri ha parlato anche Giorgio
Napolitano, e alcune sue parole pronunciate in occasione delle celebrazioni per la festa
delle Forze Armate sono servite a confermare e rilanciare l’allarmismo esibito a Brescia da
Renzi. Se il presidente del Consiglio aveva detto che c’è «un disegno per dividere», il presidente della Repubblica è passato rapidamente dall’allarme per gli attentati dell’Isis ai
rischi interni. «Vi è il rischio — ha detto Napolitano — che sotto la spinta esterna
dell’estremismo e quella interna dell’antagonismo, e sull’onda di contrapposizioni ideologiche pure così datate e insostenibili, prendano corpo nelle nostre società rotture e violenze
di intensità forse mai vista prima».
del 05/11/14, pag. 2
VENTISEI DIKTAT IN OTTO MESI
IL GOVERNO HA LA “FIDUCITE”
SONO POCHISSIMI I PROVVEDIMENTI SUI QUALI IL GOVERNO NON
PONE IL DILEMMA AL PARLAMENTO: O VOTATE SÌ O CE NE ANDIAMO
(TUTTI) A CASA
di Luca De Carolis
E fanno 26. Una fiducia ogni dieci giorni, e passa la paura del flop (causa gufi). Ripudia
l’etichetta di “uomo solo al comando”, rivendica di essere “uno che fa sul serio” nel sacro
nome del cambiamento. Ma sui voti di fiducia Matteo Renzi è ormai il premier del (quasi)
record. Avviato a migliorarsi, con buona pace della centralità del Parlamento, del confronto
democratico e di altri principi molto costituzionali ma poco rottamatori. Ieri in una Camera
distratta, quasi rassegnata al suo ruolo di mero notaio, il governo ha incassato la 26ª
fiducia in otto mesi sul decreto legge per la riforma del processo civile (già passato in
Senato). La 28ª, se si tiene conto anche delle prime due che hanno dato il via libera al
governo Renzi. I sì sono stata una valanga, 353, a fronte di 192 no. E il premier ha
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migliorato il suo primato. Come ricordava il sito Openpolis, era dalla XIII legislatura (il
quinquennio di centrosinistra 1996-2001) che un esecutivo non ricorreva così di frequente
all’ultima risorsa, quella per evitare tonfi in aula. Quasi l’80 per cento delle leggi approvate
dal governo del rottamatore hanno visto la luce così. Monti si era fermato al 45 per cento.
Più sotto i vari governi Berlusconi. Perché Renzi tira più dritto di tutti. Lo conferma la
media di decreti legge del governo, 2,5 al mese. E tanti saluti al 2,2 di Letta, all’1,5 di
Monti e allo 0,7 del Caimano. Un po’ troppo anche per la presidente della Camera Laura
Boldrini, che tre settimane fa aveva mandato al premier una letterina di protesta: “L’uso
eccessivo dei decreti rischia di alterare il fisiologico funzionamento di Montecitorio”.
LA RISPOSTA è stata classicamente renziana: “Il decreto legge rappresenta talvolta
l’unico strumento di cui il governo dispone per intervenire su temi caratterizzati dai requisiti
della necessità e dell’urgenza”. Traduzione: andiamo di fretta e non si rallenta. Ieri
pomeriggio, a Montecitorio, è stata la perfetta chiusura del cerchio. Voto di fiducia su legge
di conversione di un decreto (ma il sì definitivo al testo arriverà domani). Nel dettaglio, in
353 hanno detto sì al primo pacchetto di norme per la riforma della giustizia civile.
L’obiettivo principale è snellire l’enorme arretrato (5 milioni di cause pendenti),
permettendo alle parti di ricorrere agli arbitrati sia in primo grado sia in appello. Per le
cause di separazione e di divorzio si potrà utilizzare la negoziazione assistita dagli
avvocati. In determinati casi si potrà procedere davanti al sindaco. Se ne parla un po’ in
aula. Semivuota, fino alle tre chiame per la votazione. Quando il forzista Chiarelli prende la
parola intorno alle 15, nell’emi - ciclo saranno in trenta. In Transatlantico si aggirano
deputati avvolti da noia. “Si va avanti con la fiducia” dice un anonimo bersaniano. Niente
animosità nel tono, suo e di altri “rossi”. Tira aria di quieta rassegnazione. In aula la voce
la alza Alfonso Bonafede (Cinque Stelle): “Abbiamo un Parlamento imbavagliato, i deputati
sono come burattini, devono solo sfilare per dire sì”. Prende un foglio di carta, lo
stropiccia: “Così Renzi tratta la Costituzione”. Accusa: “In Commissione Giustizia abbiamo
avuto un giorno per studiare il provvedimento e presentare i nostri emendamenti”. Protesta
anche il leghista Davide Caparini: “Quando il democratico Zanda vota come il forzista
Verdini per 551 volte su 552, ma perché mettere la fiducia?”. Daniele Farina (Sel): “Si
incardina il testo lunedì, si chiudono gli elementi il martedì e si applica una doppia tagliola
il mercoledì, e ora eccoci qui”.
A RISPONDERE provvede l’iper-renziano David Ermini: “In Commissione tutti hanno
avuto tempo per parlare, erano state assegnate 5 ore per poter presentare emendamenti:
probabilmente qualcuno, abituato ai sermoni di ore e ore del loro sacerdote, non era in
grado di poter spiccicare parola su qualche emendamento”. A metà pomeriggio il testo
passa: domani diventerà legge. I deputati sfilano via. In corridoio appare Pippo Civati: “Il
voto di fiducia ormai è un atto quotidiano, religioso. Ci devi credere”. Ma i fedeli sembrano
svogliati.
del 05/11/14, pag. 6
Italicum, adesso Berlusconi frena
Non vuole lasciare la pistola carica per le elezioni al premier. Boschi:
“Chiediamo a Fi un’accelerazione”
Amedeo La Mattina
Siamo alla guerra di posizione: Renzi accelera, Berlusconi frena. La riforma della legge
elettorale sta creando tensione tra i due protagonisti del Patto del Nazareno. Il premier
vorrebbe un incontro a breve con il Cavaliere, anche in settimana, ma il leader di Fi prende
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tempo. Dovrebbe finalmente dire sì o no al premio di maggioranza alla lista che vince e
non alla coalizione. Non solo: Berlusconi dovrebbe dire se è disponibile a eliminare la
norma dell’Italicum che prevede l’introduzione di questo premio di maggioranza solo per la
Camera. Renzi, senza attendere la riforma costituzionale, vorrebbe estendere il premio
anche al Senato. Così la sua pistola sarebbe pronta e caricata per le elezioni anticipate.
Non c’è però un solo esponente di Fi favorevole a questa svolta che darebbe la vittoria
certa al Pd, decretando la morta del centrodestra. Verdini invece vorrebbe venire incontro
al premier, con il quale i rapporti si sono raffreddati dopo il rinvio a giudizio di Denis per la
vicenda della cosiddetta P3. Si sarebbero raffreddati solo dal punto di vista formale per
evitare di mettere in imbarazzo Palazzo Chigi. Verdini, quando questo incontro si farà,
potrebbe non essere presente. Il paradosso è che lo stesso Berlusconi è disposto a
cedere a Renzi. Allora è chiaro che gli uomini e le donne che gli stanno intorno gli
consigliano di rinviare il più possibile il vertice. Il Cavaliere sembra dare loro retta con
l’obiettivo di posticipare il più possibile la nuova legge elettorale, evitando che i premier
abbia in mano la pistola carica delle elezioni anticipate nel 2015. Capitalizzare il consenso
di cui gode in Italia potrebbe essere l’obiettivo del premier. Ne sono convinti in molti, lo
teme pure Berlusconi che non è pronto alle urne: vuole chiudere tutte le finestre elettorali
almeno del 2015, lanciando la palla fino febbraio. Cosa che Renzi cerca di evitare, anche
per scongiurare che la riforma elettorale si intrecci con l’elezione del nuovo capo dello
Stato.
Renzi minaccia di cambiare interlocutore, di rivolgersi ai 5Stelle che gradirebbero il
Mattarellum (Fi, come terzo partito, non vincerebbero in nessun collegio). Il ministro
Boschi chiede a Fi «un’accelerazione» e poi precisa che l’interlocutore del governo non è
Verdini, ma Fi. Un modo per dire che è meglio evitare la presenza di Denis al prossimo
incontro. Renato Brunetta si chiede perché Renzi ha tenuto ferma la legge elettorale per
otto mesi mentre ora ha fretta. «Renzi vuole il premio di maggioranza alla lista vincente e il
bipartitismo? Bene, allora accetti il presidenzialismo. Noi siamo pronti, lui no».
del 05/11/14, pag. 11
“Un nuovo centrodestra senza Berlusconi”
Il segretario della Lega Matteo Salvini ufficializza il lancio di un nuovo
soggetto politico “nero-verde” Forza Italia lo attacca: “Senza di noi non
esisti”. Altolà anche di Umberto Bossi: “Il leader è e resterà il Cavaliere”
CARMELO LOPAPA
ROMA .
Più che un’Opa ostile sul trono del centrodestra, è l’annuncio del “parricidio”. La prima
dichiarazione di indipendenza da Silvio Berlusconi da parte del leader leghista Matteo
Salvini. E come tale è stata letta ad Arcore, scuotendo non poco il padrone di casa.
«Questo è un colpo basso, da Matteo non me l’aspettavo, dove pensa di arrivare contro di
me? Lui non potrà mai essere il baricentro dei moderati» si è sfogato l’ex Cavaliere.
Dando il “la” a una sfilza di attacchi a Salvini da tutto il fronte forzista.
Ma cosa ha scatenato la tempesta a destra? Il leader leghista si è molto galvanizzato alla
lettura dei sondaggi delle ultime settimane. Il 31 ottobre “Ixé” per Agorà attestava Salvini al
secondo posto (20 per cento) per gradimento, dopo Renzi, e ben prima di Grillo e dello
stesso Berlusconi. Da qui la decisione di sferrare l’attacco mai osato fino a ieri e di
lanciare ufficialmente la campagna “sudista” di conquista delle regioni sotto Roma con la
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pur nebulosa “Lega dei popoli”. Un’intervista a “Libero” («Mi prendo il centrodestra»), poi
una conferenza stampa a Montecitorio al fianco di Maroni e Zaia col pretesto della legge di
stabilità in cui definisce la road map. Il capo del Carroccio si prepara al «lancio a fine mese
di un nuovo soggetto politico: un progetto culturale, non un cartello elettorale, perché non
mi interessa un centrodestra che sia una sommatoria di Lega, Forza Italia e Ncd». Che
farne di Berlusconi? «Lui pensa a una nuova edizione di Forza Italia ma il mondo è
cambiato». È il punto di svolta, che funziona da detonatore nella trincea forzista. I dirigenti
che hanno sentito l’ex premier non hanno potuto fare a meno di ricordargli le «troppe
concessioni» a Salvini in questi mesi. Le frequenti comparsate sulle reti Mediaset, la
copertina di Panorama di un paio di settimane fa (“L’altro Matteo”), perfino l’intervista a
“Mattino5” in cui Berlusconi non escludeva una leadership di Salvini: «Vedremo,
prematuro...». Ora il capo forzista sembra si sia reso conto, «sì, gli ho concesso tanto e
questo è stato il risultato, ma adesso la storia cambia» si è lasciato andare ieri.
Raccontano si stia perfino ricredendo sulla necessità di riaprire il dialogo troppo
rapidamente chiuso con l’Ncd di Alfano per le Regionali. Ora, l’alleanza con la Lega
proprio per le regionali (soprattutto in Veneto in primavera) non è in discussione, ma tutto il
resto sì. Dell’operazione lanciata dall’arrembante leader leghista non appare del tutto
convinto Umberto Bossi. «Berlusconi è e sarà il leader del centrodestra che verrà — taglia
corto il Senatur a Montecitorio — mentre Salvini può fare il leader della Lega dei popoli,
piace alla gente... ».
Il «nuovo soggetto politico» al quale Salvini pensa è un’aggregazione “nero-verde” nella
quale conta di coinvolgere, soprattutto nel Mezzogiorno, tanto Fratelli d’Italia quanto Casa
Pound. In nome del No Euro e della campagna anti immigrati che già li aveva visti sfilare
nelle stesse piazze il 18 ottobre. Ma proprio gli ex An di Fdi in queste ore osservano con
parecchio scetticismo l’accelerazione di “Matteo”. «Il centrodestra dovrebbe evitare di
rendere la sua scalata alla leadership del centrodestra così semplice » si inalbera Ignazio
La Russa prendendosela, senza citarlo, proprio con Berlusconi. Intorno al loro capo i
forzisti hanno eretto in poche ore un cordone sanitario. Già a mezzogiorno l’ex Cavaliere
detta alla portavoce Bergamini la replica stizzita («Non esiste un centrodestra senza
Berlusconi»), poi è “il Mattinale” di Brunetta a scrivere che «Salvini non può fare l’asso
pigliatutto», a seguire un coro, da Romani («Non si prescinde da Berlusconi ») alla Gelmini
(«La leadership si conquista») a tanti altri. L’appello finale ai suoi ex compagni di partito è
di Angelino Alfano, ormai acerrimo avversario di Salvini: «Mollatelo al suo destino, quello
di reggimoccolo di Marine Le Pen».
Del 5/11/2014, pag. 3
Enti locali a rischio default, in bilico stipendi
e servizi
Austerity. Fassino (Anci): "Ma ci sono passi avanti con il governo"
Mario Pierro
<<Il taglio di 1 miliardo per città e province rischia di far partire in default questi nuovi enti».
Lo ha detto ieri in un’audizione alla Camera sulla legge di Stabilità il presidente dell’Anci,
Piero Fassino. «C’è la disponibilità da parte del governo che il fondo crediti di difficile esigibilità non sia più di 1 miliardo e mezzo, ma di 500 milioni in più, con conseguente abbattimento del saldo di patto di stabilità interno», sostiene Fassino. «Questi passi significativi
che noi apprezziamo non esauriscono però tutte le questioni da noi poste».«Servono «ele27
menti correttivi» che scongiurino il crac finanziario — continua Fassino –noi non vogliamo
né ridurre i servizi né aumentare il prelievo fiscale». Il governatore del Piemonte Sergio
Chiamparino ha sottolineato che senza un percorso »condiviso che consenta di gestire in
modo sostenibile i 4 miliardi di tagli» c’è il rischio di un aumento delle imposte locali.
«L’unica possibilità per evitare il blocco dell’erogazione dei servizi e l’esubero del personale — sostiene l’Unione delle Province in un documento — è spostare, da subito in
Legge di stabilità, quelle funzioni che la Legge Delrio toglie dalla gestione delle Province:
formazione professionale, trasporto pubblico locale, centri per l’impiego, cultura, turismo,
sociale, agricoltura. Solo concentrando sulle funzioni fondamentali le risorse e il personale
necessario a svolgerle, potremo continuare a garantire la manutenzione delle strade, la
sicurezza nelle scuole, gli interventi di contrasto al dissesto idrogeologico, l’assistenza ai
comuni. Altra soluzione, per evitare il dissesto se non si vuole ridurre il taglio, non c’è».
Durissimo il giudizio dei sindacati sulla manovra. La Cgil prevede un «disastro sociale», la
Uil parla di una «crisi irreversibile», la Cisl di «dramma evidente per il Paese». Per il
segretario confederale Cgil Danilo Barbi «il governo sta programmando un disastro
sociale». La legge di stabilità è «inadeguata e insufficiente in termini di investimenti e politiche di sostegno alla crescita». C’è «l’assenza di qualsiasi disegno e coordinamento tra
politiche di sviluppo e politiche per il lavoro». Per Barbi l’esecutivo «scommette su una
forte riduzione delle tasse alle imprese» e «sulla svalutazione del lavoro». Bisognerebbe,
invece, puntare su «un piano straordinario per l’occupazione giovanile e femminile, da
finanziare attraverso un’imposta sulle grandi ricchezze finanziarie che con un gettito di
circa 10 miliardi di euro l’anno potrebbe garantire oltre 740mila nuovi posti di lavoro in tre
anni; una nuova politica industriale per l’innovazione e una forte riduzione del carico
fiscale sui redditi da lavoro e da pensione».
Del 5/11/2014, pag. 14
Cucchi, le domande senza risposte
Stefano Anastasia
Stefano Cucchi è morto a causa di azioni e omissioni del personale addetto alla sua cura
e custodia, ma non ci sono prove che le persone responsabili di tali azioni e omissioni fossero quelle portate in giudizio. Questo, in sostanza, quanto deciso dalla Corte di appello di
Roma venerdì scorso. Ancora una volta, una morte tutt’altro che naturale di una persona
trattenuta coattivamente sotto la responsabilità dello Stato non ha però responsabilità
penali acclarate (salvo che la Cassazione non disponga il rinnovamento del giudizio sulla
base di un qualche errore di interpretazione delle norme da parte della Corte di appello).
È questo innanzitutto il problema che questa sentenza ci pone: la sostanziale impunità
delle violenze (e dell’incuria) su persone la cui vita è affidata alle istituzioni pubbliche. Se
non vogliamo che i principi di garanzia dell’imputato nel processo penale, richiamati dal
Presidente della Corte di appello di Roma, non si risolvano in una foglia di fico per coprire
le responsabilità pubbliche e istituzionali, il problema dell’impunità delle morti accadute
sotto la custodia dello Stato va affrontato in ogni sede e a ogni livello.
Non è in discussione la libertà di associazione sindacale e meno che mai la libertà di opinione dei dirigenti sindacali nella Polizia di Stato, ma è mai possibile che i responsabili del
Sap e del Coisp continuino a dire le cose che dicono, scaricando la responsabilità di
quanto accaduto sulla famiglia nella quale – fino al giorno del suo arresto – Stefano Cucchi godeva di ottima salute? Le loro farneticanti dichiarazioni ledono solo la dignità
e l’immagine delle loro persone e dei sindacati di cui sono portavoce (hanno, cioè, solo
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una rilevanza privata) o ledono l’immagine e la dignità anche del corpo di polizia cui
appartengono? Non sono in discussione i principi della formazione della prova in dibattimento e della sussistenza della colpevolezza solo quando sia dimostrata oltre ogni ragionevole dubbio, ma siamo sicuri che nell’assoluzione dell’altro ieri non vi sia una implicita
condanna del funzionamento della giustizia italiana quando interviene su queste cose?
Se non sono quasi mai quelli rinviati a giudizio, non c’è un difetto di indagine e di autonomia della magistratura inquirente (e forse anche di quella giudicante) dalle forze di polizia
e dagli apparati istituzionali serventi la funzione giudiziaria?
Non è in discussione il principio di personalità nella responsabilità penale, ma siamo sicuri
che l’Amministrazione penitenziaria, la Polizia di Stato, l’Arma dei carabinieri, e finanche le
articolazioni interessate del Servizio sanitario nazionale non abbiano nulla da dire o da
fare in termini di responsabilità disciplinare e di formazione deontologica del personale
addetto alle «relazioni con il pubblico», quando il pubblico gli muore tra le mani per proprie
azioni e/o omissioni? Tutte queste domande rimaste aperte dietro quella, davvero capitale,
di Ilaria e della famiglia Cucchi («ma allora chi è stato?») non ammettono auto-assoluzioni
nascoste dietro sacri principi garantisti, scuse di circostanza e qualche colpo sul petto.
A queste domande devono rispondere le autorità politiche, amministrative e giudiziarie
competenti, dal Ministro dell’Interno a quello della Giustizia, dal vertice
dell’Amministrazione penitenziaria al Capo della polizia, dal Comando generale dell’arma
dei carabinieri ai responsabili dei servizi sanitari, fino al Consiglio superiore della magistratura. Fino a ora di risposte se ne sono sentite poche e maldestre. Ne aspettiamo di più
chiare e convincenti.
del 05/11/14, pag. 9
Imu alla Chiesa, la Ue riapre il caso
Ammesso dalla Corte di giustizia un ricorso che punta a recuperare le
somme non pagate dagli enti ecclesiastici nel periodo di “fiscalità
agevolata” dichiarato illegittimo nel 2012. Il valore del contenzioso è
stimato in 4 miliardi
ALBERTO D’ARGENIO
ROMA .
L’Unione europea riapre il caso sugli sconti fiscali alla Chiesa. Lo fa con una decisione, a
suo modo clamorosa, della Corte di giustizia del Lussemburgo: i giudici europei hanno
deciso di ammettere nel merito un ricorso che potrebbe costare agli enti ecclesiastici che
operano in Italia fino a quattro miliardi di euro, l’ammontare di Ici e Imu non pagato dal
2008. E in discussione potrebbero entrare anche le nuove regole approvate dal governo
Monti nel 2012 che, secondo i ricorrenti, hanno confermato gli sconti fiscali cambiando
solo apparentemente le regole già condannate dalla Commissione europea come aiuti di
Stato illegali.
Il caso è stato aperto nel 2006 da una denuncia dell’ex deputato Maurizio Turco e del
fiscalista Carlo Pontesilli, esponenti del Partito Radicale, contro una legge varata dal
governo Berlusconi in piena campagna elettorale. Dopo una serie di archiviazioni
(secondo alcuni osservatori in odore di insabbiamento) da parte di Bruxelles e numerose
contro denunce, nel 2012 hanno ottenuto la condanna del regime fiscale di favore
concesso ad alberghi, scuole e cliniche gestite dagli enti ecclesiastici. Si trattava dello
sconto del 100% sull’Ici, poi diventata Imu, e del 50% sulle tasse sul reddito, ovvero l’Ires
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sulle attività nei settori dell’istruzione e della sanità privata. Un sistema di favore che per
l’Antitrust europeo distorceva il mercato, favorendo i beneficiari rispetto ai concorrenti che
invece le tasse le pagavano tutte. Aiuto di Stato discriminatorio. Ma allora Bruxelles non è
andata fino in fondo e rinnegando una giurisprudenza ultra trentennale non ha ingiunto al
governo di recuperare i balzelli non pagati negli ultimi cinque anni. Una montagna di soldi
che l’Associazione nazionale dei comuni appunto stima intorno ai quattro miliardi.
Ora - con una decisione del 29 ottobre dell’Ottava sezione del Tribunale che ha applicato
una nuova norma del Trattato di Lisbona - la Corte del Lussemburgo ha dato torto alla
Commissione europea che chiedeva l’irricevibilità della causa e rinvia la questione a un
giudizio sul merito. Bruxelles avrà tempo fino al 10 dicembre per presentare una memoria
difensiva in grado di giustificare la decisione di non chiedere i rimborsi per «generale e
assoluta» impossibilità di procedere al recupero. Poi saranno i ricorrenti a presentare una
memoria e infine si arriverà a sentenza. Nel caso immediatamente esecutiva, appellabile
ma i cui effetti non potranno essere sospesi se non da un ribaltamento definitivo del
giudizio.
Ma la partita non si chiude qui. I ricorrenti sono convinti che la decisione della Corte possa
aprire a ulteriori sviluppi. Nel 2012 il governo Monti dopo un lungo negoziato con la
Commissione Barroso (allora si sussurrava di insistenti telefonate da entrambe le sponde
del Tevere in direzione Bruxelles) non solo era riuscito a limitare i danni e ad evitare il
recupero dei soldi trattenuti dagli enti ecclesiastici, ma aveva anche ottenuto la chiusura
del dossier sul futuro varando nuove regole che avrebbero dovuto rendere più rigoroso
l’accesso agli sgravi fiscali. Insomma, norme scritte per impedire che attività no-profit
beneficiarie di sconti fossero in concorrenza sul mercato svolgendo attività commerciali.
Ma i ricorrenti non la pensano così, e sono pronti ad allegare alla causa pendente di fronte
ai giudici del Lussemburgo la documentazione per dimostrare che di fatto rispetto alla
condanna del 2012 nulla è cambiato, impugnando anche la circolare del Ministero
dell’Economia della scorsa primavera che ha definito nel dettaglio le nuove norme,
secondo i denuncianti interpretando in modo troppo estensivo la legge di Monti e tornando
a favorire la Chiesa, anche permettendo a qualsiasi ente formalmente no-profit di operare
di fatto sul mercato senza pagare le tasse. La stessa denuncia sarà poi inoltrata ancora
una volta alla Commissione europea ora guidata dal lussemburghese Juncker, che come
commissario alla Concorrenza ha scelto la liberale danese Margrethe Vestager.
del 05/11/14, pag. 21
Protezione civile condannata a pagare per il
mancato G8 alla Maddalena
Senza soldi per combattere le emergenze, dovrà versare 39 milioni alla
società Mita
In cassa, la Protezione civile ha tre milioni. Anzi, li aveva prima delle alluvioni di ottobre.
Mentre scriviamo di sicuro non li ha più. Il suo capo Franco Gabrielli si sgola ripetendo che
dal 2011 le risorse sono state ridotte al lumicino, mentre avrebbe bisogno almeno di 300
milioni l’anno. Tutto inutile.
Dieci giorni fa, in compenso, un collegio arbitrale presieduto da Franco Gaetano Scoca ha
deciso che la Protezione civile deve pagare 39 milioni alla società Mita resort di Andrea
Donà dalle Rose ed Emma Marcegaglia, ex presidente della Confindustria: nominata nella
scorsa primavera presidente dell’Eni, ironia della sorte, dal governo con cui era in causa.
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Ma perché mai Gabrielli, che non ha un euro per combattere il fango, dovrebbe dare tutti
quei soldi a una società che gestisce lussuose residenze posseduta per metà da un
imprenditore che è anche manager pubblico? Semplice: sono i danni che Mita resort
avrebbe subito in termini di mancati guadagni a causa della bonifica mai completata dello
specchio di mare antistante all’ex Arsenale della Maddalena.
E il capo della Protezione civile si dovrebbe persino leccare i baffi, visto che la richiesta
iniziale era addirittura di 210 milioni.
L’avvocatura dello Stato ha ovviamente deciso di impugnare il lodo. Ma comunque vada a
finire, questa storia è un altro pezzetto dell’eredità ammorbante di quel bluff del G8 in
Sardegna capace di regalare alla Maddalena un cimitero di ferro e cemento disabitato da
cinque anni che il mare sta divorando.
Ricordiamo com’è andata. Per organizzarlo su quell’isola meravigliosa non si badò a
spese. In un baleno il conto arrivò a 400 milioni, con appalti maggiorati del 60 per cento a
causa dell’urgenza e di vari disagi, assegnati alle ditte della Cricca specializzate
nell’accaparrarsi i lavori dei Grandi eventi gestiti dalla Protezione civile dell’allora
onnipotente Guido Bertolaso. Nel vecchio Arsenale venne realizzata una struttura
alberghiera di lusso che avrebbe dovuto ospitare per il G8 i potenti della Terra. Sarebbe
stata una propaganda formidabile per il suo impiego successivo come resort e yacht club,
da assegnare in concessione trentennale ai privati.
Il «bando sartoriale», come l’ha definito su Repubblica Carlo Bonini, fu aggiudicato
all’unico partecipante: Mita resort, appunto, presieduta allora da Emma Marcegaglia. Che
oltre a essere presidente della Confindustria era anche in affari con una società statale,
Italia turismo del gruppo Sviluppo Italia, nonché con i «patrioti» (definizione di Berlusconi)
che avrebbero dovuto salvare l’Alitalia.
Quattrocento milioni letteralmente buttati dalla finestra. La decisione del premier Silvio
Berlusconi di spostare il G8 dalla Maddalena all’Aquila sconvolse lo scenario. La
concessione venne rinegoziata e allungata di altri dieci anni, fermo restando però
l’impegno a realizzare le bonifiche dell’area marina destinata a ospitare lo yacht club.
Dove c’era di tutto, dal mercurio agli idrocarburi pesanti. Peccato che quelle bonifiche non
siano mai state completate, e che addirittura l’operazione abbia provocato, secondo la
magistratura di Tempio Pausania che ha indagato 17 persone, danni ambientali ancora più
gravi.
Vero è che questo non ha impedito l’organizzazione delle regate della Luis Vuitton World
series, round della Coppa America di vela. Proprio lì in quell’acqua avvelenata e sempre
con i soldi della vecchia Protezione civile. Ma nemmeno ha impedito che sulla faccenda si
abbattesse un diluvio di carte bollate. Con lo Stato che cercava di tirare in ballo la Regione
Sardegna e la Regione che faceva di tutto per divincolarsi.
E intanto che litigavano, l’hanno avuta vinta i privati. I quali vengono pure liberati dalla
concessione, col risultato che lo spettrale resort di lusso dovrà essere preso in carico dal
suo proprietario, la Regione Sardegna. Buona fortuna al governatore Francesco Pigliaru.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 05/11/14, pag. 10
Nota dell’Arma smentisce
Mancino su stragi e 41-bis
Giuseppe Lo Bianco
La sua posizione non è mai cambiata e l’ha confermata nell’ultima dichiarazione di lunedi
scorso: “Io non ho saputo mai nulla di una trattativa fra mafia e Stato. Così come non
sanno nulla Napolitano, Ciampi e Scalfaro. E sono sicuro che anche Spadolini avrebbe
detto la stessa cosa”, ha ribadito il senatore Mancino commentando la deposizione di
Napolitano. Questa volta, però, a smentirlo, è arrivata una nota del comando generale
dell’Arma dei carabinieri dell’8 febbraio 1994, a pochi giorni dalla cattura a Milano dei
fratelli Graviano, che segna la fine delle ostilità stragiste di Cosa Nostra aprendo la strada
al primo governo Berlusconi del marzo successivo. Depositata agli atti del processo della
Trattativa Stato mafia e inviata al Gabinetto del ministro dell’Interno dell’epoca (Mancino,
ndr), al Sisde, al Sismi, alla Guardia di Finanza e al Cesis la nota conferma per la prima
volta come i carabinieri ai più alti livelli (dopo la Dia di De Gennaro e lo Sco di Manganelli)
sapevano perfettamente quello che accadeva in quell’estate infuocata del ‘93 e, cioè una
trattativa tra Stato e mafia mirata al carcere duro. E, sia pure in forma ipotetica, ma chiara,
lo rassegnavano al ministro dell’Interno Nicola Mancino. “In merito agli attentati di Roma,
Milano e Firenze –scrive il comando generale –era stato ipotizzato che le organizzazioni
criminali avessero incluso nella loro politica stragista anche l’obbiettivo di avviare una
negoziazione con lo Stato diretta ad ottenere l'abbattimento delle misure detentive
applicate in forza dell’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario e che, comunque, il rinnovo
dei decreti del 20 luglio ‘93 potesse essere stata l’occasio - ne scatenante degli episodi
criminosi”. E a distanza di pochi giorni dalle ultime proroghe dei provvedimenti di carcere
duro, mettevano in guardia il ministro dal rischio di nuovi attentati. “Se ciò risponde al vero
– conclude il paragrafo criminalità organizzata della nota – è ragionevole ipotizzare che in
conseguenza della proroga dei provvedimenti scaduti si possano verificare ulteriori gravi
attentati”.
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
Del 5/11/2014, pag. 6
Profughi e rom, l’Europa condanna l’Italia
Diritti. Mancanza di certezze sul l’alloggio e proseguimento della politica
dei campi
L’Italia finisce nel mirino dell’Europa per quanto riguarda il modo in cui nel nostro Paese
vengono trattati richiedenti asilo e rom, tanto da rischiare l’apertura di una procedura di
infrazione da parte della Commissione europea per l’esistenza di campi-ghetto in cui vengono ospitate le famiglie rom.
Due i casi che hanno suscitato l’attenzione delle istituzioni europee. Il primo riguarda una
famiglia di afghani che rischia di essere espulsa dalla Svizzera verso l’Italia e che per evitare questa possibilità ha presentato ricorso alla Corte di Strasburgo per i diritti umani. E la
corte ieri, condannando la Svizzera per la procedura di espatrio, ha stabilito che l’Italia
è un Paese che non offre sufficienti garanzie ai richiedenti asilo per quanto riguarda
l’alloggio. La famiglia, padre, madre e sei figli nati tra il 1999 e il 2012, era arrivata sulle
coste calabresi nel 2011 dall’Iran e quindi, in base al regolamento di Dublino, il Paese
competente per decidere della loro richiesta d’asilo era l’Italia. Ma la famiglia preferì
recarsi prima in Austria e poi in Svizzera per vedersi riconosciuto questo diritto, temendo
che in Italia le condizioni di vita sarebbero state inadatte, soprattutto per i bambini. E la
Corte europea dei diritti umani ieri gli ha dato ragione. I giudici hanno infatti stabilito, in una
sentenza definitiva, che qualora il governo svizzero dovesse rinviare la famiglia in Italia
senza prima aver ricevuto da questa dettagliate informazioni su dove e come la famiglia
verrebbe alloggiata, si concretizzerebbe una violazione del loro diritto a non essere sottoposti a trattamenti inumani e degradanti. Secondo i giudici, «non è infondato ritenere che
i richiedenti asilo rinviati adesso in Italia da altri Paesi europei, in base al regolamento di
Dublino, corrano il rischio di restare senza un luogo dove abitare o che siano alloggiati in
strutture insalubri e dove si verificano episodi di violenza». È la prima volta che la Corte di
Strasburgo si pronuncia contro un invio in Italia di richiedenti asilo da un altro Paese europeo. Una decisione simile finora era stata presa solo nei confronti della Grecia. In base
alle informazioni fornite dalla Corte ci sono circa 20 ricorsi pendenti simili a quello della
famiglia afghana. Il secondo caso riguarda invece le condizioni dei campi in cui vengono
ospitati i rom e ha interessato la Commissione europea che adesso minaccia di aprire una
procedura di infrazione per via delle politiche abitative segregative che le autorità italiane
continuano ad attuare nei confronti dei rom. A far esplodere il caso è stata una lettera
inviata dalla Direzione generale giustizia della Commissione europea al governo italiano
e resa pubblica dall’Associazione 21 Lugio. «Nella missiva la Commissione europea punta
il dito sulla condizione abitativa dei rom nel nostro Paese richiedendo alle autorità italiane
informazioni aggiuntive» e soffermandosi in particolare sul campo di situato in località La
Barbuta a Roma. Si tratta, spiega la 21 Luglio, di «un sito molto remoto e non accessibile,
e dotato di recinti e impianti di sorveglianza. Dispositivi di alloggio di questo tipo risultano
limitare gravemente i diritti fondamentali degli interessati, isolandoli completamente dal
mondo circostante e privandoli di adeguate possibilità di occupazione e istruzione. Malgrado il rischio di una procedura di infrazione paventato dall’Europa — prosegue
l’associazione -, il Comune di Roma sembra voler continuare con una politica che rafforza
il ‘sistema campi’ programmandone la progettazione e la costruzione di nuovi».
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SOCIETA’
del 05/11/14, pag. 15
LO SCONCIO DEI DISABILI SENZA SCUOLA
OGGI DAVANTI A MONTECITORIO LA CONSEGNA DEI DOSSIER: LE
STORIE DEI RAGAZZI CUI È NEGATO IL DIRITTO ALL’ISTRUZIONE
Cos’è cambiato da metà settembre, quando è partita la campagna di Tutti a scuola con il
Fatto ? Poco o nulla. Anzi, qualcosa sì: nella legge di Stabilità è previsto un taglio di 100
milioni al Fondo per la non autosufficienza. Dopo l’estate delle docce gelate, il risultato è
questo. La campagna era iniziata con il caso di Napoli: seicento ragazzi disabili lasciati a
casa da scuola, perché la Provincia non ha fondi (la situazione è tuttora immutata). Oggi
davanti a Montecitorio –dalle 11 alle 15 –si terrà una manifestazione con un presidio e la
consegna del dossier al governo. Ci saranno i ragazzi di Tutti a scuola con le loro famiglie:
chiedono solo di poter andare a scuola, di avere accesso a un diritto garantito dalla
Costituzione. Ma che dovrebbe essere assicurato dall’umanità, da un’idea nemmeno
troppo ampia di dignità. Per questi bambini e ragazzi, andare a scuola è tutto: la scuola è
la vita, perché significa crescere, progredire, imparare, socializzare. Significa il tentativo di
una normalità possibile. Leggete le loro storie qui sotto: e poi dite se questo è un Paese
civile.
del 05/11/14, pag. 12
La campagna di Tutti a scuola con il Fatto
ALL’INIZIO dell’anno scolastico è stato subito chiaro che eravamo alle solite. A forza di
tagli, patti di Stabilità (per non dire dei problemi legati alla pseudo abolizione delle
Province) la situazione scolastica dei bimbi e ragazzi affetti da handicap e disabilità
continua a peggiorare. Tanti, troppi, di loro non cominciano nemmeno l’anno scolastico:
restano a casa.
MANCANO i fondi per l’assistentato materiale, il trasporto, gli insegnanti di sostegno. A
metà settembre l’associazione Tutti a scuola, assieme al nostro giornale, ha lanciato una
campagna, invitando i genitori a segnalare i casi di disservizi scolastici legati alla disabilità.
Sono arrivate centinaia di segnalazioni da tutta Italia: oggi il dossier sarà consegnato al
governo.
del 05/11/14, pag. 17
Sì al divorzio facile e cause più veloci
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Passa con la fiducia il primo provvedimento del pacchetto Giustizia.
Meno ferie per i magistrati
ROMA Grazie a un altro voto di fiducia, il governo porta a casa il primo provvedimento del
pacchetto Giustizia varato il 30 agosto dal Consiglio dei ministri. Con 353 sì e 192 contrari,
la Camera ha approvato il testo proposto dalla II commissione per convertire in legge il
decreto che mira a velocizzare la giustizia civile, sepolta sotto 5 milioni di procedimenti
pendenti. Il voto finale è previsto per domani. Poi non resta che attendere la pubblicazione
sulla Gazzetta ufficiale per vedere gli effetti del provvedimento: tra gli altri il divorzio
davanti all’ufficiale civile senza l’assistenza obbligatoria dell’avvocato (solo in assenza di
figli minorenni), la riduzione dei termini feriali nei tribunali (la sospensione sarà dal 1° al 31
agosto) e la contrazione (da 45 a 30 giorni) delle ferie dei magistrati.
In realtà, il decreto che ha fatto molto rumore perché sottrae ben 15 giorni al periodo
estivo di sospensione dei termini feriali, contiene molti interventi per arginare i 4,5 milioni
di procedimenti civili che ogni anno vengono aperti nei tribunali. I correttivi messi a punto
prevedono la facilitazione del procedimento arbitrale e la conciliazione con l’assistenza
degli avvocati. Una corsia preferenziale che, però, avrà un costo per chi la richiede.
Dello stesso segno sono gli interventi finalizzati a frenare l’abuso di giustizia: chi perde la
causa dovrà rimborsare le spese dell’intero processo; le cause semplici saranno sempre
istradate sul binario del rito ordinario; chi non paga volontariamente i propri debiti alla fine
dovrà sborsare molto di più; il creditore potrà conoscere tutti i beni del suo debitore, con
accesso per il tramite dell’ufficiale giudiziario alle banche dati pubbliche (anagrafe
tributaria, archivio dei rapporti finanziari). Previste, poi, nuove modalità di pignoramento
degli autoveicoli.
Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, è molto soddisfatto: «Ora abbiamo il primo
provvedimento del pacchetto Giustizia che diventa legge e pone le condizioni per
affrontare l’arretrato civile e anche per cambiare il processo civile che affronteremo con la
delega in maniera più organica». Il secondo passo infatti, dopo l’istruttoria affidata dal
ministro alla commissione presieduta dal giudice Giuseppe Berruti, sarà quella di
coordinare in un disegno organico gli interventi messi in cantiere.
A proposito delle ferie dei magistrati, ora si attende l’assemblea generale indetta per
domenica in Cassazione dall’Associazione nazionale magistrati: «La misura non è punitiva
ma è una richiesta di collaborazione per aiutare al Paese», dice il responsabile Giustizia
del Pd, David Ermini.
Al Senato, invece, con margini meno rassicuranti per la maggioranza, oggi iniziano le
votazioni in commissione sul testo Buemi emendato dal governo che amplia la
responsabilità civile dei magistrati. E qualche serio grattacapo per il Pd potrebbe arrivare
da un altro ddl di Enrico Buemi (socialista eletto nelle liste dem) che propone di modificare,
in senso garantista, la legge anticorruzione che porta il nome di Paola Severino.
Dino Martirano
Del 5/11/2014, pag. 1-15
LA QUESTIONE GIOVANILE E LA SINISTRA
Se la sinistra non trova le nuove generazioni
Piero Bevilacqua
Dobbiamo a un valente demografo, Massimo Livi Bacci, una circostanziata analisi della
questione giovanile in Italia alla vigilia della Grande Recessione (Avanti giovani alla
riscossa, Il Mulino, 2008). Lo studioso mostrava come la fascia di popolazione tra i 15 e 30
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anni viveva una condizione di emarginazione sociale che la distingueva tra i paesi
dell’Europa a 15.I giovani italiani, ad esempio, dipendevano per il 50% dal reddito della
famiglie, contro il 30% della media europea. Gli adulti in Italia guadagnavano in media 2,8
volte il reddito dei giovani, contro 2,5 volte in Francia, 1,9 volte in Germania.
Ma in generale i nostri ragazzi risultavano più indietro nel completamento degli studi, nel
trovare occupazione, metter su casa, formare una propria famiglia. In sintesi, il grado di
autonomia, la capacità di emancipazione e di libertà individuale della gioventù italiana
apparivano inferiori a quella di gran parte dei coetanei europei per quasi tutti gli indici presi
in esame. E quell’analisi non scendeva alla più basse fasce d’età. A metà anni ’90 i bambini italiani sotto la linea mediana ufficiale della povertà rappresentava il 21,3% del totale,
terzi dopo USA (26,3%) e Russia (21,3) (The Dynamics of Child poverty in industrialised
Countries, Cambridge 2001).Piazzamento davvero onorevole.
Ricordo questi dati – cui sono seguite e continuano a seguire altre importanti ricerche
come il Rapporto dell’Istituto G.Toniolo, La condizione giovanile in Italia, il Mulino 2013 –
per sventare in anticipo una manipolazione consueta: quella di rappresentare un grave
problema strutturale come esito transitorio della “crisi” degli ultimi anni. E’ evidente invece
che la condizione di emarginazione della nostra gioventù precede la crisi, è l’esito aggravato di un corso politico che dura da decenni, alla cui base c’è una cronica disoccupazione
e la sempre più dispiegata precarizzazione del lavoro. Alla falange dei giovani che negli
ultimi decenni accedevano alle prime occupazioni si è parato dinanzi una crescente mancanza di sbocchi e la strada stretta di una legislazione sempre più svantaggiosa ed emarginante. Sicché non stupisce se la disoccupazione giovanile tocca oggi il picco del 44%,
mentre il numero di giovani tra i 15 e i 24 anni che non lavorano, non studiano, non
seguono corsi formazione (Neet) hanno raggiunto il primato europeo del 22,25%. Con la
crisi la divaricazione generazionale è solo aumentata: gli over 65 sono diventati più ricchi,
quelli sotto i 40 ancora più poveri.
Forse però questi dati non dicono ancora la grande novità storica: la classe dirigente
anziana che detiene il potere, da anni sta muovendo una vera e propria lotta di classe contro la gioventù del nostro paese. Padri e nonni ricchi contro figli e nipoti poveri, o precari
e subalterni. Essa surroga sempre più il welfare pubblico con la famiglia, i diritti universali
con il familismo. Quando, ovviamente, la famiglia non è anch’essa povera… Lo fa con gli
strumenti del governo, attraverso il ceto politico, e direttamente nelle istituzioni pubbliche
e nei luoghi di lavoro privati. Pochi dati da aggiungere a quelli più noti, inflitti dalla “legislazione di guerra” dell’ultimo governo Berlusconi-Tremonti, e poi proseguita dagli altri esecutivi. Negli ultimi 10 anni le tasse universitarie sono cresciute del 63%, mentre in Danimarca, Svezia, Norvegia, Finlandia, Germania ci si laurea gratis. In compenso le borse di
studio sono crollate al 7,5 %, a fronte di uno studente su tre della Francia. Anche i posti di
dottorato, già scarsi, sono diminuiti del 19%.
Nel frattempo si rende sempre più estesa la pratica del numero chiuso per gli accessi alle
facoltà universitarie, si sbarra la strada all’istruzione con una giungla di norme e di vessazioni, con lo scopo di ricostituire una Università di élite, gettando negli occhi dell ‘opinione
pubblica il fumo del merito e dell’eccellenza. Ma ciò che sfugge a ogni statistica è il dilagare del lavoro non pagato: nelle fabbriche si diffondono gli “stages gratuiti”, nelle scuole
i supplenti giovani spesso non ricevono gli stipendi o li ricevono con enormi ritardi, ma
stanno al gioco con il fine di “fare punteggio”.
Nell’Università non si conta più il lavoro volontario degli aspiranti ricercatori che sperano in
un assegno di ricerca o in un concorso a venire. Negli studi degli avvocati e in tante altre
attività professionali i giovani lavorano per anni senza reddito, per “imparare il mestiere”.
E la pratica dei master a pagamento, che promettono carriera e posti di lavoro, rasenta in
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tanti casi la truffa. Dove domina il “libero mercato” chi è già incluso e organizzato tende
a togliere spazi a chi arriva.
Dovrebbe dunque essere chiara l’enormità economica, politica, umana della questione
giovanile in Italia, articolazione generazionale della disuguaglianza strutturale creata dalle
pratiche neoliberistiche in tutto il mondo.Incarnazione e insieme causa ed effetto del
nostro declino. Almeno due generazioni stanno letteralmente andando perdute, consumeranno la loro gioventù tra lavori intermittenti, disoccupazione, attese, frustrazioni, scarso
reddito, impossibilità di progettare alcunché. Il nostro paese sta rinunciando all’energia
vitale, alla creatività, capacità di lavoro e di progetto della sua scarsa riserva demografica.
Scarsa, perché i giovani sono una minoranza: poco più di 10 milioni tra i 20 e i 34 anni al
censimento del 2011, a fronte di quasi 49 milioni e mezzo del totale. Tutto questo mentre
ci assorda la retorica sulla necessità della competizione, della valorizzazione del “capitale
umano”, sulla crescita, e le altre fuffe che la miserabile cultura capitalistica dei nostri anni
riesce a elaborare.
Ora, io credo che la questione giovanile costituisca una straordinaria occasione politica
per la sinistra e una leva potente per invertire il declino. Alle retoriche del governo e sue
adiacenze si può contrapporre un vero e proprio programma per la gioventù, quale parte di
un progetto per l’intero paese. La prospettazione di una serie di obiettivi che possano
mobilitare il consenso e anche l’entusiasmo giovanile, oggi sommerso sotto una montagna
di delusioni e rancore. Non si tratta solo di rivendicare il reddito minimo di base, che comporta rilevanti impegni di spesa, ma anche di puntare a iniziative legislative “minori”, che
possano ricreare un clima di fiducia tra la politica – che è cosa diversa dalla propaganda
elettorale – e le nuove generazioni.
Perché, ad esempio, non consentire ai nostri ragazzi , entro una determinata fascia di età,
sconti importanti per l’ingresso ai teatri, ai musei, per l’acquisto di libri, per la mobilità?
Perché non creare un fondo di garanzia che consenta l’apertura di mutui da parte delle
banche alle giovani coppie che non possono contare su un reddito continuativo e sicuro?
Perché non aprire un campagna per la costituzione di nuove case per gli studenti (utilizzando caserme o altri stabili dismessi), la diffusione sul territorio di asili nido che aiuterebbero tanto le giovani coppie a cercare e mantenere un lavoro? Sono solo esempi di quel
che si può proporre, di quel che si può fare per attivare la fantasia dei diretti interessati,
che devono uscire dalla loro rassegnata frantumazione e porsi come soggetto consapevole di una ripresa della lotta di classe in quanto generazione e aggregato sociale. Ma per
intestarsi questa battaglia la sinistra radicale e popolare, deve riprendere il passo che ha
perduto in questi ultimi tempi: deve “andare” dai giovani, davanti alle fabbriche, alle scuole,
alle università, ovunque si trovino. Deve andare adesso, non alla vigilia delle elezioni, per
fare eleggere qualche pur bravo candidato. Deve riacquistare il gusto di organizzare persone e lotte. E’ questo il terreno su cui movimenti e figure politiche, oggi variamente collocate, possono trovare il punto sperimentale di aggregazione che tutti attendiamo. E’ una
strada drammaticamente obbligata. Renzi e i suoi non sposteranno di un centimetro il
piano inclinato in cui l’Italia va precipitando. Preparano solo gli strumenti politici per controllare la disgregazione sociale che sta dilagando nel paese.
Con questo articolo apriamo una campagna di discussione sul nostro giornale, versione cartacea e on line, sui problemi delle giovani generazioni. Pubblicheremo
denunce, analisi, racconti di esperienze personali, ma anche suggerimenti e proposte che perverranno dai vari settori della società italiana. Se ci riusciremo metteremo insieme un Libro bianco sulla condizione della gioventù scritto dai diretti protagonisti. Ma nel frattempo intendiamo alimentare un ambito specifico della lotta
politica nel nostro paese.
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BENI COMUNI/AMBIENTE
(ins. Tuttogreen) del 05/11/14, pag. VI
Le città italiane, ecosistemi in crisi
Verbania al top, Agrigento è ultima
La recessione strangola il trasporto pubblico; segnali positivi per la
raccolta dei rifiuti
Francesco Grignetti
Ecosistema urbano, quanto è difficile rendere amiche le nostre città. L’ultimo Rapporto
della Legambiente sulla vivibilità ambientale dei capoluoghi di provincia italiani, presentato
a Torino nei giorni scorsi, è l’ennesimo grido di dolore. Le città italiane si rivelano a tre
velocità: lente, lentissime, o statiche. Un pianto al confronto con quello che si può vedere
in giro per l’Europa.
La classifica sulla vivibilità urbana, che tiene conto dell’aria, dell’acqua e dell’energia, lo
stato della mobilità, della raccolta rifiuti e anche degli incidenti stradali, propone al vertice
Verbania, Belluno, Bolzano, Trento e Pordenone. A passarsela meglio sono in genere le
città medio-piccole, soprattutto del Nord, anche se tra le prime 10 in classifica troviamo tre
città del Centro: Oristano, L’Aquila e Perugia. Agrigento, all’opposto, è ultima assieme a
Crotone e Isernia. A Crotone, per dire, sono appena 0,02 i metri quadrati di superficie
pedonale a disposizione di ogni residente; soltanto il 16,6% dei rifiuti è raccolto in modo
differenziato. Isernia dichiara l’8% di rifiuti raccolti in maniera differenziata, 71 auto ogni
100 abitanti, zero metri equivalenti di strada destinata ai ciclisti, zero potenza installata da
solare termico e fotovoltaico negli edifici comunali. Quanto allo smog, aumentano le
situazioni critiche nei Comuni più grandi: lo mostrano gli indici di biossido di azoto a
Trieste, Milano, Torino e Roma. «Solo a Bolzano - si legge - le politiche di mobilità sono
riuscite a limitare gli spostamenti motorizzati privati al di sotto di un terzo degli spostamenti
complessivi». In 26 città invece il 66% degli spostamenti si fanno con auto e moto private.
Eppure, in tanto sfacelo, ci sono diverse esperienze che fanno ben sperare. A TorinoMirafiori c’è la prima e unica Zona 30 chilometri l’ora di concezione «europea»: 50 ettari in
cui vivono 10.000 abitanti. Nel giro di due anni il traffico nelle ore di punta è diminuito del
15% circa e del 30% per i mezzi pesanti; si sono ridotti del 74% i giorni di prognosi per
incidenti; il rumore è diminuito di 2 decibel; il risparmio complessivo è stato di 1,5 milioni di
euro, di cui 500.000 soltanto di costi sanitari. E il 68% dei residenti si dichiara soddisfatto.
Ad Andria, in Puglia, la raccolta differenziata dei rifiuti era del tutto sconosciuta fino
all’estate del 2012: in pochi mesi, «per merito innanzitutto dei cittadini andriesi - riconosce
Legambiente - che hanno operato un profondo cambiamento nel loro stile di vita
quotidiano», le cose sono cambiate radicalmente. Ad Andria ora si raccoglie il 66,7% di
rifiuti in maniera differenziata.
In generale la raccolta dei rifiuti è diventata una cartina di tornasole della vivibilità urbana.
Si osservano, al solito, due Italie: un terzo dei Comuni non raggiunge nemmeno l’obiettivo
del 35% da centrare nel lontano 2006. Un altro terzo invece supera abbondantemente il
50%. E 8 Comuni virtuosi - tra cui due città campane, Benevento e Salerno - hanno
superato l’obiettivo di legge del 65%, «ponendo le basi per lo sviluppo di un’economia
basata sul riciclo e riuso delle risorse che è una dei pilastri fondamentali dell’agenda
europea per il 2020». È in grave ritardo, invece, lo sviluppo del trasporto pubblico, che
anzi arretra sotto i colpi della crisi finanziaria. «Eppure - ragiona il presidente di
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Legambiente, Vittorio Cogliati Dezza - è proprio la crisi economica in edilizia, la pessima
qualità della mobilità urbana, le opportunità offerte dalla digitalizzazione e dalle nuove
tecnologie energetiche, che rendono possibile e necessario avviare concreti percorsi di
rigenerazione urbana. Serve un piano nazionale che mostri una capacità politica di
pensare un modo nuovo di usare e vivere le città. Purtroppo, il decreto SbloccaItalia
rappresenta solo l’ennesima occasione persa».
del 05/11/14, pag. 50
89.000 posti se l’Italia nel 2020 riciclerà il 50% degli scarti urbani. Lo
prevede il rapporto del consorzio Conai presentato oggi agli Stati
Generali dell’economia sostenibile a Rimini Fiera, dove si fa il punto sul
futuro dell’ambiente
Green jobs Rifiuti, e il Paese torna al lavoro
ANTONIO CIANCIULLO
Altri 89mila posti di lavoro e un aumento di fatturato di 6,2 miliardi nel periodo 2014 2020.
È il regalo che porterebbe all’Italia il rispetto dell’impegno a riciclare il 50 per cento dei
rifiuti urbani spostando carta, vetro, plastica, metalli, legno e organico dalla discarica agli
impianti di recupero. Il calcolo sta nel rapporto che il Conai (Consorzio nazionale per il
recupero degli imballaggi) presenta agli Stati Generali della Green Economy che si
tengono oggi e domani a Ecomondo, alla Fiera di Rimini.
«Noi abbiamo fatto un conteggio teorico e un conteggio pratico», spiega Roberto De
Santis, presidente del Conai. «Nel primo caso si ipotizza un Paese perfetto, in cui tutte le
regioni raggiungono al 2020 l’obiettivo minimo del 50 per cento e l’uso della discarica
viene praticamente azzerato. Bellissimo, e si arriverebbe a quasi 200mila posti di lavoro
aggiuntivi. Ma, diciamo la verità, è più un sogno che una previsione.
Noi riteniamo invece, dati alla mano, che nel 2020 si possa arrivare al 50 per cento di
riciclo come somma di regioni che andranno oltre l’obiettivo e di regioni in ritardo. Questa
valutazione è realistica e dà risultati molto interessanti, compresi i 4 milioni di tonnellate di
rifiuti che potrebbero venire sottratti alla discarica».
Una proiezione figlia del presente. Oggi la media italiana è data da due elementi principali:
un terzo dei rifiuti urbani che viene avviato al riciclo e poco più del 40 per cento che va in
discarica; ma al Nord questo 40 per cento si dimezza, mentre nel Centro Sud sale al 60
per cento. Vuol dire che lo scenario virtuoso poggia su un aumento della raccolta
differenziata nelle aree in cui è ancora molto bassa e su un aumento del numero di
impianti di trattamento in quelle in cui i cittadini fanno già la loro parte ed è il sistema
industriale a essere indietro. L’insieme di questi due interventi dà un volume d’affari
incrementale della filiera (raccolta differenziata, trasporto, riciclo, compostaggio) pari a 6,2
miliardi nel periodo 2014-2020, con 1,7 miliardi di investimenti in infrastrutture e un valore
aggiunto di 2,3 miliardi. «Per raggiungere questo risultato occorre però agire anche dal
lato dell’offerta: bisogna creare più prodotti che utilizzano materiali riciclati», aggiunge De
Santis. «È vero che c’è il green public procurement , cioè l’obbligo da parte della pubblica
amministrazione di una quota di acquisti green, ma è anche vero che bisogna allargare il
mercato spendendo in ricerca per ampliare la gamma dell’offerta. Come Conai abbiamo
investito 400mila euro per migliorare la qualità dei processi di lavorazione dei materiali
giunti dalla raccolta differenziata». Le premesse per arrivare in tempo al traguardo ci sono.
Sette regioni (Piemonte, Lombardia, Trentino, Veneto, Friuli, Marche e Sardegna) hanno
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già raggiunto l’obiettivo del 50 per cento di riciclo e altre tre Regioni (Emilia Romagna,
Valle d’Aosta e Umbria) appaiono vicine al traguardo (superano il 46 per cento). Lo
documenta la Banca dati presentata nei giorni scorsi da Anci (Associazione nazionale
comuni italiani) e Conai: «C’è una metà dell’Italia che si è impegnata con successo e ha
raggiunto in anticipo l’obiettivo europeo», spiega Filippo Bernocchi, delegato Anci per
energia e rifiuti. «In queste zone virtuose quasi tutto quello che si raccoglie viene
recuperato, mentre in altre la raccolta differenziata cresce molto più velocemente del
riciclo. E questo vuol dire che si fa male, sprecando denaro, emissioni di anidride
carbonica, energia per trasportare materiali mai utilizzati. Per questo noi riteniamo che
occorra concentrare l’attenzione sul recupero, non sulla raccolta differenziata».
«Nella Ue a 28 Paesi raggiungere l’obiettivo del 50 per cento di riciclo significa creare
875mila posti di lavoro: solo con il riciclo degli imballaggi risparmiamo 2,2 miliardi di euro
di energia», aggiunge Alessandro Marangoni, ad di Althesys, la società di ricerca che il 19
novembre presenta il primo rapporto del WAS - Waste Strategy, il think tank sulla gestione
dei rifiuti e il riciclo. «Inoltre il riciclo contribuisce a migliorare la bilancia dei pagamenti
dell’Italia evitando importazioni di materie prime per 6,5 miliardi di euro» .
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INFORMAZIONE
Del 5/11/2014, pag. 14
Editoria a rischio ko
Ri-mediamo. Delitto "perfetto" del governo Renzi. Mentre decine e
decine di giornali chiudono, il governo azzera il fondo editoria nella
legge di stabilità 2015. Nemmeno il fascismo aveva osato tanto con la
libertà di informazione
Vincenzo Vita
Chissà se il maestro Muti vorrà portare – davanti a Palazzo Chigi — la Messa da Requiem
di Verdi, così mirabilmente diretta lo scorso 10 ottobre a Chicago in occasione
dell’anniversario dei duecento anni dalla nascita del grande compositore di Busseto. Testo
e musica ben si addicono alla imminente morte dell’editoria non profit, cooperativa, locale
– circa cento testate, di cui un terzo è già defunta o in agonia — alla cui esistenza
dovrebbe contribuire la specifica posta istituita presso la presidenza del consiglio.
Il Fondo fu introdotto e aggiornato da una lunga sequenza normativa (l. 416/1981, l.
67/1987, l. 250 /1990, l. 62/2001, DPR 223/2010, l. 103 /2012), per controbilanciare lo
strapotere televisivo e l’iniqua distribuzione della pubblicità. Proprio la l. 103/2012, ora in
vigore, vincola i finanziamenti ai contratti di lavoro a tempo indeterminato e alla diffusione
effettiva. Sempre in attesa della tanto agognata riforma del sistema, di cui c’è bisogno
come il pane: in un’Italia scivolata al 49° posto della classifica per la libertà di informazione e retta (si fa per dire) da una normativa figlia dell’era dei grandi gruppi e del conflitto
di interessi.
Ricapitoliamo gli eventi. Il Fondo è passato da 506 milioni di euro del 2007 agli attuali
55,9: cifra calcolata al netto delle spese «fisse», che curiosamente premono sulla stessa
voce (rimborso a Poste Italiane, convenzioni della Rai, e così via). In verità, ecco il fulmine
a ciel sereno (?) della improvvisa incertezza sulla sorte del già insufficiente capitolo di
bilancio. «Chi l’ha visto?», cantava Gaber, ironizzando con simpatia sulla storica trasmissione della terza rete della Rai. Appunto, chi l’ha visto il Fondo, visto che se ne sono perse
le tracce. Il sottosegretario con delega all’editoria Lotti sembrerebbe preoccupato.
E ne ha motivo, visto che la fine di un così rilevante numero di testate sarebbe ununicum nella storia nazionale: neppure con il fascismo era successo qualcosa di simile.
Ma non finisce qui. Il delitto diviene perfetto con il capitolo 2183, Tabella C dellaLegge di
stabilità 2015, in discussione in questi giorni alla camera. I virtuali 98,5 milioni stanziati –
tolte le solite spese «fisse» — spingono il contributo editoria sotto lo zero.
C’è sempre una prima volta, incredibilmente. Quindi? Libri in tribunale, per non rischiare
persino involontari falsi in bilancio. E sì, perché il taglio arriva alla fine dell’anno, a resoconti stilati ed approvati. È un’improvvida e grave deriva, che si collega alla complessiva
riduzione della spesa per la cultura, la scuola, l’università, la ricerca, i saperi.
Meglio cittadini poco informati? Il sospetto non è infondato e, se ci si sta sbagliando,
ben venga. Come ha denunciato la Federazione della stampa in una bella iniziativa promossa insieme a «Stand Up for Journalism» sul lavoro, nel 2013 altri 800 giornalisti hanno
perso il posto. Inoltre, si parla della scomparsa di una trentina di fogli locali, per non parlare dell’emittenza. Attenzione, qui parliamo della parte nota ed «emersa», da moltiplicare
se volgiamo lo sguardo all’inferno del precariato. Ai nuovi servi della gleba.
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Eppure, lo stile del governo Renzi potrebbe apparire conversativo e pieno di promesse: in
verità la pratica reale è drammatica. «E così, con un bacio, io muoio», esclamava
morendo Romeo, nella famosa tragedia shakespeariana. E nell’altra, non meno celebre,
l’ombra di Banco – però — perseguita Macbeth. Il Parlamento tace? Intanto, si apra una
stagione di lotta, perché il silenzio non paga mai.
del 05/11/14, pag. 12
SPOT IN FUGA, LE CIFRE DEL TRACOLLO
RAI
di Giorgio Meletti e Carlo Tecce
La Rai sta andando a fondo e tutti fanno finta di niente. Per mesi gli esegeti del servizio
pubblico televisivo si sono strappati i capelli per il salasso da 150 milioni di euro imposto
dal premier Matteo Renzi alla presidente Annamaria Tarantola e al direttore generale Luigi
Gubitosi.
MA LA VORAGINE autentica dei conti Rai è sul fronte della raccolta pubblicitaria. Nel
2007, prima della grande crisi, la concessionaria Sipra ha venduto spot per 1,371 miliardi
di euro. Nel 2013 il contatore si è fermato a 768 milioni. Quest’anno il capo di Rai
Pubblicità Fabrizio Piscopo ha già ammesso che non andrà oltre i 670/690 milioni nella
migliore delle ipotesi. In sette anni, i ricavi pubblicitari della Rai si sono semplicemente
dimezzati. Nello stesso periodo Mediaset ha perso circa il 30 per cento della pubblicità,
perché il periodo è duro per tutti. Però le televisioni del Biscione sono private e possono
manovrare a piacimento il mix di prodotto e il costo dei palinsesti, mentre la Rai deve fare i
conti con gli obblighi del servizio pubblico per il quale paghiamo il canone, e invece
manifesta una certa rigidità strategica. Nessuna azienda normale rimarrebbe ferma di
fronte al dimezzamento dei ricavi tipici. La Rai, invece, continua imperterrita la sua
navigazione e tutte le sue orchestre e orchestrine continuano a suonare. Come se non
fosse accaduto niente. In questo nuovo anno orribile – che segna l’ennesima perdita di
fatturato pubblicitario nonostante i mondiali di calcio, dai quali ci sai aspettava molto e che
hanno invece fruttato solo 45 milioni di ricavi – il vertice Rai ha reagito alle difficoltà con
due mosse, una palliativa e una decisamente assurda. Quella palliativa riguardava
l’accorpa - mento di Tg1 e Tg2 e delle altre testate giornalistiche Tg3, Tgr e Televideo
sotto l’om - brello di Rainews. Una razionalizzazione di costi piuttosto marginale peraltro
abortita rapidamente. QUELLA assurda riguarda la quotazione in Borsa della controllata
Raiway, che gestisce gli apparati di trasmissione, tralicci, ripetitori e via dicendo. La
prossima settimana prenderà il via il collocamento sul mercato del 35 per cento delle
azioni, operazione dalla quale Gubitosi conta di ricavare almeno 250 milioni. Operazione
tre volte assurda. Primo. È offensiva per il mercato, perché ripropone il malcostume solo
italiano di quotare una società controllata che deve quasi tutto il fatturato alla controllante.
Non a caso il prospetti di collocamento di Raiway avverte che il principale fattore di rischio
per gli investitori è connesso “alla concentrazione dei ricavi dell’emittente nei confronti di
un numero limitato di clienti”. L’83 per cento dei ricavi Raiway arriva dalla Rai. Secondo.
Chi comprerà azioni Raiway si consegnerà così alle decisioni della Rai: se vorrà
salvaguardare il proprio bilancio, la società di viale Mazzini pagherà poco i servizi a
Raiway, i cui azionisti non vedranno un dividendo neppure dipinto; se invece vorrà
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premiare gli investitori strapagherà i servizi di Raiway, e forse alla fine quei 250 milioni
incassati costeranno alla Rai più che se li prendesse in banca. Terzo. La cosa più
incomprensibile è vendere un pezzo del proprio patrimonio – e il network di antenne è
forse la cosa più preziosa di Viale Mazzini – per ripianare le perdite correnti del 2014.
Nulla che affronti di petto la vera malattia della Rai, la perdita di spot che ormai è evidente
anche al telespettatore. La Rai per legge può avere un affollamento pubblicitario del 4 per
cento (limite settimanale) ma in questa stagione non va oltre il 3,5. Gli spot non si vendono
benché Rai Pubblicità applichi sconti sino al 90 per cento. Le fasce più difficili da riempire
sono quelle della mattina e della prima serata, dove le reti Rai non raggiungono gli ascolti
promessi agli investitori. Due esempi. Ballarò ha uno share medio del 7,5 per cento –
l'anno scorso era quasi il doppio – e dunque al conduttore Massimo Giannini capita di non
avere più quattro interruzioni pubblicitarie durante il programma (che dura 2 ore e 50
minuti), ma soltanto tre. Ballan - do con le stelle, il varietà di punta del sabato sera,
superato spesso dal programma omologo di Canale 5, ha lo stesso problema. Anche sul
fronte del canone le prospettive non sono rosse. Nel 2013 la Rai ha raccolto 1,68 miliardi
di euro, perdendo i 500 milioni legati a un’evasione stimata nel 27 per cento. QUEST
’ANNO il canone è stato colpito dal prelievo di 150 milioni di euro deciso dal governo per
coprire gli 80 euro in busta paga. La legge di Stabilità prevede che dal prossimo anno al
canone sarà applicato un taglio progressivo per cui nel 2017 dagli 1,68 miliardi del 2013 si
passerà a 1,42 miliardi, con una perdita di ricavo del 15 per cento. Di fronte a questo
quadro il direttore generale, Gubitosi, sembra avere un solo pensiero: portare a casa i 250
milioni della quotazione Raiway per chiudere in attivo il bilancio 2014, che senza quella
boccata d’ossi - geno sarebbe destinato a un rosso di 150 milioni, proprio il salasso di
Renzi, al quale la Rai non è stata in grado di reagire in nessun modo. Infatti i conti del
primo semestre si sono già chiusi con una perdita di 77,9 miliardi, la metà della tassa
Renzi più spiccioli.
del 05/11/14, pag. 26
Canone, Mediaset si fa lo sconto solo 9
milioni per le frequenze tv
ALDO FONTANAROSA
ROMA .
Al momento di versare allo Stato il “fitto” per le sue frequenze tv, Mediaset si applica uno
sconto. Invece di pagare 20,39 milioni (più o meno l’importo degli anni precedenti, più o
meno quanto versa la “gemella” Rai) ne paga solo 8,85. Meno della metà, insomma. Per
sua autonoma scelta. Ed è proprio il Biscione a rendere pubblica la decisione. Siamo a
pagina 27 di un ricorso che i suoi legali presentano ai giudici del Tar nel 2013, pochi giorni
prima di Natale, è il 9 dicembre. Scrive il professor avvocato Giuseppe Rossi che il “fitto”
per le attività televisive dell’anno prima (il 2012) è stato onorato, certo, ma soltanto «sino
al 30 giugno». E’ come se un inquilino versasse il pigione per metà anno e lo negasse al
padrone di casa (qui il nostro Stato) per la seconda metà. Mediaset, peraltro, paga mal
volentieri questi 6 mesi, «al solo scopo di evitare procedure di recupero coattivo» e
l’adozione di sanzioni.
L’autoriduzione fiscale di Mediaset è solo l’ultimo tassello di un quadro a dir poco caotico.
C’è Mediaset che fa ricorso al Tar e paga meno della metà del dovuto (per il 2012) C’è
Telecom Italia Media Broadcasting che presenta un ricorso gemello al Tar, per la sua
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creatura tv dell’epoca (la 7). E c’è il Garante per le Comunicazioni (l’Ag-Com) che finisce
due volte sul banco degli accusati. Per aver rinviato la riforma del canone frequenze (nel
2013) e per aver fatto questa riforma nel modo sbagliato (nel 2014). Sbagliato almeno
secondo il governo Renzi che si prepara ad azzerarla con un suo decreto urgente. Per 12
anni, gli editori tv nazionali pagano l’1% del loro fatturato come canone annuo per le
frequenze. Il metodo di calcolo è stasolo bilito dalla Legge Finanziaria per il 2000 (la 499
del 1999, all’articolo 27). Quest’articolo 27 della Finanziaria del 2000 non è stato mai
abrogato. E’ vivo e tuttora vincolante. Eppure Mediaset punta i piedi con un agguerrito
ricorso al Tar del Lazio, a Natale 2013. Il ricorso — che porta la firma di Elettronica
Industriale, la sua società dei ripetitori — contesta intanto una presunta omissione del
Garante Comunicazioni (l’AgCom). I legali di Mediaset ricordano che il vecchio sistema di
pagamento, quello della Finanziaria 2000, doveva finire in soffitta a partire dal gennaio del
2013. Spettava all’AgCom stabilire nuovi criteri di calcolo del canone «entro 90 giorni»
dall’entrata in vigore di una certa legge (la 44 del 2012). E invece l’AgCom che combina?
Proroga di un anno il vecchio regime del 2000 con una sua delibera d’emergenza
dell’ottobre 2013. Delibera che il Tar — chiede ora Mediaset — deve asfaltare.
Ma Mediaset sostiene anche che l’obbligo di pagare l’1% del fatturato potrà anche avere
valore, ma fino al 30 giugno del 2012. Dal 30 giugno 2012, l’Italia entra in una nuova era
geologica. Abbandona le trasmissioni con tecnica analogica per il digitale terrestre. E
nuove tecnologie chiamano nuove regole. Per questo, dopo aver avvistato l’AgCom, il
Biscione versa il canone solo per i 6 mesi dell’era analogica. Sono 5 milioni 620 mila euro
(per Canale 5); 2 milioni 337 mila (per Italia 1); e 894 mila per Rete 4. Il totale fa 8 milioni
852 mila euro (contro i 20,39 dovuti per l’intero anno).
A settembre del 2014, l’AgCom cambia finalmente i criteri di calcolo del canone. Ma
stavolta è il governo Renzi a puntare i piedi e ad annunciare che il vecchio sistema (quello
del 2000) deve restare in vigore un altro anno, in attesa di una legge che riorganizzi le
cose. Che cosa diranno ora quelli di Mediaset? E che cosa i giudici del Tar, investiti di
tanto caos?
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CULTURA E SCUOLA
Del 5/11/2014, pag. 10
La servitù coatta dei creativi
Terre promesse. L’arte contemporanea è un settore florido che non è stato scalfito
dalla perdurante crisi economica globale. La sua «base di massa» è costituita dal
lavoro gratuito di giovani in cerca di visibilità che possono citare sul proprio
curriculum la partecipazione a «eventi» artistici
Valeria Graziano
In inglese il lavorare gratis si traduce con free labour, un’espressione che significa sia
lavoro gratuito che lavoro libero, trattenendo tutta l’ambiguità che accompagna le condizioni di vita e lavoro di chi opera nel settore dell’arte contemporanea. C’è un’obiezione frequente quando si parla di lavoro gratuito e di arte che bisogna prendere sul serio, in parte
per confutarla, in parte per scovarne i meriti. Mi riferisco al commento, sentito tante volte in
situazioni informali ma anche in alcune sedi più ufficiali, secondo il quale l’arte non è propriamente un lavoro. Iniziamo con l’esaminare l’assunto nascosto in questa critica mossa
a chi, occupandosi d’arte come artista, curatore, critico, educatore o altro, non riesce guadagnarsi da vivere in maniera dignitosa. Il primo mito da sfatare è che si tratti di un’attività
marginale, per pochi appassionati. Sussiste la percezione diffusa che la pratica artistica
sia solo per ceti sociali «alti», e che quindi la questione del lavoro gratuito rimanga una
problematica tutto sommato superficiale. È importante, invece, sottolineare come questa
retorica sia falsa e dannosa.
A partire dalla metà degli anni Novanta, infatti, in Europa ha iniziato a diffondersi il modello
di sviluppo economico delle cosiddette «industrie creative». Si tratta di un modello che ha
attratto e reclutato una forza lavoro trasversale alle classi sociali, incoraggiando i giovani
a perseguire una carriera che li portasse a sviluppare le competenze per poter interpretare
i linguaggi creativi internazionali, ricombinandoli come fonte di innovazione per il paese. In
parallelo, il numero degli iscritti a corsi di formazione artistica e creativa ha continuato
a crescere a livello europeo, coinvolgendo, fin quando i costi dell’istruzione superiore sono
stati accessibili, diverse classi sociali (Unesco; Eurostat). Nonostante l’entusiasmo di molti
governi per la retorica delle «industrie creative», tuttavia, il reddito e la stabilità contrattuale di chi lavora nel settore restano tutt’ora significativamente più bassi rispetto a professioni comparabili, sia nell’Unione Europea (Eurostat 2011), che in Australia (Australian Art
Council, 2014) e Stati Uniti (Bls, 2013).
UNA POTENTE ECONOMIA
Il secondo punto da confutare è che l’arte contemporanea sia un settore scarsamente redditizio o poco rilevante per l’economia. La rivista Forbes nel 2012 ha dichiarato il mercato
dell’arte «l’economia più forte del mondo». Il mercato dell’arte contemporanea ha raddoppiato il suo valore negli anni 2007–2008, e dopo la crisi finanziaria, si è ripreso a tempi di
record, raggiungendo i 2.046 miliardi di dollari nel 2013, il 40% in più rispetto all’anno precedente (ArtPrice Report, 2013). E questa cifra si limita alle vendite a collezionisti tramite
aste, senza contare le transazioni tra privati, gli introiti di musei, biennali, festival, e mostre
itineranti, e l’indotto indiretto generato dal turismo culturale e dal merchandising. Se è vero
come dice Okwui Enwezor, curatore della prossima Biennale di Venezia, che il mercato
è solo una componente dell’arte contemporanea, è anche vero che si ragiona forse troppo
poco sulla relazione esistente tra questo e le altre componenti.
Oltre che falsa, la percezione diffusa che l’arte e la cultura contemporanea siano questioni
elitarie è dannosa perché riproduce una visione del fare arte come attività per pochi,
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rischiando di consegnare la cultura nelle mani di coloro che condividono questa impostazione dal momento che li favorisce, contribuendo al loro status sociale. Ed è proprio il dilagare del free labour ad assumere un ruolo strategico in questa tendenza di estrema polarizzazione, sbarrando l’ingresso a quanti non possono permettersi di lavorare gratis. Per
potersi riappropriare della cultura contemporanea è proprio dal free labour che si potrebbe
ripartire, comprendendone i meccanismi di funzionamento nelle due forme più diffuse di
stage e iperlavoro.
Con gli stage, l’esperienza del free labour emerge come rito di passaggio obbligatorio
durante il periodo di formazione, sotto forma di prestazioni non retribuite in cambio di una
promessa di visibilità futura. Un sistema che chiede ai giovani (e in particolare a giovani
donne, la maggioranza degli studenti nel settore arte) il prezzo più alto.
RITI DI INIZIAZIONE
Nonostante il nome «stage» evochi il gradino di un percorso, esso è sempre di più una
condizione ciclica e obbligatoria per i creativi. È ormai considerato normale avere in curriculum tre, quattro, cinque stage prima di poter essere considerata per qualche ingaggio
pagato. Inoltre molte opportunità di stage si trovano in metropoli internazionali (e per questo, tanti sono costretti a migrare verso il nord del mondo) dove il costo della vita è alto
e dove gli stagisti devono trovare un secondo impiego per potersi mantenere. Tuttavia,
questi stagisti non solo tengono in piedi un settore dal quale sistematicamente vengono
sottratte risorse pubbliche, ma contribuiscono anche al valore del brand delle università
e delle scuole specialistiche (spesso a pagamento) che li dovrebbero formare. Questi centri di formazione stipulano spesso accordi con istituzioni culturali, festival o musei per
garantire l’esclusivo accesso agli stage ai loro studenti.
Ma che cosa dovrebbe insegnare lo stage agli aspiranti artisti e creativi? Come racconta
l’inchiesta del «Carrot Workers Collective» di Londra, ci sono due principali esperienze nel
settore artistico, entrambe assai problematiche. Nel primo caso le mansioni richieste sono
di lavoro dequalificato o apertamente servile. Lo stagista porta il caffè, va in tintoria e porta
a passeggio il cane del curatore, sorveglia le sale espositive, attacca i francobolli per gli
inviti ai vernissage. Ciò che si impara durante lo stage è la propria vulnerabilità di fronte al
potere di chi controlla gli spazi di visibilità. Si impara a dissimulare la frustrazione di fronte
ai propri capi, ci si allena a prevaricare i compagni e ad approfittare opportunisticamente di
ogni occasione.
C’è poi un secondo tipo di stage dove, al contrario, ai nuovi è richiesto un contributo creativo di alto livello, un’idea artistica originale, la curatela di un evento, una soluzione di
design innovativa, la scrittura di un testo per un catalogo, il montaggio di un video. Anche
se la stagista tornerà a casa più contenta dello stagista-servo, questo caso è ancora più
problematico proprio perché lo stage ha insegnato che la gratificazione dovrebbe bastare
come compenso e che bisogna dire di sì a qualunque invito se questo «fa curriculum».
Questo meccanismo agisce malignamente in un contesto in cui spesso sono i giovani ad
essere portatori delle idee e competenze più preziose, in un mercato che si nutre di novità,
più che di esperienza, per produrre valore.
Il ruolo degli stagisti è cruciale anche per mantenere docili e iperproduttivi i lavoratori
dell’arte sempre più precarizzati e minacciati di essere rimpiazzati da qualcuno disponibile
a svolgere le loro stesse mansioni gratuitamente. Oltre ad essere un efficace dispositivo di
disciplina, il ruolo del lavoro gratuito nell’arte ha però altri effetti nocivi. Il suo massiccio
impiego ha reso impercettibile la sistematica riduzione di risorse pubbliche nel settore culturale. Molti finanziamenti erogati per iniziative artistiche non prevedono nemmeno più la
voce di spesa per i compensi al personale. Il contributo gratuito di stagisti e volontari
e l’iperproduttività dei lavoratori sopperiscono alla mancanza di risorse, all’interno di una
retorica del sacrificio in nome della cultura.
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Inoltre, il mercato dell’arte attraverso il meccanismo del free labour impone ai lavoratori un
crescente ribasso dei compensi: oggi vivere solamente di arte contemporanea è assai
raro. Molti che si trovano in questa situazione ricorrono a una strategia di sdoppiamento.
Da un lato si continua a portare avanti la propria pratica artistica, a promuoverla,
a fare networking; dall’altro si cercano fonti di guadagno alternative per rendere tutto ciò
sostenibile. Secondo una recente inchiesta sugli artisti nel Regno Unito, un’alta percentuale smette intorno ai 45 anni o alla nascita del primo figlio (Nesta, 2008). Spesso questo
secondo lavoro, di cui si parla malvolentieri, consiste in un impiego nelle stesse industrie
culturali e creative in mansioni che non hanno nulla di creativo (amministrativi, guide,
installatori, ecc.). Anche se pagati meno di ruoli equivalenti in altri settori, questi ingaggi
permettono di continuare a sentirsi parte della «scena», individuata dal sociologo Pascal
Gielen come la nuova unità di produzione del capitale semiotico. Tuttavia, frequentare la
«scena» non è importante solo per una questione di appartenenza identitaria: come fa
notare Gielen, è anche l’unico modo per tutelare le proprie idee e impedirne
l’appropriazione da parte di altri più affermati.
Uno sdoppiamento ancora più radicale colpisce quanti ripiegano su un secondo lavoro
estraneo alle industrie creative. Questa situazione porta a uno scollamento tra la percezione della propria identità (sono un curatore, un videomaker, un performer) e il profilo professionale per cui si viene pagati. Dal punto di vista contributivo, molti artisti e creativi sono
in realtà lavoratori del settore terziario. Tuttavia, siccome non si identificano come tali, finiscono con il fornire una mano d’opera transitoria e disinteressata a rivendicare i propri
diritti, in attesa di essere «scoperti» dal sistema artistico.
PRATICHE DI AUTORGANIZZAZIONE
Nelle industrie culturali si sperimentano nuovi meccanismi di sfruttamento della totalità
della vita, ma proprio in questi ambiti emergono forme di resistenza che possono offrire
spunti utili per una riflessione più allargata sul lavoro stesso. Negli ultimi anni sono nate in
vari paesi pratiche collettive che denunciavano l’insostenibilità del free labour. Alcune di
queste, come «A/traversad*s por la Cultura» in Spagna o «Cantieri per pratiche non affermative» in Italia, sono partite da percorsi di inchiesta per sopperire alla carenza di statistiche ufficiali sul tema del lavoro gratuito. I «Precarious Workers Brigade» e i «Future
Interns» nel Regno Unito si sono invece concentrati sullo «stagismo» e sul ruolo dei processi pedagogici nel riprodurre miti quali l’artista/genio/bohémien o l’«artista/imprenditore
di se stesso». Altre esperienze invece hanno affrontato il lavoro gratuito come parte di una
lotta più estesa contro lo sfruttamento strutturale che contrappone, nel «sistema arte», il
lusso dei vertici alla pauperizzazione della base. Sono questi i casi di W.A.G.E. negli Stati
Uniti che ha creato un marchio di certificazione etica per iniziative culturali che pagano
equamente i propri collaboratori; di «Trabajadores de Arte», una rete che riunisce artisti in
sette paesi latinoamericani fornendo strumenti per calcolare compensi equi; e la piattaforma ArtLeaks, impegnata a pubblicare in forma anonima segnalazioni di abuso
e sfruttamento.
Nonostante i diversi livelli di successo, queste pratiche contribuiscono a scalfire la patologica divisione tra contenuti «critici» e forme organizzative in ambito artistico. Il loro aspetto
più interessante risiede nella capacità di porre il problema del lavoro non in chiave corporativia o professionalizzante, ma in quanto limite strutturale alle possibilità di superare le
ingiustizie dell’ordine sociale esistente. Un’importante fonte di ispirazione è stata la protesta degli «Intermittenti dello Spettacolo» francesi, che nel 2003 furono tra i primi a mobilitarsi contro le condizioni di ricatto in cui si stava riorganizzando il settore culturale in
Europa e a capire come questo rappresentasse un attacco al sistema di welfare per tutti.
Nel rifiutarsi di porre la questione del free labour solo in termini di precarietà e mancato
reddito, queste pratiche di ribellione tematizzano la contraddizione tra la libertà promessa
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dal free labour e il lavoro. Forse proprio a causa della tensione tra arte intesa come rifiuto
del lavoro e arte come professione, le esperienze di lotta in questo ambito hanno spinto
molto più di altre sull’urgenza di alzare la posta in gioco, di ribellarsi non solo alle condizioni contrattuali ma al lavoro stesso. La scommessa che si nasconde nell’affermazione
che l’arte non è proprio un lavoro è saper immaginare la potenza delle pratiche, non solo
artistiche, ma anche di cura, di cooperazione e d’invenzione, una volta liberate dalla scarsità artificiale e dall’ansia esistenziale che, nella logica lavorativa, le sfigurano.
Del 5/11/2014, pag. 13
La faticosa crescita della musica dal basso
Indie. In due documentari usciti nelle ultime settimane lo stato di salute
della scena indipendente in tempi di crisi
Marco De Vidi
Nel giro di poche settimane sono usciti due documentari che con un approccio schietto
e diretto cercano di restituirci un ritratto della musica indipendente in Italia, di
quell’underground che cerca di diventare grande a suon di concerti e chilometri percorsi.
Si tratta di due piccole produzioni, anch’esse indipendenti, realizzate sfruttando al meglio
i pochi mezzi a disposizione – ed in questo del tutto coerenti con quel sottobosco musicale
raccontato «dal basso», con cui condividono autenticità e passione.
I due film sono tra loro complementari per come raccontano le vicissitudini di bands
e musicisti. Conquiste, opera collettiva di quattro giovani autori (Diego Zicchetti, Enrico
Guidi, Francesca Magnoni e Matteo Munaretto), parte dal microcosmo della Romagna,
descrivendo la «scena» di un territorio che ben rappresenta le dinamiche che caratterizzano l’ambiente musicale in ogni provincia italiana. Semitoni: non è un intervallo si concentra invece su tre gruppi differenti per genere e area geografica di provenienza, ma
molto simili nell’approccio. I due registi Michele Ricchetti e Shapor Ebrahimi hanno deciso
di seguire alcune realtà musicali ritenute dei validi esempi, senza voler dare una visione
complessiva del mercato della musica ma focalizzandosi sul punto di vista di Fuzz Orchestra, His Clancyness e Eels on Heels. In Conquiste si viaggia lungo tutta la «costa
est» dove, nei piccoli paesini dell’entroterra o nelle località affollate di discoteche della
Riviera, suonare diventa il modo per creare qualcosa di unico e bello. Sono molte le comparse musicali nel film, dai Wolther goes stranger al cantautore Havah, dai Fast Animals
and Slow Kids a Brace, autore di canzoni coinvolgenti e surreali, ma anche fondatore
dell’etichetta Tafuzzi e animatore di un piccolo festival ormai divenuto culto. Ci sono
soprattutto i Cosmetic, di cui seguiamo le vicende fin dagli esordi: è la storia di una band
formatasi tra i corridoi di scuola, di adolescenti ora adulti che con costanza e dedizione
sono riusciti ad arrivare sui più importanti palchi italiani. Ora fanno parte della Tempesta,
etichetta indie tra le più conosciute (creatura dei Tre Allegri Ragazzi Morti, anch’essi presenti nel doc), esperimento certo da apprezzare: un collettivo di artisti che si autogestiscono, in collaborazione continua tra di loro e che cura in modo maniacale ogni singola
uscita. Un’attenzione totale, soprattutto, alle esigenze dei musicisti. E questo è un fenomeno che in Italia sta diventando ormai rilevante: i musicisti che per sbarcare il lunario
imparano a occuparsi di ogni aspetto del fare musica, dall’organizzazione di tour, alla
comunicazione, alla promozione.
È possibile dunque vivere di musica? Dipende. Semitoni cerca di ottenere qualche risposta da alcuni tra i gruppi più interessanti oggi in Italia. I giovanissimi Eels on Heels, che
dalla piccola Trani diventano un gruppo sempre più apprezzato oltre confine per il loro
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intenso electronoise, con passaggi a Bbc Radio e un produttore internazionale come
James Aparicio, collaboratore dei Liars. Eppure i tre sono precari, come molti coetanei
costretti a fare diversi lavori e che alla musica dedicano i ritagli di tempo. Jonathan Clancy,
in arte His Clancyness , da anni propone un folk-rock originale che lo ha portato a suonare
in tutto il mondo. E per quanto la musica sia centrale, è sempre stata affiancata dalla
necessità di altro, per cui Jonathan si è dedicato per anni al lavoro in radio a Bologna, oltre
che all’organizzazione del festival Handmade di Guastalla, un piccolo gioiello.
I Fuzz Orchestra sono invece uno dei gruppi più che in Italia macina più chilometri, arrivando a suonare dappertutto. Si tratta di una band che propone un heavy rock duro e coltissimo, zeppo di citazioni da film degli anni ’60 e ’70. Suonare a cachet basso (perché
altrimenti non c’è spazio) si può, ma implica fare numerosissime date, guidare per ore ogni
giorno, esibirsi e ripartire. Più si suona, più diventa possibile pagare le bollette e arrivare
alla fine del mese. Anche queste sono conquiste.
del 05/11/14, pag. 48
Al via il servizio in abbonamento Kindle Unlimited di Amazon: 15 mila i
titoli nella nostra lingua, pochissimi i bestseller. I grandi editori: “Ecco
perché diciamo no”
I libri in streaming arrivano in Italia ma i big
disertano
STEFANIA PARMEGGIANI
IL LIBRO non è più lo stesso. Da ieri anche in Italia si può leggere un romanzo senza
comprarlo e senza andare in biblioteca. Lo si può affittare, come un album musicale o una
serie televisiva, abbonandosi a Kindle Unlimited, la piattaforma di Amazon che a luglio è
stata lanciata in America e dopo poco in Gran Bretagna e Germania. Da settimane si
aspettava il debutto italiano. Ieri è avvenuto, in contemporanea con la Spagna: «Lettura
illimitata a euro 9,99 al mese», dice lo slogan che invita a provare il servizio gratuitamente
per un mese. Il lettore può scegliere tutto ciò che vuole da un catalogo di 700mila titoli, di
cui 15mila in italiano, scaricandone fino a dieci per volta sui dispositivi Kindle ma anche su
iPhone, iPad, smartphone e tablet Android, pc e Mac. Solo che si deve accontentare:
assenti o quasi le novità, pochissimi i bestseller. Gli editori italiani, salvo rare eccezioni,
hanno deciso di aspettare: non sono convinti che il modello Spotify si possa applicare
all’editoria.
«Non si possono appiattire i libri, metterli sul mercato tutti allo stesso prezzo,
indipendentemente dalla qualità e dal valore ». Stefano Mauri, numero uno del gruppo
editoriale Gems, non è contento dell’ultima mossa di Jeff Bezos. Non gli piace il modello
unico, un t anto al chilo, applicato alla letteratura: «Un conto è Pavarotti, un conto chi
canta sotto la doccia. Il primo è frutto di molta fatica e di una durissima selezione
naturale». Come a dire: ben venga lo streaming per gli autori fai da te, che si
autopubblicano e cercano una vetrina, ma per gli altri meglio i tradizionali canali di vendita.
Eppure tra i titoli in vetrina su Kindle Unlimited vi è la saga di Harry Potter, pubblicata da
Salani che è uno dei marchi della sua galassia editoriale: «È un accordo a monte preso
dalla J. K. Rowling per tutto il mercato internazionale », spiega lui.
Anche Riccardo Cavallero, direttore generale libri trade del gruppo Mondadori, chiude la
porta in faccia ad Amazon, facendo una scelta identica a quella che in America ha spinto
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le Big Five, cioè le cinque più importanti case editrici, a rifiutare l’affitto dei propri libri:
«Non ci è sembrato un progetto conforme alla nostra strategia commerciale. Non siamo
entrati adesso e non entreremo in futuro». Possibile che si possa rifiutare Amazon? E
anche se in Italia gli editori riuscissero a fare fronte comune contro Bezos, la lettura in
streaming si può fermare? Nel mondo ci sono altre piattaforme simili, ad esempio
l’americana Scribd che ha strappato un actattica: cordo ad Harper Collins, vanta un
catalogo di 400mila libri e ha un sito con 80 milioni di visite mensili. Oppure Oyster che
offre i volumi di sei dei dieci più grandi publisher americani, tra cui Simon& Schuster. «Per
ora le nostre priorità sono altre — sostiene Cavallero — se non riusciamo ad equiparare
l’Iva degli ebook a quella della carta, il mercato digitale sarà definitivamente affossato,
streaming o non streaming».
Più prudenti Feltrinelli, che resta alla finestra in attesa di conoscere l’impatto di Kindle
Unlimited sui lettori digitali, e Rcs. Il direttore generale Massimo Turchetta è possibilista:
«Guardiamo con grande curiosità a questo nuovo modello di business che osserviamo con
interesse già dall’esperienza americana ». Ma per ora niente: i suoi libri sono esclusi dalla
lettura illimitata. Dietro la prudenza potrebbe esserci una valutazione alcuni editori
starebbero pensando a delle piattaforme simili da allestire in casa propria. Per ora lo
hanno fatto con Bookstreams ventinove piccoli editori, tra cui Nottetempo e Nutrimenti. E
Laterza, che ha lanciato sul mercato Lea, piattaforma digitale che mette a disposizione
dell’utente 500 libri. «Non è solo un luogo dove leggere — spiega Giuseppe Laterza — ma
un club dove fruire di contenuti aggiuntivi, interagire con gli autori, riconoscersi nell’identità
della nostra casa editrice». Dato l’investimento in proprio, ovviamente non ha aderito a
Kindle Unlimited.
Tra gli editori che lo hanno fatto c’è invece Elido Fazi. «Il mio fatturato dipende per il 30%
dagli ebook. È una quota molto alta, ovvio che sono interessato a nuove piattaforme e
servizi». La sua è stata una scelta calcolata: «Amazon mi ha fatto un offerta per i singoli
libri e io ho valutato quali di questi mi conveniva dare in abbonamento per un anno, e quali
continuare a vendere solo nella forma tradizionale». Alla fine ha scelto di mettere su
Kindle Unlimited quattrocento volumi tra cui un capolavoro come Stoner di John Edward
Williams. Anche Newton Compton ha aderito alla piattaforma, ma con cautela: «Abbiamo
un catalogo di tremila titoli — dice l’editore Raffaello Avanzini — e ad Amazon abbiamo
dato non più di 180 libri. Molti di questi sono liberi dai diritti, gli altri sono o i primi romanzi
di una saga o titoli che possono fare da richiamo per un autore». Non crede che
l’abbonamento possa sostituir- si alle vendite: «Parliamoci chiaro: quanti libri si possono
leggere in un mese? Il paragone con Spotify o Netflix non regge». Ma se gli editori italiani
hanno rifiutato o accettato con poco entusiasmo Kindle Unlimited, come ha fatto Amazon a
debuttare sul mercato italiano con quindicimila titoli? «Con il self publishing », sostiene
ancora Avanzini.
Malgrado lo scetticismo degli editori italiani, Amazon sottolinea tutti i vantaggi per l’utente.
«D’ora in poi i clienti italiani potranno esplorare nuovi autori, libri e generi — afferma Jorrit
Van der Meulen, vice presidente Kindle Europa — Kindle Unlimited offre ai nostri clienti un
modo semplice e conveniente per scoprire migliaia di libri, incluse centinaia di novità,
apprezzare gli autori in lingua originale e godersi incontri inaspettati con nuove storie e
personaggi». I lettori possono fare zapping tra testi simili, iniziare a leggere e abbandonare
dopo poche pagine ciò che non piace, accedere a una biblioteca sterminata in altre lingue,
sperimentare generi a cui non si erano mai avvicinati. E come per la musica, come per le
serie televisive, potranno evitare di comprare i libri. Purché li scelgano tra quelli in
catalogo.
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del 05/11/14, pag. 1/25
“La scienza è donna, così guiderò il Cern”
Signora delle particelle
Il sogno di ballare alla Scala e l’amore per il pianoforte «Esploro
l’infinita bellezza della musica della scienza»
«Sognavo di diventare una ballerina del teatro Bolshoi o della Scala. Mi attirava danzare,
disegnare figure nell’aria, ma ero anche una bimba curiosa, cercavo mondi nella fantasia.
E così arrivai alla scienza».
Fabiola Gianotti, protagonista della scoperta del bosone di Higgs, la famosa «particella di
Dio», ha appena ricevuto la notizia della nomina a direttore generale del Cern di Ginevra.
«È capitato tutto all’improvviso e la giornata è diventata frenetica». Ma la voce è sempre
calda, le parole veloci: «Avrò molto lavoro da fare», dice, come se dovesse affrontare uno
dei tanti normali compiti che già affollano la sua agenda quotidiana.
Il Cern, il laboratorio europeo di ricerca nucleare, è oggi il luogo più importante al mondo
per indagare la natura e, grazie al super acceleratore Large Hadron Collider, per volare in
quel nuovo mondo inseguito da bambina. «Studiavo e leggevo la biografia di Marie Curie e
la sua passione, la sua dedizione mi hanno contagiato portandomi a studiare fisica». Da
allora ha dedicato la vita alla ricerca. Fabiola Gianotti, 52 anni, romana d’origine, si è
formata all’Università Statale di Milano e vent’anni fa, scienziata dell’Istituto nazionale di
fisica nucleare, è entrata al Cern studiando alcune parti del superacceleratore con il quale
avrebbe più tardi lavorato.
Quando guidava l’esperimento Atlas era a capo di tremila ricercatori di ogni nazionalità.
«La fisica al Cern ti porta a vivere in una dimensione umana straordinaria senza differenze
di sesso, età, nazionalità. Qui ci si misura con le capacità che si è in grado di esprimere e
per certi aspetti potrei dire che al Cern la scienza è donna, perché ognuna di noi gode
delle stesse opportunità, senza timori, in un confronto di cultura e valori individuali che
forse non ha pari altrove. Bisogna solo credere e vivere fino in fondo ciò che abbiamo
scelto».
E con questa consapevolezza guarda con entusiasmo al futuro. «So di avere davanti
prove difficili da affrontare, dovrò compiere scelte ardue, ma sogno di mantenere il Cern al
vertice dell’eccellenza scientifica mondiale. La fisica fornisce basi della conoscenza che
possono trasformarsi in tecnologie preziose. Chi pensa che la fisica quantistica sia
presente nelle telecomunicazioni per codificarle, ad esempio, oppure che nel Gps ci sia
l’applicazione della teoria della relatività di Einstein? Eppure è così. Lo stesso Web è nato
al Cern».
Quando racconta le sue ricerche, Fabiola usa con disinvoltura la parola «bellezza» per
comunicare il fascino delle dimensioni che esplora con la mente. «La nuova fisica è un
giardino incantato», spiega facendo scivolare le parole verso le altre passioni che
l’accompagnano. Ha un unico rammarico: la sfida di cui è stata protagonista l’ha
allontanata un po’ dalla musica, dall’amato pianoforte. «Le note di Schubert, il mio autore
preferito, mi riempivano l’animo. Ora il mio tempo è tutto nella musica della nuova fisica».
«Non so se riuscirò a eguagliare i grandi italiani che mi hanno preceduto alla guida del
Cern: Edoardo Amaldi, che ne è stato uno dei fondatori; Carlo Rubbia, che qui ha
conquistato il Nobel; Luciano Maiani, che ha dato il via alla costruzione del nuovo
acceleratore Lhc. Avverto la grande responsabilità del mio compito, il prestigio che
l’accompagna, ma non sono preoccupata e sono cosciente della modestia con la quale
devo guardare al mio impegno. Qui si può far progredire la scienza, ma il Cern ha anche
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valore come luogo di educazione, e come laboratorio di straordinaria interazione sociale
nella quale il concetto di pace è alla base dello studio, della convivenza e
dell’esplorazione».
Fabiola Gianotti ha conquistato la copertina del settimanale americano Time come donna
dell’anno, la rivista Forbes l’ha inclusa tra le cento donne più influenti del mondo, il suo
nome è di prestigio in tanti comitati internazionali, e numerosi sono i riconoscimenti
attribuiti al suo lavoro. Lei sorride e accompagna le parole verso l’amore per la fisica
ricordando con orgoglio di appartenere a una preziosa tradizione italiana che con Enrico
Fermi ha avuto il suo caposcuola.
Giovanni Caprara
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ECONOMIA E LAVORO
del 05/11/14, pag. 2
Ue: Italia peggio della Grecia recessione e
debito record
Scontro Renzi-Juncker
Il presidente della Commissione: “Non guido banda di burocrati” La
replica: “E io non vengo a Bruxelles col cappello in mano”
ROBERTO PETRINI
ROMA .
Italia maglia nera d’Europa, in un Continente che segna drammaticamente il passo. Le
previsioni autunnali di Bruxelles confermano che l’economia arranca. L’intera Eurozona
archivierà quest’anno con una crescita del Pil dello 0,8 con un taglio di quattro decimali
rispetto alle stime della primavera scorsa. La revisione al ribasso colpirà anche il 2015
quando la crescita dell’area che aderisce all’euro sarà limitata all’1,1 per cento con una
caduta di più di mezzo punto rispetto a quanto ci si aspettava nel maggio scorso. Anche la
Germania rivista al ribasso: il prossimo anno crescerà solo dell’1,1 per cento.
Al debutto come presidente della Commissione Jean Claude Juncker non rinuncia alla
polemica: «Non sono a capo di una banda di burocrati, se così fosse l’Italia sarebbe stata
trattata in modo completamente diverso», manda a dire a Renzi che nei giorni scorsi
aveva attaccato le tecnocrazie comunitarie. Risponde il premier dai microfoni di Ballarò:
«Non vado in Europa con il cappello in mano, non prendo lezioni». E il ministro
dell’Economia, Pier Carlo Padoan, commenta le stime Ue: «La recessione non è finita, la
riduzione del debito è una sfida ineludibile ma si vince solo crescendo in modo stabile». La
ripresa europea, iniziata a metà del 2013, è definita «fragile» e «lenta», la fiducia «più
bassa che in primavera» e si sottolinea che sulle previsioni rimangono «rischi di una
revisione negativa ». Tensioni geopolitiche, fragilità mercati finanziari e mancate riforme
strutturali pesano sulla situazione economica. Debutto con giudizi mesti da parte dei
protagonisti dei dossier economici della Commissione al loro debutto: «La situazione non
sta migliorando con sufficiente rapidità», ha sentenziato Jyrki Katainen, ora
vicepresidente.
Il quadro negativo resta un alibi piuttosto debole per l’Italia che esce dall’ «autumn forecast
» malconcia. La crescita con cui chiude l’anno è del - 0,4% (governo - 0,3), un punto in
meno rispetto a quanto la stessa Commissione attribuiva al nostro paese in primavera.
Scenario assai magro anche il prossimo anno: +0,6 (la metà esatta della stima di
primavera) ma lo stesso livello sul quale conta il governo. Solo Cipro (+0,4) farà peggio di
noi il prossimo anno, mentre la Finlandia ci eguaglierà al +0,6% di crescita del Pil e la
Grecia, dopo la cura della Troika e da una base di partenza assai bassa, crescerà con il
2,9% (anche se la disoccupazione è al 25%).
L’exploit del debito pubblico italiano, il secondo dell’Eurozona dopo la Grecia (168,8%),
conferma che oltre alla situazione economica anche quella finanziaria preoccupa: nel 2015
raggiungeremo quota 133,8 nonostante le privatizzazioni. Solo la variabile cruciale del
deficit- Pil resta entro i margini consentiti: il rafforzamento della manovra 2015 da 4,5
miliardi dei giorni scorsi chiesto da Bruxelles fa scendere il rapporto dal 2,9 previsto al
2,7%. “È essenziale per la crescita che la legge di Stabilità - ha detto Padoan - mantenga
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la sua compattezza»: dai «6 miliardi in tre anni di ammortizzatori sociali» al «meno 37% di
Irap per le imprese». Riduzione contenuta per la pressione fiscale nel 2015.
del 05/11/14, pag. 2
Ora torna lo spettro della procedura contro
Roma a novembre un nuovo esame
ANDREA BONANNI
BRUXELLES .
Più che uno schiaffo, quella che Jean-Claude Juncker ha dato a Matteo Renzi è stata una
bacchettata sulle dita. Di quelle che davano i vecchi maestri, e che fanno male. « Ho detto
a Matteo Renzi che non sono a capo di una gang di burocrati. Sono il presidente della
Commissione europea, una istituzione politica, e mi attendo che i primi ministri rispettino
questa istituzione». Appena arrivato alla testa del governo europeo, Juncker sta facendo
passare un messaggio molto chiaro: l’epoca del tremebondo Barroso, servo sciocco di tutti
i potenti di passaggio, è finita. Il suo primo gesto come presidente della Commissione è
stato di andare a Francoforte per presentare un libro del suo maestro Helmut Kohl, in cui il
padre della riunificazione tedesca critica la Merkel ad alzo zero, perfino per il suo modo di
stare a tavola. Il secondo è una lezione di etichetta politica che ieri ha impartito, a freddo,
incontrando i capigruppo del Parlamento europeo, ai due più giovani leader europei: Renzi
e Cameron, colpevoli di aver fatto dichiarazioni alla stampa violentemente critiche nei
confronti delle istituzioni comunitarie.
Nel caso di Renzi, poi, i suoi attacchi contro la «burocrazia di Bruxelles» fatti arrivando al
vertice della settimana scorsa erano ancora più fuori luogo in quanto l’Italia, fino a
dicembre, detiene la presidenza di turno dell’Unione europea. E dunque quando il premier
italiano parla lo fa non solo come leader politico nazionale ma con una veste istituzionale
che gli dovrebbe suggerire maggiore misura.
Naturalmente non è che Juncker, vecchia volpe della politica, si illuda di far cambiare
l’atteggiamento di due giovani volpi come Renzi o di Cameron. Sa bene che i due parlano
a Bruxelles per farsi ascoltare a Roma e a Londra da opinioni pubbliche nazionali sempre
più insofferenti verso l’Europa. E non si faranno certo intimidire da una correzione per
quanto giustificata. Non è un caso che ieri Renzi, con un ardito rovesciamento dialettico,
abbia risposto a Juncker via twitter: «Per l’Italia, la sua storia, il suo futuro chiedo rispetto.
Anzi, pretendo il rispetto che il Paese merita».
In realtà sia Renzi sia Juncker hanno lo stesso problema: quello di ristabilire il proprio
status in Europa. L’uno come leader di un Paese che, fin dai tempi di Berlusconi, viene
guardato con diffidenza e con sufficienza. L’altro come capo di una istituzione che il suo
predecessore aveva trasformato in scendiletto dei governi. Lo scontro era dunque
inevitabile. E non è stato il primo. Basta ricordare la lettera con cui Renzi, ignorando
platealmente le richieste di Juncker, ha candidato la Mogherini al posto di Alto
rappresentante per la politica estera della Ue rifiutandosi di fornire un nome e di lasciare al
presidente il compito di definire il portafoglio. Né, verosimilmente, sarà l’ultimo.
E infatti il presidente della Commissione, che è uomo da non sottovalutare, condisce la
sua bacchettata con quella che suona in realtà come una sottile minaccia. «Se avessimo
dato retta solo ai burocrati, il bilancio italiano sarebbe stato trattato in ben altra maniera »,
ha chiosato ieri in Parlamento, lasciando intendere che la mancata bocciatura preventiva
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della Finanziaria è frutto di una mediazione politica e non dell’applicazione rigida delle
regole europee.
Questo sarà, non a caso, il prossimo terreno di confronto tra Roma e Bruxelles. La
mancata bocciatura, infatti, non significa automaticamente promozione. La Commissione
deve pronunciarsi sulle leggi di bilancio dei vari Paesi entro novembre. E ieri il nuovo
esecutivo ha presentato le previsioni economiche d’autunno, che all’Italia nel 2015
assegnano un debito record al 133,8 per cento del Pil e un deficit strutturale di bilancio
pari allo 0,9 per cento, cioè ancora lontano dal pareggio che sarebbe necessario per far
calare il debito.
Che cosa significano queste cifre, viste da Bruxelles? L’Italia, teoricamente è sottoposta
ad un doppio vincolo di bilancio: da una parte dovrebbe ridurre il deficit strutturale almeno
dello 0,5 per cento ogni anno; dall’altra, per far calare il debito, dovrebbe tagliare il
fabbisogno anche di più, per una cifra variabile tra lo 0,7 e lo 0,9 per cento. Per
quest’anno, essendo ancora in recessione, potrebbe evitare di essere messa sotto
procedura di infrazione perché scatta quello che in gergo comunitario è chiamato il
«waiver» (sospensione) delle norme del Patto di Stabilità. Ma l’anno prossimo le previsioni
ci assegnano una sia pur debole crescita dello 0,6 per cento. E dunque, se la
Commissione applicasse alla lettera le norme europee, potrebbe chiederci una
significativa manovra correttiva, ben superiore a quello 0,2 per cento che ha già ottenuto a
fine ottobre. Oppure potrebbe decidere di aprire una procedura per debito eccessivo che ci
metterebbe automaticamente nel banco dei sorvegliati speciali. La decisione, per ora,
resta in sospeso e verrà presa dal collegio dei commissari. La frasetta pronunciata ieri da
Juncker sta lì a ricordare a Renzi che, per il momento, il coltello dalla parte del manico lo
tiene Bruxelles.
del 05/11/14, pag. 4
Padoan: manovra, niente assalti
Sanità a rischio per le Regioni
Il ministro: la pressione fiscale salirà al 43,6%, 6 miliardi per la Cig
ROMA Ci sarà una «fase di stagnazione anche nel secondo semestre 2014, ma a
settembre c’è stato un significativo incremento dell’occupazione». Pier Carlo Padoan,
ministro dell’Economia, fa il punto sulla legge di Stabilità intervenendo in audizione di
fronte alla Commissione bilancio di Montecitorio, dopo che sindacati e enti locali hanno
duramente criticato il provvedimento: le Regioni, in particolare, temono «tagli nella sanità».
La manovra, ammonisce il ministro, deve mantenere «la sua compattezza e unitarietà». I
consumi privati hanno in parte risposto alle misure del governo — spiega Padoan — ma
c’è ancora incertezza per gli investimenti». Comunque la riduzione del rapporto tra debito
e Pil «rimane una sfida ineludibile per l’Italia, che possiamo vincere solo tornando a
crescere in modo sostenuto e stabile». Tra le note positive, «il sistema bancario italiano è
solido e pronto a sostenere la ripresa». Con la legge di Stabilità, la pressione fiscale
«mostra una riduzione contenuta nel 2015 — precisa Padoan — passando dal 43,3% del
2014 al 43,2%, e si stabilizza al 43,6% in ciascuno degli anni 2016 e 2017». Un aumento
«solo dello 0,3%». «Solo?!», ha subito twittato il capogruppo di Forza Italia alla Camera,
Renato Brunetta.
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Il ministro ha difeso anche le misure su Tfr e fondi pensione: l’aliquota sui rendimenti
«resta decisamente inferiore» a quella sulle rendite finanziarie ( 26%). E ha sottolineato
che per gli ammortizzatori sociali ci sono 6 miliardi in tre anni.
Le critiche più forti alla manovra arrivano da Regioni e Comuni. Piero Fassino, presidente
Anci, parla di «un taglio per 3,7 miliardi». Ma ci sarebbe uno spiraglio: «Il governo è
disponibile a aumentare di 500 milioni il fondo crediti di difficile esigibilità (oggi pari a 1
miliardo e mezzo)», annuncia lo stesso Fassino. E ci sarebbe pure la disponibilità ad
accettare che gli oneri di urbanizzazione siano utilizzati anche per il 2015 sulla spesa
corrente. Il presidente della Conferenza delle Regioni, Sergio Chiamparino, avverte che «è
impossibile non toccare anche la sanità, l’80% della spesa delle Regioni». Un giudizio
complessivamente positivo sulla manovra viene invece dall’Associazione bancaria italiana
(Abi), ma il direttore generale, Giovanni Sabatini, mette in guardia sulle misure di Tfr in
busta paga. Stesso allarme da parte dell’Associazione costruttori (Ance) mentre
Confcommercio stima che l’eventuale incremento di Iva e accise porterà una crescita dei
prezzi del 2,5%.
Dopo le proteste di ieri davanti al Mef e a Palazzo Chigi dei rappresentanti delle
associazioni vicine ai malati di Sla e ai disabili, su input del premier Matteo Renzi, il
governo ha deciso di aumentare da 250 a 400 milioni il fondo per i cittadini non
autosufficienti (che era stato tagliato di 100 milioni). Intanto il sottosegretario alla
presidenza del Consiglio, Graziano Delrio, nel presentare l’accordo di partenariato 20142020 tra la Ue e l’Italia (del valore di 44 miliardi), annuncia che «è operativa l’Agenzia per
la Coesione territoriale», istituita per il monitoraggio sistematico degli interventi finanziati
con fondi europei. Poi Delrio avverte: «Chi non spende bene i fondi pubblici viene
sostituito: a rischio sono 7-8 miliardi».
Sempre ieri si è svolto a Palazzo Chigi un vertice per mettere a punto le proposte italiane
per il piano di investimenti da 300 miliardi annunciato dal presidente della Commissione
Ue, Jean-Claude Juncker.
Francesco Di Frischia
del 05/11/14, pag. 10
Con il Tfr in busta paga la pensione
integrativa subirà per sempre una sforbiciata
del 15%
VALENTINA CONTE
ROMA .
Tre mensilità in più nel prossimo triennio. E fino al 15% di pensione integrativa in meno,
per sempre. Uno scambio equo e ragionevole? Lo decideranno i milioni di italiani che
grazie alla legge di Stabilità nel 2015 potranno dirottare il Tfr in busta paga, da marzo sino
a giugno 2018. Se è vero che la scelta tenterà soprattutto le famiglie a basso reddito,
bisognose di credito, in bolletta e dunque non avvezze a risparmiare (il 34% di questo
segmento, secondo quanto calcolato ieri dall’Ufficio parlamentare di bilancio), è pur vero
che tutti gli altri lavoratori potrebbero essere più sensibili alle sirene di Bankitalia. Laddove
raccomanda al governo una valenza transitoria della misura poiché l’adesione soprattutto
dei meno abbienti e dei giovani «aggrava il rischio che questi abbiano in futuro pensioni
non adeguate». Il pericolo in effetti c’è. Ma il premier Renzi, intervistato ieri sera da Ballarò
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, ha ribattuto così: «Le pensioni dei giovani sono a rischio perché non lavorano, e non per
il Tfr. I cittadini saranno liberi di decidere sul Tfr, non credo cambieremo la norma».
Ognuno poi si farà i suoi conti, ci mancherebbe. Ma le giovani generazioni, i “milleuristi”
con carriere discontinue, oramai immersi nel contributivo puro, se non vogliono
assottigliare ancora di più il magro assegno futuro devono pensarci bene. A guardare una
prima simulazione di Progetica, ad esempio, tre lavoratori che oggi hanno 30, 35 e 40 anni
e guadagnano rispettivamente mille, 1.500 e 2 mila euro netti al mese perderebbero tra l’8
e il 15% di integrazione alla pensione, se optassero per il Tfr subito in tasca. A fronte di tre
mensilità extra (la quota di liquidazione annuale è grossomodo pari a uno stipendio),
dunque tre quattordicesime, lascerebbero sul campo una fetta di quiescenza, maturabile
grazie all’investimento di quella stessa cifra nei fondi pensione (oggi tra il 50 e il 60% dei
dipendenti mette il Tfr nei fondi).
Soldi subito per tre anni, ma vitalizi striminziti? Decideranno i lavoratori. Tenendo conto,
tra l’altro, che il Tfr subito viene tassato di più (ad aliquota marginale Irpef, quindi fino al
43%, anziché come reddito separato tra il 20 e il 23%). Con il duplice e ridicolo rischio di
perdere gli altri bonus (gli 80 euro o i vantaggi legati all’Isee), sebbene il ministro Padoan
abbia scongiurato il cumulo dei redditi. Comunque la si pensi, alla fine si avrà un bottino
più magro: meno patrimonio, oltre che pensioni più basse. A proposito di pensioni, in
attesa che l’Inps ora guidata da Tiziano Treu spedisca a casa la mitica busta arancione
(l’estratto conto che simula i futuri assegni pensionistici), la prospettiva per i giovani
precari, ex precari, intermittenti è raccapricciante. Sempre Progetica, società indipendente
di consulenza in educazione e pianificazione finanziaria, calcola che se l’economia va
male (Pil piatto a zero) e la carriera è stop and go, un trentenne che oggi prende mille euro
di stipendio ne intascherà la metà di pensione. Se lavorasse con contratti degni e
continuati e il Pil dei prossimi anni fosse in media dell’1,5% (il Pil influenza l’entità della
pensione), arriverebbe a quasi 900 euro.
Tenuto conto poi che l’aspettativa di vita allontana l’età dell’uscita, quel trentenne potrebbe
trovarsi a 70 anni alla mensa pubblica. Va considerato anche questo nell’opzione del Tfr
anticipato. Proprio perché spiega Andrea Carbone, partner di Progetica, mai come oggi
«la decisione di integrare l’assegno pensionistico pubblico attraverso la previdenza
complementare diventa la scelta se “subire” o “gestire” anche altri rischi, come quello che
l’economia italiana continui a crescere poco o niente e che la propria carriera lavorativa
possa essere discontinua». Peccato che il governo abbia appena alzato le tasse proprio
sui fondi pensione.
Del 5/11/2014, pag. 4
LAVORO
Cgil: “Brutali contro Renzi”
Jobs Act. Danilo Barbi, vice di Camusso: «Risponderemo a chi attacca
l’articolo 18». Il sindacato ha una finanziaria alternativa: «Patrimoniale
sui ricchi per 10 miliardi: sarebbero 740 mila nuovi posti»
Antonio Sciotto
Si riscalda sempre di più lo scontro sul Jobs Act, adesso che il testo è in procinto di
essere discusso alla Camera. Ieri nel corso di un’audizione sulla legge di stabilità, il segretario confederale Cgil Danilo Barbi (componente dell’esecutivo guidato da Susanna
Camusso) è stato netto: «Noi non consentiremo così facilmente di modificare l’articolo 18
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liberando un canale per i licenziamenti illegittimi come ha provato a fare Berlusconi – ha
dichiarato – Ci opporremo brutalmente a questo tentativo».
Subito dopo il segretario ha precisato: «Ci opporremo con la stessa brutalità di chi ha cambiato l’agenda politica introducendo modifiche all’articolo 18 mai proposte nelle dichiarazioni programmatiche nè nelle campagne elettorali». Ad arroventare il linguaggio, a fine
settembre, era stato lo stesso presidente del consiglio Matteo Renzi, che dalla sua missione negli Usa aveva parlato della necessità di un «cambiamento violento» per l’Italia.
La Cgil e il premier restano per il momento su due opposte barricate: la prima impegnata
nel percorso di mobilitazioni che oggi vede schierati i pensionati e sabato i lavoratori del
pubblico impiego (entrambe le iniziative sono unitarie, con Cisl e Uil), mentre il 14 e il 21 la
Fiom aprirà la stagione degli scioperi generali. Dall’altro lato, Renzi gioca le sue carte: ieri
l’apparizione a Ballarò, e subito dopo la riunione con la minoranza Pd per un possibile
accordo su Jobs Act e articolo 18 che possa isolare il sindacato.
Quanto alla legge di stabilità, Barbi ha spiegato che secondo la Cgil il governo «sta programmando il disastro sociale». La manovra «è inadeguata e insufficiente in termini di
investimenti e politiche di sostegno alla crescita», spiega la Cgil. Servirebbe al contrario un
«Piano per il lavoro»: quello che il sindacato ha già presentato da tempo, ma che non riesce a discutere con il governo, visto che qualsiasi tipo di concertazione, o anche solo di
dialogo, è sparito del tutto dal panorama dell’Italia renziana. Il governo, prosegue Barbi,
«scommette su una forte riduzione delle tasse alle imprese (taglio generalizzato dell’Irap
sul costo del lavoro e sgravi contributivi per nuovi contratti a tempo indeterminato) e sulla
svalutazione del lavoro (Jobs Act, come “collegato” alla legge di stabilità) sperando che,
senza vincoli e con meno tutele, aumentino gli investimenti privati e, per questa via,
l’occupazione». «Ma non succederà – è l’analisi della Cgil – perché il permanere di una
crisi di domanda scoraggia le imprese». Anche gli incentivi direttamente legati alla stipula
di nuovi contratti a tempo indeterminato realizzeranno, secondo il sindacato, «più stabilizzazioni e sostituzioni che nuovi occupati». Le politiche per le imprese e le misure fiscali
per lo sviluppo, inoltre, «non sono adeguate e manca una vera politica industriale. In più
sottendono una politica concettualmente antimeridionale, determinando un’ulteriore differenziale nella coesione del Paese». Ecco quindi la contro-finanziaria della Cgil, fatta di
investimenti, valorizzazione del lavoro e dei servizi pubblici, tasse sulla ricchezza. Il sindacato ribadisce la necessità che per creare posti di lavoro si debbano coinvolgere, con uno
speciale contributo, i milionari: il 5% delle famiglie più ricche del Paese, quelli che la crisi
non l’hanno percepita lontanamente, neanche con il cannocchiale. Quei “poteri forti” che il
buon Renzi potrebbe decidersi finalmente di scomodare. La Cgil propone «un piano
straordinario per l’occupazione giovanile e femminile (appunto il Piano del lavoro, ndr), da
finanziare attraverso un’imposta sulle grandi ricchezze finanziarie che con un gettito di
circa 10 miliardi di euro l’anno potrebbe garantire oltre 740 mila nuovi posti di lavoro (pubblici e privati), aggiuntivi, in tre anni». E ancora, la Cgil chiede: «Una nuova politica industriale per l’innovazione, con il sostegno delle grandi imprese pubbliche nazionali e della
Cassa depositi e prestiti; una forte riduzione del carico fiscale sui redditi da lavoro e da
pensione, attraverso un piano di lotta per la riduzione strutturale dell’evasione fiscale
e della corruzione, recuperando le risorse utili ad aumentare ed estendere il bonus Irpef».
L’ultimo punto, sono quegli 80 euro che da tempo i sindacati (anche Cisl e Uil) vorrebbero
fossero estesi a categorie come i pensionati e gli incapienti. Ma finora Renzi non li ha
ascoltati.
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