QUADERN / GIOVEDÌ, 05 FEBBRAIO 2015 ILCASODELGIORNO PRIMOPIANO Iscrizione al Registro Imprese del recesso di socio di società personali “a ostacoli” Blocco della detrazione IVA con cessione d’azienda “riqualificata” / Luciano DE ANGELIS Nei confronti dei terzi, il recesso del socio di una società di persone ha effetto da quando, con mezzi idonei, venga loro portato a conoscenza (art. 2290 c.c.). Mezzo idoneo per eccellenza, nel nostro ordinamento, è, senza dubbio, l’iscrizione dell’“exit” nel Registro delle imprese (d’ora innanzi anche R.I.), ex art. 2300 c.c. Ovviamente, nessun problema si pone nei casi in cui, a seguito del recesso di uno di essi, tutti i soci si rechino dal notaio per modificare l’atto costitutivo e questi provveda a depositare il novellato contratto sociale presso il R.I. Diversa situazione (piuttosto frequente nella pratica) si configura, invece, quando, a seguito di dissidi nella compagine societaria, qualche socio rifiuti di recarsi dal notaio e non si riesca, quindi, a formalizzare il recesso tramite atto pubblico o scrittura [...] A PAGINA 2 Per la cessione rileva la regolamentazione degli interessi effettivamente perseguiti, anche se con una pluralità di pattuizioni non contestuali / Alessandro BORGOGLIO Si configura una cessione d’azienda quando una società cede, attraverso varie operazioni commerciali indipendenti, i beni di magazzino, la proprietà del prodotto finito, le materie prime e gli stampi ad un’altra società che corrisponde alla prima una “indennità di spoliazione”. È quanto emerge dalla corposa sentenza della Cassazione n. 1955 depositata ieri. La fattispecie è ormai abbastanza ricorrente e si presenta allorquando, come nel caso di specie, l’Amministrazione finanziaria contesti ad un contribuente – nello specifico ad una spa – l’omessa registrazione di un contratto di cessione d’azienda soggetto ad imposta di registro, desumendo la sussistenza di tale cessione d’azienda dalla riqualificazione complessiva di diverse operazioni commerciali autonome di vendita di beni (anche strumentali), sottoposte a IVA da parte del cedente, ed in relazione alle quali il cessionario esercita di regola il diritto alla detrazione. È allora importante ricordare che la cessione di beni è soggetta all’IVA, mentre la cessione d’azienda ne è esclusa ai sensi dell’art. 2, comma 3, lett. b) del DPR 633/1972. Quest’ultima, INEVIDENZA Indebita compensazione con confini da chiarire Definita la contribuzione 2015 per artigiani e commercianti Fotovoltaico agricolo produttivo di reddito agrario anche per il 2015 Operativo il credito d’imposta per la musica Responsabile per la prevenzione della corruzione tra i dirigenti in servizio però, è un negozio giuridico soggetto all’obbligo di registrazione (a cui si applica l’imposta proporzionale di registro), per il principio di alternatività di cui all’art. 40 del DPR 131/1986. Pertanto, se l’Amministrazione finanziaria riqualifica un atto di cessione di singoli beni in una cessione d’azienda, viene sanzionata l’omessa registrazione dell’atto attraverso l’applicazione dell’imposta di registro e viene altresì irrogata la sanzione amministrativa dal 120% al 240% ex art. 69 del DPR 131/1986. Al cessionario, invece, è disconosciuta la detrazione dell’IVA che ha indebitamente corrisposto sull’acquisto dei singoli beni (cfr. Cass. n. 13222/2001). Nel caso oggetto della pronuncia di ieri, il Fisco aveva riqualificato le singole operazioni commerciali in una cessione d’azienda, considerando che con le stesse la società venditrice aveva di fatto ceduto, seppur non unitariamente con una sola transazione, l’intero magazzino, le materie prime, gli stampi e i prodotti finiti, ed aveva trasferito alla cessionaria i beni immateriali (know-how, marketing, intangibles e software), [...] A PAGINA 4 FISCO Illegittimo l’eventuale disconoscimento della voluntary disclosure / Alfio CISSELLO La formulazione normativa e le istruzioni al modello di richiesta di accesso alla voluntary disclosure inducono a ritenere che l’attivazione della procedura internazionale richieda anche la definizione di eventuali violazione interne. La questione si presenta delicata sotto diversi profili, posto che si tratterebbe di fare una sorta di audit fiscale del contribuente, particolarmente lungo e difficoltoso se questo ha esercitato attività di lavoro auton [...] A PAGINA 6 ancora IL CASO DEL GIORNO Iscrizione al Registro Imprese del recesso di socio di società personali “a ostacoli” Dovrebbero essere distinte le due situazioni attinenti al recesso “ad nutum” e a quello per giusta causa / Luciano DE ANGELIS Nei confronti dei terzi, il recesso del socio di una società di persone ha effetto da quando, con mezzi idonei, venga loro portato a conoscenza (art. 2290 c.c.). Mezzo idoneo per eccellenza, nel nostro ordinamento, è, senza dubbio, l’iscrizione dell’“exit” nel Registro delle imprese (d’ora innanzi anche R.I.), ex art. 2300 c.c. Ovviamente, nessun problema si pone nei casi in cui, a seguito del recesso di uno di essi, tutti i soci si rechino dal notaio per modificare l’atto costitutivo e questi provveda a depositare il novellato contratto sociale presso il R.I. Diversa situazione (piuttosto frequente nella pratica) si configura, invece, quando, a seguito di dissidi nella compagine societaria, qualche socio rifiuti di recarsi dal notaio e non si riesca, quindi, a formalizzare il recesso tramite atto pubblico o scrittura privata autenticata. In questi casi, la giurisprudenza di legittimità (Cass. 26 febbraio 2002 n. 2812), la prassi professionale (Centro studi UNGDC, circolare 15 aprile 2009 n. 5) e camerale (Registri delle imprese di Roma e Triveneto, istruzioni del maggio 2014) ritengono che l’iscrizione dell’avvenuto recesso nel Registro Imprese ai sensi dell’art. 2300 c.c. possa essere richiesta, nel termine di 30 giorni dal suo verificarsi, dagli amministratori (anche senza intervento del notaio). Non solo: essa – si legge in un documento del Registro delle imprese di Torino (del maggio 2009) – rappresenterebbe, per gli amministratori, uno specifico obbligo, con conseguente applicazione della sanzione amministrativa di cui all’art. 2630 c.c. nel caso in cui non vi provvedano entro il termine previsto dalla legge. Ma cosa succede quando il socio, in dissidio col recedente, sia proprio l’amministratore chiamato alla registrazione e questo non la esegua? La giurisprudenza è, sul punto, ondivaga. Da un lato, ha sostenuto la possibilità per il socio receduto di sostituire l’amministratore quando questo non provveda tempestivamente al deposito presso il R.I della dichiarazione di recesso (Cass. nn. 5732/1999 e 2812/2002); dall’altro, ha sostenuto anche l’esatto opposto (Cass. n. 14360/1999). Tale diversificazione, a quanto consta, è propria anche nei Registri delle imprese. A riguardo, infatti, mentre in alcuni casi è stato ammesso l’intervento suppletivo del socio (Registri delle imprese del Triveneto e di Torino), in altri si è escluso che la domanda possa essere presentata direttamente dal receduto, atteso che questi, a seguito del recesso, ha perso il potere di gestione ed è divenuto un estraneo alla / EUTEKNEINFO / GIOVEDÌ, 05 FEBBRAIO 2015 società, potendo, dunque, solo limitarsi a richiedere al Conservatore l’iscrizione d’ufficio della sua fuoriuscita dalla compagine (Registro Imprese di Roma, istruzioni del maggio 2014). Il Notariato, peraltro, propone una soluzione ancora più radicale, ritenendo, sia a livello nazionale che interregionale, il recesso non iscrivibile nel Registro delle imprese, nelle more dell’adozione di un formale atto modificativo dei patti sociali, se non nella forma di atto pubblico o scrittura privata autenticata (Cnn Notizie, risposta a quesito n. 203/2008 e Comitato Notarile Triveneto, massima O.A.8 del settembre 2014). L’opinione di chi scrive è che debbano essere distinte le due situazioni attinenti al recesso ad nutum rispetto a quello per giusta causa. Nel primo caso (tipico nella società contratta a tempo indeterminato), l’intervento diretto del socio dovrebbe ritenersi ammesso, in quanto il recesso (una volta trascorso il periodo di preavviso) ha indubitabilmente prodotto i suoi effetti e, quindi, l’accoglimento della domanda di iscrizione dello stesso da parte del R.I. diventa una sorta di atto dovuto. Diversamente, nel recesso per giusta causa, l’intervento diretto del socio dovrebbe passare al vaglio del Conservatore del R.I. competente, il quale potrà provvedere all’iscrizione nei casi in cui il recesso abbia prodotto conseguenze (ad esempio, l’avvenuta liquidazione della quota spettante al receduto), mentre dovrebbe astenersi dall’iscrizione nei casi in cui ciò non sia avvenuto o in quelli, all’epoca della richiesta di iscrizione, al vaglio della magistratura. Opportune modalità incontrovertibili per l’iscrizione del recesso del socio L’iscrizione dell’exit presso il R.I. appare, in ogni caso, di rilevanza assoluta. È da questa, infatti, che deriva l’opponibilità ai terzi dello scioglimento del vincolo sociale al fine di escludere la responsabilità illimitata del socio cessato per i debiti sociali sorti successivamente a tale evento, nonché l’assoggettamento del medesimo a fallimento unitamente alla società. Secondo la Cassazione, infatti, anche il recedente che non abbia più partecipato alla gestione della società, né abbia avuto contatti con i creditori, risulta responsabile per le obbligazioni sociali contratte dopo il suo recesso e può essere dichiarato “personalmente” fallito a seguito del fallimento / 02 ancora della società senza alcun limite temporale (Cass. nn. 9234/2012, 4865/2010 e 28225/2008). Nello stesso senso, la Suprema Corte ha ritenuto che la responsabilità del socio per i debiti sociali previdenziali nei confronti dell’INPS riguardi anche il periodo intercorrente fra la data di efficacia “interna” del recesso e quella successiva, in cui lo stesso sia stato iscritto nel Registro delle imprese (Cass. n. 13240/2013), e tale principio è stato considerato applicabile dai giudici di legittimità anche in relazione ai debiti sociali di natura tributaria (come il debito IVA) (Cass. n. 14002/2012). Inoltre, sempre sul piano fiscale, si è ritenuto che il recesso del socio, non iscritto dagli amministratori nel R.I., né comunicato all’Amministrazione finanziaria determini l’impu- / EUTEKNEINFO / GIOVEDÌ, 05 FEBBRAIO 2015 tazione, in capo al receduto, del reddito da partecipazione nella società ai fini dell’applicazione dell’IRPEF, nella misura spettatengli dal momento del recesso fino al periodo di imposta in cui l’accadimento venga adeguatamente pubblicizzato (Cass. n. 2812/2002). In definitiva, data l’evidenziata importanza dell’iscrizione del recesso del socio nel R.I., parrebbe opportuno introdurre nel sistema modalità incontrovertibili finalizzate ad ottenerla, sanzionando chi, all’interno della compagine societaria, ne ostacoli la pubblica evidenziazione (per approfondimenti, si rimanda al n. 1/2015 della Rivista di Eutekne Dottrina “Società e Contratti, Bilancio e Revisione”, in corso di pubblicazione). / 03 ancora FISCO Blocco della detrazione IVA con cessione d’azienda “riqualificata” Per la cessione rileva la regolamentazione degli interessi effettivamente perseguiti, anche se con una pluralità di pattuizioni non contestuali / Alessandro BORGOGLIO Si configura una cessione d’azienda quando una società cede, attraverso varie operazioni commerciali indipendenti, i beni di magazzino, la proprietà del prodotto finito, le materie prime e gli stampi ad un’altra società che corrisponde alla prima una “indennità di spoliazione”. È quanto emerge dalla corposa sentenza della Cassazione n. 1955 depositata ieri. La fattispecie è ormai abbastanza ricorrente e si presenta allorquando, come nel caso di specie, l’Amministrazione finanziaria contesti ad un contribuente – nello specifico ad una spa – l’omessa registrazione di un contratto di cessione d’azienda soggetto ad imposta di registro, desumendo la sussistenza di tale cessione d’azienda dalla riqualificazione complessiva di diverse operazioni commerciali autonome di vendita di beni (anche strumentali), sottoposte a IVA da parte del cedente, ed in relazione alle quali il cessionario esercita di regola il diritto alla detrazione. È allora importante ricordare che la cessione di beni è soggetta all’IVA, mentre la cessione d’azienda ne è esclusa ai sensi dell’art. 2, comma 3, lett. b) del DPR 633/1972. Quest’ultima, però, è un negozio giuridico soggetto all’obbligo di registrazione (a cui si applica l’imposta proporzionale di registro), per il principio di alternatività di cui all’art. 40 del DPR 131/1986. Pertanto, se l’Amministrazione finanziaria riqualifica un atto di cessione di singoli beni in una cessione d’azienda, viene sanzionata l’omessa registrazione dell’atto attraverso l’applicazione dell’imposta di registro e viene altresì irrogata la sanzione amministrativa dal 120% al 240% ex art. 69 del DPR 131/1986. Al cessionario, invece, è disconosciuta la detrazione dell’IVA che ha indebitamente corrisposto sull’acquisto dei singoli beni (cfr. Cass. n. 13222/2001). Nel caso oggetto della pronuncia di ieri, il Fisco aveva riqualificato le singole operazioni commerciali in una cessione d’azienda, considerando che con le stesse la società venditrice aveva di fatto ceduto, seppur non unitariamente con una sola transazione, l’intero magazzino, le materie prime, gli stampi e i prodotti finiti, ed aveva trasferito alla cessionaria i beni immateriali (know-how, marketing, intangibles e software), ceduto i contratti in essere con fornitori e clienti, ed infine distaccato il personale con funzioni chiave. A fronte di ciò, inoltre, la società cessionaria aveva corrisposto alla cedente una “indennità di spoliazione” di diversi milioni di euro. La Cassazione ha ricordato, innanzitutto, che, ai sensi / EUTEKNEINFO / GIOVEDÌ, 05 FEBBRAIO 2015 dell’art. 20 del DPR 131/1986, l’imposta di registro è applicata secondo l’intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente. In forza di tale disposizione, quindi, deve attribuirsi rilievo preminente alla causa reale dei negozi giuridici e alla regolamentazione degli interessi effettivamente perseguita dai contraenti, anche se mediante una pluralità di pattuizioni non contestuali (Cass. nn. 13580/2007, 1405/2013, 10740/2013 e 6405/2014). Nel caso di specie, secondo la Suprema Corte, le predette cessioni di beni materiali ed immateriali dovevano ritenersi un fenomeno a carattere unitario configurabile come cessione d’azienda, peraltro senza necessità di ricorrere all’abuso di diritto in forza dell’elusività dell’operazione, giacché il predetto art. 20 non è solo una norma di interpretazione degli atti, ma una disposizione intesa a identificare l’elemento strutturale del rapporto giuridico tributario, il quale è dato dall’oggetto e viene fatto coincidere con gli effetti giuridici indicativi della capacità contributiva dei soggetti che compiono gli atti (cfr. Cass. n. 2713/2002). Si ricorda, a tal proposito, che in passato i giudici di legittimità avevano già stabilito che si ha cessione d’azienda quando i contraenti pattuiscono il trasferimento dei beni organizzati in vista dell’esercizio dell’attività d’impresa, essendo sufficiente che il loro complesso presenti una attitudine a tale esercizio, ovvero una potenzialità produttiva (Cass. n. 8362/1992), anche se non sono cedute le relazioni finanziarie, commerciali e personali (Cass. n. 23857/2007). Ed ancora che, ai fini della configurazione della cessione d’azienda, non è necessario che vengano trasferiti tutti i beni aziendali, ma è sufficiente il trasferimento di alcuni di essi, purché nel complesso di questi ultimi permanga un residuo di organizzazione che ne dimostri l’attitudine all’esercizio dell’impresa (Cass. n. 21481/2009). Il cessionario può richiedere l’IVA al cedente Sul fronte del cessionario, poi, la Suprema Corte, con la sentenza di ieri, ha confermato l’indetraibilità dell’IVA assolta sugli acquisti dei predetti beni, giacché l’imposta in fattura era stata erroneamente addebitata dal cedente, trattandosi appunto di una cessione d’azienda non soggetta ad IVA, e non di una pluralità di cessioni di beni soggette invece ad imposta. In sostanza, nel caso di specie erroneamente erano state ritenute soggette ad IVA le operazioni realizzate, / 04 ancora con la conseguenza che il cedente che l’aveva versata ne può chiedere il rimborso (nei limiti della decadenza), e il cessionario che l’aveva pagata al cedente potrà richiederla a questi, ma non portarla in detrazione. Ciò, peraltro, non lede il principio di neutralità dell’IVA, atteso che in questo caso la cessionaria va parificata al consumatore finale che deve sopportare per intero il peso dell’imposta in quanto soltanto il prestatore di servizi o il / EUTEKNEINFO / GIOVEDÌ, 05 FEBBRAIO 2015 cedente di beni va considerato di fronte alle autorità tributarie debitore dell’IVA. Il cessionario ha, invece, sia pure erroneamente, pagato al cedente l’IVA non dovuta, ma non sorge in capo allo stesso il diritto alla detrazione, potendo richiedere solo nei confronti del cedente il pagamento di un indebito di cui lo stesso cedente può, a sua volta, chiedere, nei limiti della decadenza e prescrizione, il rimborso al Fisco. / 05 ancora FISCO Illegittimo l’eventuale disconoscimento della voluntary disclosure È in capo al Fisco l’onere di determinare correttamente le imposte dovute per gli anni oggetto di collaborazione volontaria / Alfio CISSELLO La formulazione normativa e le istruzioni al modello di richiesta di accesso alla voluntary disclosure inducono a ritenere che l’attivazione della procedura internazionale richieda anche la definizione di eventuali violazione interne. La questione si presenta delicata sotto diversi profili, posto che si tratterebbe di fare una sorta di audit fiscale del contribuente, particolarmente lungo e difficoltoso se questo ha esercitato attività di lavoro autonomo o d’impresa. Sarebbe poi sufficiente una contestazione sulla competenza o sull’inerenza per rendere potenzialmente incompleta l’emersione. Già in un precedente intervento (si veda “Da chiarire gli effetti tombali della voluntary «interna»” del 10 dicembre 2014) ci eravamo interrogati sulla possibilità che l’Erario, appurando il mancato possesso dei requisiti per accedere alla voluntary disclosure, notifichi, dopo il pagamento delle somme o delle tre rate, un atto di disconoscimento della medesima. Riflettendo sul dato normativo e privilegiando una ricostruzione sistematica, riteniamo che ciò non sia possibile. Per prima cosa, la voluntary disclosure non si concretizza, come nel caso di alcuni condoni del 2002 o di altre forme di sanatoria, in una procedura di sanatoria ad hoc, ma, limitatamente agli effetti, in un semplice accertamento con adesione o in un’adesione all’invito, con alcune particolarità (si pensi, ad esempio, al fatto che il perfezionamento coincide con il versamento di tutte e tre le rate, e non solo della prima). Allora, non possono che operare le norme del DLgs. 218/97, per quanto non previsto dalla L. 186/2014. Ciò significa, da un lato, che l’accertamento con adesione non è impugnabile o modificabile, e questo vale sia per l’Ufficio che per il contribuente (lo dice l’art. 2 comma 3 del DLgs. 218/97, secondo cui “l’accertamento definito con adesione non è soggetto ad impugnazione, non è integrabile o modificabile da parte dell’ufficio”). Dall’altro, è possibile non il disconoscimento ma la reiterazione del potere impositivo, sulla base e alle condizioni dell’art. 2 comma 4 del DLgs. 218/97, quindi, ad esempio, se viene accertato un maggior reddito che supera almeno del 50% quello definito, oppure se la definizione concerne accertamenti parziali (cosa che mai si potrà verificare, posto che l’atto ove vengono liquidate le somme non può qualificarsi come parziale, essendo assolutamente irrilevante la denominazione data dall’Ufficio). / EUTEKNEINFO / GIOVEDÌ, 05 FEBBRAIO 2015 Relativamente, invece, alle sanzioni da RW, esse vengono definite ai sensi dell’art. 16 del DLgs. 472/97, e anche in tal caso non è previsto un disconoscimento successivo, che neghi i benefici della L. 186/2014. Fermi restando i termini di decadenza, è possibile contestare nuove violazioni dell’art. 5 del DL 167/90, che potranno essere definite con la sola riduzione al terzo. Dal punto di vista sistematico, è altresì sostenibile che l’Ufficio sia impossibilitato a disconoscere la voluntary disclosure, in quanto si tratta di un procedimento che, a differenza di molte tipologie di condoni, presuppone la liquidazione d’ufficio, e non la determinazione del maggior reddito e dell’imposta ad opera del contribuente. Entra in gioco anche la tutela del legittimo affidamento, che verrebbe lesa qualora, a posteriori, venissero meno gli effetti dell’istituto, in special modo la copertura penale. Possibile la reiterazione dell’accertamento Entro il 30 settembre 2015, occorre presentare la domanda, poi, estremizzando, il funzionario può anche metterci un paio di anni per liquidare il dovuto. Se il contribuente versa entro i termini quanto liquidato, nulla quaestio. Ove, invece, egli non paghi le somme, la voluntary disclosure non si perfeziona, e l’Ufficio, ex art. 5quinquies comma 10 del DL 167/90, anche in deroga agli ordinari termini decadenziali, notifica l’accertamento o l’atto di contestazione della sanzione con la “rideterminazione” della sanzione entro il 31 dicembre dell’anno successivo a quello di notificazione dell’invito o dell’adesione. In sostanza, in ipotesi di mancato perfezionamento della voluntary (ergo: di mancato o tardivo pagamento e non di insussistenza, a monte, dei requisiti per fruirne) arriva un accertamento con le sanzioni “piene”, definibile mediante i normali istituti deflativi del contenzioso, senza i benefici della voluntary, con la particolarità che, da un lato, il contribuente si è ormai autodenunciato, dall’altro, non opera più neanche la copertura penale. L’Agenzia delle Entrate, dal canto suo, ha tutto il tempo per analizzare la posizione del contribuente, e ben può negare la voluntary, emettendo, beninteso, entro i normali termini decadenziali, l’avviso di accertamento (fermo restando l’eventuale slittamento del termine per il rispetto dei novanta giorni di cui all’art. 5-quater del DL 167/90). / 06 ancora IMPRESA Indebita compensazione con confini da chiarire Rispetto alla fittizia esposizione di somme al lavoratore per indennità, con conseguente conguaglio dall’INPS, proposte quattro diverse interpretazioni / Maurizio MEOLI Integra la fattispecie di indebita compensazione, ex art. 10quater del DLgs. 74/2000, il datore di lavoro che, con la fittizia esposizione di somme corrisposte al lavoratore a titolo di indennità per malattia, maternità o assegni familiari, ottiene dall’INPS il conguaglio di tali somme, in realtà non corrisposte, con quelle da lui dovute all’Istituto per contributi previdenziali ed assistenziali, così omettendo di versargli (o percependo indebitamente dallo stesso) le corrispondenti erogazioni. Rispetto alla fattispecie ex art. 10-quater del DLgs. 74/2000 rilevano anche compensazioni riguardanti contributi previdenziali. Lo precisa la Cassazione nella sentenza n. 5177, depositata ieri, intorbidendo ulteriormente le acque già poco limpide dei rapporti tra la fattispecie penale tributaria e taluni reati comuni. In ordine alla condotta sopra ricordata, infatti, si contano quanto meno quattro distinte ricostruzioni. Secondo un primo orientamento integrerebbe il delitto di truffa (art. 640 comma 2 c.p.) – e non il meno grave reato di omissione o falsità in registrazione o denuncia obbligatoria (ex art. 37 della L. 689/81) – la condotta del datore di lavoro che, per mezzo dell’artificio costituito dalla fittizia esposizione di somme corrisposte al lavoratore, induca in errore l’istituto previdenziale sul diritto al conguaglio di dette somme, mai corrisposte, realizzando così un ingiusto profitto e non già una semplice evasione contributiva (cfr. Cass. n. 45225/2014, n. 42937/2012 e n. 11184/2007). A giudizio di altra ricostruzione, nel caso di mancata corresponsione ad un dipendente, da parte del datore di lavoro, di indennità di malattia e assegni familiari portati comunque a conguaglio nei confronti dell’INPS, non ricorre il delitto di truffa per difetto del danno patrimoniale all’istituto previdenziale, potendosi ravvisare in astratto il reato di appropriazione indebita (art. 646 c.p.) in danno del lavoratore (cfr. Cass. n. 18762/2013). Secondo le sentenze della Cassazione n. 51845/2014 e n. 48663/2014, invece, la condotta in questione sarebbe da inquadrare nella fattispecie di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato, di cui all’art. 316-ter c.p. Delitto che prescinde sia dall’esistenza di artifici o raggiri, sia dalla induzione in errore, sia dall’esistenza di un danno patrimoniale patito dalla persona offesa; elementi che, invece, caratterizzano la truffa. Ad essere richiesto è l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere (o l’omissione di informazioni dovute) da cui derivi il conseguimento indebito di erogazioni da parte / EUTEKNEINFO / GIOVEDÌ, 05 FEBBRAIO 2015 dello Stato, enti pubblici o Comunità europee (ovvero il conseguimento di erogazioni cui non si ha diritto); erogazioni che possono consistere indifferentemente sia nell’ottenimento di una somma di denaro che nell’esenzione dal pagamento di una somma altrimenti dovuta. Anche questa conclusione è ora contraddetta dalla sentenza depositata ieri, secondo la quale il caso in esame farebbe emergere la questione del rapporto tra la truffa (invocata dal PM, dal momento che gli importi in gioco erano inferiori a 50.000 euro) e l’indebita compensazione (ravvisata dal GUP, con conseguente sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza penale del fatto per mancato superamento della soglia di punibilità). Rapporto che, alla luce del principio di specialità, deve essere risolto in favore della fattispecie penale tributaria, individuandosi l’elemento specializzante nell’esatta individuazione sia della natura dell’artificio, ovvero la compensazione mediante crediti inesistenti o non dovuti, che del soggetto passivo, attraverso il rinvio ai soggetti creditori indicati nell’art. 17 del DLgs. 241/97 (cfr. anche Cass. n. 22191/2014 e n. 35968/2009). Al fondo di tutto ciò, poi, si pone la questione relativa alla riferibilità o meno della fattispecie penale tributaria anche alle compensazioni riguardanti contributi previdenziali. La decisione in commento, in linea con la prevalente dottrina e giurisprudenza (cfr. Cass. n. 35968/2009 e n. 13996/2012), la risolve affermativamente. Ciò in quanto, innanzitutto, il titolo del DLgs. 74/2000 – che parla di reati in materia di imposte sui redditi e di IVA – non è vincolante per l’interprete. Rilevano, poi, il riferimento contenuto nell’art. 17 del DLgs. 241/97, tra i debiti ed i crediti suscettibili di compensazione, anche a quelli relativi a contributi previdenziali, e quello, contenuto nell’art. 10-quater del DLgs. 74/2000, agli importi non versati che sono volutamente indicati con la generica espressione “somme dovute”. Una differente lettura, inoltre, renderebbe ardua l’applicazione della fattispecie qualora dovesse venire portato in compensazione un credito fittizio incidente su partite debitorie fiscali e non fiscali, in quanto la compensazione è effettuata sulla somma delle posizioni debitorie del contribuente senza distinzione tra debiti fiscali e di diversa natura. In senso contrario, peraltro, si è espressa la Cassazione n. 48663/2014. A sostegno di tale conclusione, potrebbe rilevare, oltre al contesto normativo in cui la fattispecie è inserita, il richiamo, attraverso il rinvio all’art. 10-bis del DLgs. 74/2000, al “periodo d’imposta”. / 07 ancora LAVORO & PREVIDENZA Definita la contribuzione 2015 per artigiani e commercianti Forniti dall’INPS i valori di aliquote, minimali e massimali di reddito, nonché il quadro delle scadenze per i versamenti / Luca MAMONE Con la circ. n. 26 di ieri, l’INPS ha fornito i dati di interesse ai fini della contribuzione IVS artigiani ed esercenti attività commerciali per il 2015, quali aliquote, minimali e massimali di reddito, nonché le modalità di determinazione degli importi che i contribuenti appartenenti alle predette categorie dovranno corrispondere entro le previste scadenze. Innanzitutto, si evidenzia l’incremento “automatico” dello 0,45% dell’aliquota base, dovuto ai sensi dell’art. 24, comma 22 del DL 201/2011, il quale ha previsto che, a partire dal 2012, le aliquote contributive di finanziamento delle gestioni autonome artigiani e commercianti dell’INPS siano incrementate di 1,3 punti percentuali e successivamente dello 0,45% ogni anno fino a raggiungere il livello del 24%. Pertanto, la misura dell’aliquota da applicare per il 2015 ad entrambe le categorie è pari al 22,65% (lo scorso anno era il 22,20%). Tenendo conto di tale valore, si ricorda che per i soli iscritti alla Gestione commercianti dovrà essere sommato lo 0,09% (per un valore totale dell’aliquota pari al 22,74%) a titolo di aliquota aggiuntiva istituita dall’art. 5 del DLgs. n. 207/1996, ai fini dell’indennizzo per la cessazione definitiva dell’attività commerciale. In più, nel computo occorre considerare anche il contributo aggiuntivo per le prestazioni di maternità, pari a 0,62 euro mensili (7,44 euro annuali), così come previsto dall’art. 49, comma 1 della L. n. 488/1999. Di converso, trovano applicazione anche per quest’anno sia la consueta riduzione contributiva del 50% per gli iscritti con più di 65 anni di età, sia le aliquote ridotte per i coadiuvanti con età non superiore a 21 anni, fissate al 19,65% per gli artigiani e 19,74% per i commercianti. Ciò premesso, nella circolare in esame viene reso noto il valore del minimale di reddito annuo, utile ai fini del calcolo della contribuzione IVS per artigiani e commercianti, che per il 2015 è pari a 15.548 euro. Pertanto, la contribuzione IVS sul minimale di reddito sarà, su base annua, pari a 3.529,06 euro (3.521,62 IVS + 7,44 maternità) per gli artigiani e 3.543,05 euro (3.535,61 IVS + 7,44 maternità) per i commercianti, ovvero 3.062,62 e 3.076,61 euro con riferimento ai rispettivi coadiuvanti di età non superiore ai 21 anni. / EUTEKNEINFO / GIOVEDÌ, 05 FEBBRAIO 2015 Invece, con riferimento a periodi inferiori all’anno solare, occorre calcolare il valore su base mensile, dividendo per 12 i predetti importi, ottenendo in questo modo valori mensili pari a 294,09 euro per gli artigiani (255,22 euro per i coadiutori under 21), 295,25 euro per i commercianti (256,38 euro per i coadiutori under 21). Invece, per quanto riguarda la contribuzione IVS eccedente il minimale, l’INPS ricorda che il contributo per quest’anno è dovuto sui redditi prodotti nel 2014 per la quota eccedente il minimale di 15.548 euro, con applicazione delle citate aliquote fino al limite della prima fascia di retribuzione annua pensionabile pari, per il 2015 a 46.123 euro, mentre per i redditi superiori a tale soglia si conferma l’aumento dell’aliquota dell’1% disposto dall’art. 3-ter del DL 384/92. Un altro importante valore di riferimento per la contribuzione IVS artigiani e commercianti è dato dal massimale di reddito annuo, che, per il 2015, è pari a 76.872 euro per coloro che si sono iscritti alle citate Gestioni prima del 1° gennaio 1996, ovvero a 100.324 euro se iscritti con decorrenza o successivamente a tale data, così come previsto dall’art. 2, comma 18 della L. 335/1995. Infine, nella circolare in esame, l’INPS detta la mappa delle scadenze alle quali artigiani e commercianti dovranno attenersi per effettuare i versamenti dei contributi di loro competenza, come sempre mediante il modello di pagamento unificato F24. In particolare, per il versamento delle 4 rate dei contributi dovuti sul minimale di reddito, i termini previsti sono il 18 maggio, 20 agosto e 16 novembre 2015, nonché il 16 febbraio 2016. Invece, con riferimento ai contributi dovuti sulla quota di reddito eccedente il minimale, a titolo di saldo 2014, primo e secondo acconto 2015, i termini previsti sono quelli per i pagamenti IRPEF. Sul punto, l’INPS ricorda che già dal 2013 non vengono più inviate le comunicazioni contenenti i dati e gli importi utili per il pagamento della contribuzione dovuta, poiché gli stessi sono a disposizione dei contribuenti mediante l’opzione “Dati del mod. F24” presente nel Cassetto previdenziale per artigiani e commercianti. Tale opzione, inoltre, consente anche di visualizzare e stampare il modello per effettuare il pagamento. / 08 ancora FISCO Fotovoltaico agricolo produttivo di reddito agrario anche per il 2015 Il decreto “Milleproroghe”, in corso di conversione in legge, ha rinviato di un anno quanto disposto dal DL 66/2014 / Antonio PICCOLO La regola della tassazione fondiaria per la produzione di energia da parte delle imprese agricole è stata differita di un anno dall’art. 12, comma 1, lett. a) del DL n. 192/2014 (decreto “Milleproroghe” – il cui Ddl. di conversione A.C. 2803 è all’esame delle Commissioni Affari costituzionali e Bilancio della Camera), che ha modificato l’art. 22, comma 1 del DL n. 66/2014 (conv. L. n. 89/2014) che, a sua volta, aveva novellato l’art. 1, comma 423 della L. n. 266/2005 (Finanziaria 2006). Per effetto della modifica la regola, secondo cui il reddito va determinato applicando all’ammontare dei corrispettivi delle operazioni sottoposte a registrazione ai fini dell’IVA il coefficiente di redditività del 25% (ferma restando la possibilità di optare per la determinazione del reddito con la differenza tra ricavi e costi), si applica dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2015 (e della novella occorre tener conto per determinare gli acconti IRPEF e IRES dovuti per il predetto periodo d’imposta). Di conseguenza, è stato modificato anche il successivo comma 1-bis dell’art. 22 del DL n. 66/2014, secondo cui, limitatamente agli anni 2014 e 2015, ferme restando le disposizioni tributarie in materia di accisa, la produzione e la cessione di energia elettrica e calorica da fonti rinnovabili agroforestali (fino a 2.400.000 kwh/anno) e fotovoltaiche (fino a 260.000 kwh/anno), nonché di carburanti ottenuti da produzioni vegetali provenienti prevalentemente dal fondo e di prodotti chimici derivanti da prodotti agricoli proveniente prevalentemente dal fondo effettuate dagli imprenditori agricoli, costituiscono attività connesse ai sensi del terzo comma dell’art. 2135 c.c. e si considerano produttive di reddito agrario. Al riguardo è utile rimarcare che la Corte Costituzionale, nell’udienza del 25 febbraio 2015, dovrà scrutinare la censura sollevata dalla C.T. Prov. di Agrigento, secondo cui il regime fiscale di favore previsto per gli imprenditori agricoli che producono e vendono energia da fonti rinnovabili, come stabilito dalla Finanziaria 2006, non prevede un limite oltre il quale questa attività diventa industriale, con il conseguente reddito assoggettato a tassazione ordinaria. Nel settore agricolo il “Milleproroghe” si è poi occupato anche dell’attuazione della revisione delle macchine agricole in circolazione sostituendo, con il comma 5 dell’art. 8, i termini di cui all’art. 111, comma 1, primo e secondo periodo del DLgs. n. 285/1992. La previsione sancisce ora in sostanza che, al fine di garantire adeguati livelli di sicurezza nei / EUTEKNEINFO / GIOVEDÌ, 05 FEBBRAIO 2015 luoghi di lavoro e nella circolazione stradale, il Ministro delle Infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro delle Politiche agricole (MIPAAF), con decreto da adottare entro e non oltre il 30 giugno 2015, dispone la revisione obbligatoria delle macchine agricole soggette a immatricolazione a norma dell’art. 110 del DLgs. n. 285/1992. Con lo stesso decreto è disposta, a far data dal 31 dicembre 2015, la revisione obbligatoria delle macchine agricole in circolazione soggette a immatricolazione in ragione del relativo stato di vetustà e con precedenza per quelle immatricolate antecedentemente al 1° gennaio 2009; inoltre sono stabiliti, d’intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, criteri, modalità e contenuti della formazione professionale per il conseguimento dell’abilitazione all’uso delle macchine agricole, in attuazione di dell’art. 73 del DLgs. n. 81/2008. La revisione delle macchine agricole scatterà quindi dal 31 dicembre 2015, con precedenza per quelle immatricolate prima del 1° gennaio 2009. Con l’allungamento del termine i Ministeri potranno così valutare meglio la definizione dei criteri di controllo dell’idoneità alla circolazione su strada anche delle macchine agricole. Sul punto si ricorda che il comma 14 dell’art. 1-bis del DL n. 91/2014 (conv. L. n. 116/2014) – provvedimento meglio conosciuto come piano di azioni “Campolibero” – ha stabilito che le organizzazioni professionali agricole e agromeccaniche, comprese quelle di rappresentanza delle cooperative agricole, maggiormente rappresentative a livello nazionale, nell’esercizio dell’attività di consulenza per la circolazione delle macchine agricole ai sensi del comma 13 dell’art. 14 (rubricato “Semplificazione degli adempimenti amministrativi”) del DLgs. n. 99/2004 e sue modificazioni, possono attivare le procedure di collegamento al sistema operativo di prenotazione del Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti, per immatricolare e gestire le situazioni giuridiche inerenti alla proprietà delle predette macchine. La norma ha previsto l’emanazione di un decreto interministeriale, entro il termine di 90 giorni dal 21 agosto 2014 (entrata in vigore della legge di conversione del DL n. 91/2014), per le modalità tecniche di collegamento con il Centro elaborazione dati del Ministero e le relative modalità di gestione, ma il provvedimento non risulta ancora essere stato emanato. / 09 ancora FISCO Operativo il credito d’imposta per la musica Agevolati i fonogrammi e videogrammi musicali, oltre agli spettacoli dal vivo / Pamela ALBERTI Con DM 2 dicembre 2014, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 3 febbraio 2015, sono state fornite le disposizioni applicative del credito d’imposta per la promozione della musica e dei nuovi talenti di cui all’art. 7 del DL 91/2013. Si tratta dell’agevolazione riconosciuta, per ciascuno degli anni 2014, 2015 e 2016, alle imprese produttrici di fonogrammi di cui all’art. 78 della L. n. 633/1941 e di videogrammi musicali e alle imprese organizzatrici e produttrici di spettacoli di musica dal vivo, esistenti almeno dal 1° gennaio 2012. In particolare, il credito d’imposta è riconosciuto nella misura del 30% dei costi sostenuti, dal 1° gennaio 2014 al 31 dicembre 2016, per attività di sviluppo, produzione, digitalizzazione e promozione di registrazioni fonografiche e videografiche musicali, che siano opere prime o seconde, di compositori, di artisti interpreti o esecutori, nonché di gruppi di artisti, commercializzate in un numero di copie non inferiore a mille, a condizione che al 18 febbraio 2015 (data di entrata in vigore del DM) i predetti soggetti abbiano già pubblicato e messo in commercio in Italia o all’estero, al proprio nome anagrafico o eventualmente artistico, non più di un’opera; non rilevano, a tale scopo, le demo autoprodotte, i singoli, gli EP. Il decreto in commento specifica che per “opera” si intendono registrazioni fonografiche o videografiche musicali composte da un insieme di almeno otto brani non già pubblicati diversi tra loro, ovvero da uno o più brani non già pubblicati di durata complessiva non inferiore a 35 minuti. Sono ammessi brani già pubblicati rielaborati (“cover”) in una misura non superiore al 20% del numero complessivo dei brani o del minutaggio complessivo dell’opera. Sono considerate opere anche le raccolte di brani non già pubblicati di più artisti che non costituiscano un gruppo. Ai fini del credito d’imposta, sono considerate eleggibili, ove effettivamente sostenute ai sensi dell’art. 109 del TUIR, le seguenti spese: - compensi afferenti allo sviluppo dell’opera, ovvero quelli spettanti agli artisti-interpreti o esecutori, al produttore artistico, all’ingegnere del suono e ai tecnici utilizzati dall’impresa per la sua realizzazione, nonché spese per la formazione e l’apprendistato effettuate nelle varie fasi di detto sviluppo; - spese relative all’utilizzo e nolo di studi di registrazione, noleggio e trasporto di materiali e strumenti; - spese di post-produzione, ovvero montaggio, missaggio, masterizzazione, digitalizzazione e codifica dell’opera, nonché spese di progettazione e realizzazione grafica; - spese di promozione e pubblicità dell’opera. / EUTEKNEINFO / GIOVEDÌ, 05 FEBBRAIO 2015 L’effettività del sostenimento delle spese deve risultare da apposita attestazione rilasciata dal presidente del Collegio sindacale, ovvero da un revisore legale iscritto nel registro dei revisori legali, o da un professionista iscritto nell’albo dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, o nell’albo dei periti commerciali o in quello dei consulenti del lavoro, ovvero dal responsabile del centro di assistenza fiscale. L’importo totale delle spese eleggibili non può essere superiore a 100.000 euro per ciascuna opera, la quale, di conseguenza, potrà beneficiare di un credito d’imposta massimo pari a 30.000 euro. Inoltre, l’agevolazione è concessa a ciascuna impresa nel rispetto dei limiti “de minimis” (regolamento Ue n. 1407/2013) e, comunque, fino all’importo massimo di 200.000 euro nei tre anni d’imposta. Istanze dal 1° al 28 febbraio Quanto alla procedura per il riconoscimento dell’agevolazione, le imprese devono presentare, dal 1° gennaio al 28 febbraio dell’anno successivo a quello di commercializzazione dell’opera (intesa come data di prima messa in commercio del relativo supporto fisico), apposita istanza al Ministero dei Beni e delle attività culturali e del turismo; le modalità telematiche di presentazione saranno definite dal Ministero entro 90 giorni. Nell’istanza, sottoscritta dal legale rappresentante dell’impresa, dovrà essere specificato, per la singola opera: data di commercializzazione; costo complessivo della realizzazione e ammontare totale delle spese eleggibili; attestazione di effettività delle spese sostenute; credito d’imposta spettante. Contestualmente all’istanza, le imprese devono altresì presentare alcune dichiarazioni (es. dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà relativa ad altri aiuti “de minimis”, dichiarazione di non essere controllate, direttamente o indirettamente, da parte di un editore di servizi media audiovisivi). Nell’allegato A al decreto è indicata la documentazione che, a pena di inammissibilità, deve essere allegata all’istanza. Il credito d’imposta è riconosciuto previa verifica dei requisiti soggettivi, oggettivi e formali, nonché nei limiti delle risorse disponibili (4,5 milioni di euro per ciascun periodo d’imposta agevolato). Entro 60 giorni dal termine di presentazione delle istanze, il Ministero comunica il riconoscimento dell’agevolazione e il relativo importo o il diniego. Il credito d’imposta è utilizzabile esclusivamente in compensazione mediante F24, ai sensi dell’art. 17 del DLgs. 241/97 e non rileva ai fini delle imposte sul reddito e dell’IRAP. / 10 ancora IMPRESA Responsabile per la prevenzione della corruzione tra i dirigenti in servizio Nelle società controllate da P.A., solo in casi eccezionali il RPC potrà coincidere con un amministratore, purché privo di deleghe gestionali / Alberto DE SANCTIS e Paolo VERNERO In occasione del Tavolo congiunto ANAC–MEF del 23 dicembre 2014, sono stati affrontati alcuni dubbi applicativi della disciplina per la prevenzione della corruzione nelle società pubbliche ed è stato elaborato un documento in cui si condividono le prossime linee operative, secondo cui, in tempi brevi, l’ANAC provvederà ad adottare un atto di indirizzo destinato all’intero comparto delle società partecipate dalle pubbliche amministrazioni. Sinteticamente, s’intende per società controllata quella in cui sia individuabile, direttamente o indirettamente, un controllo ai sensi dell’art. 2359, comma 1, n. 1 e n. 2 c.c. (escluso il n. 3 della stessa disposizione). Una società è, invece, da considerarsi semplicemente partecipata allorquando la partecipazione pubblica non sia idonea a determinare una tale situazione di controllo. Fatte queste premesse, si può dunque affermare che le società controllate, quando abbiano già provveduto ad adottare un modello organizzativo ex DLgs. 231/2001 (MOG) – che secondo le indicazioni del citato documento ANAC-MEF parrebbe obbligatorio – sono tenute a integrarlo con l’adozione di un Piano di prevenzione della corruzione (PPC) che preveda tutte le misure idonee a prevenire anche quei fenomeni di corruzione o di mera illegalità a questa potenzialmente collegati che non sono presi in considerazione dalla normativa in materia di responsabilità degli enti. Tra la L. 190/2012 e il DLgs. 231/2001 vi sono numerose differenze, tra cui principalmente: l’ambito operativo (reati presi in considerazione); l’interesse protetto (ex 231 si agisce nell’interesse o a vantaggio dell’ente; per la 190 si devono prevenire condotte anche potenzialmente in danno dell’ente); le conseguenze sanzionatorie (persona giuridica/persona fisica). Da ciò discende l’impossibilità di una completa sovrapposizione tra MOG e PPC, che operativamente può diventare una sezione del modello, ma che potrà richiamare le parti generali del modello stesso solo in quanto applicabili. Va anche precisato che le amministrazioni controllanti dovranno adottare nei propri piani di prevenzione della corruzione tutte le misure, anche organizzative, di vigilanza sull’effettiva adozione del piano e sulla nomina del Responsabile per la prevenzione della corruzione (RPC) da parte delle società controllate. Per quanto riguarda tale figura, questo deve essere nominato dall’organo di governo della società e dovrà essere scelto tra i dirigenti in servizio. Nella sola ipotesi in cui la società sia priva di dirigenti o questi siano in numero così limitato da poter svolgere solo compiti gestionali nelle aree a rischio corruttivo, il RPC potrà essere individuato in un funzionario che garantisca idonee competenze (salvo stretto controllo da parte dell’Amministratore o del CdA). In ultima istanza, e solo in casi eccezionali, questi potrà coincidere con un amministratore purché privo di deleghe gestionali. È invece stato escluso, dal documento ANAC-MEF citato, che questi possa essere un soggetto esterno alla società come l’OdV o altro organo di controllo a ciò esclusivamente deputato, così segnando un deciso cambio di rotta rispetto alle interpretazioni che si stavano diffondendo in merito ad una possibile attribuzione delle funzioni del RPC all’organismo di vigilanza ex DLgs. 231/2001. Simili considerazioni valgono anche in materia di trasparenza. A mente dell’art. 11 del DLgs. n. 33/2013 alle sole società controllate e per le sole attività di interesse pubblico dalle stesse gestite, oltre che per la relativa organizzazione, si applica per intero la disciplina pensata per le Pubbliche Amministrazioni. Ciò significa che le società controllate saranno tenute alla pubblicazione dei dati indicati dall’art. 1, commi 15-33 della L. 190/2012, limitatamente alle c.d. attività di pubblico interesse; alla realizzazione della sezione “Amministrazione trasparente” nel proprio sito internet; alla previsione di una funzione di controllo e monitoraggio dell’assolvimento degli obblighi di pubblicazione (il c.d. Responsabile per la trasparenza); all’organizzazione di un sistema che fornisca risposte tempestive ai cittadini; all’adozione di un Programma triennale per la trasparenza che contenga la programmazione di tutte le predette attività. Tutto molto più semplificato per le società partecipate (in minoranza) da enti pubblici, per cui sarà sufficiente la verifica dell’adeguatezza del modello organizzativo ex DLgs. 231/2001 nella parte in cui prevede idonee misure atte a prevenire fenomeni corruttivi legati ai rapporti con l’ente pubblico. In materia di trasparenza, queste saranno tenute al rispetto dei soli obblighi di pubblicazione dei dati indicati dall’art. 1, commi 15-33, L. 190/2012, limitatamente alle attività di pubblico interesse da esse svolte (esclusa dunque la pubblicità in relazione alla propria organizzazione). Direttore Responsabile: Michela DAMASCO EUTEKNE.INFO È UNA TESTATA REGISTRATA AL TRIBUNALE DI TORINO REG. N. 2/2010 DELL'8 FEBBRAIO 2010 Copyright 2015 © EUTEKNE SpA - Via San Pio V 27 - 10125 TORINO
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