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Concordato Preventivo:
risoluzione e annullamento
La risoluzione per inadempimento e l’annullamento
del Concordato dopo l’omologa
A cura dell’Avv. Simona Cardillo
LA RISOLUZIONE PER INADEMPIMENTO (PER SOPRAVVENUTA IMPOSSIBILITÀ AD ADEMPIERE) E L’ANNULLAMENTO DEL CONCORDATO DOPO L’OMOLOGA A seguito dell’omologazione, la procedura di Concordato Preventivo si chiude ed inizia la fase esecutiva. Dopo tale momento l’insorgenza di eventi patologici che ostacolino l’adempimento del piano concordatario può portare all’annullamento o alla risoluzione del concordato, sia esso, Fallimentare ovvero Preventivo. Le norme di riferimento, oltre ai principi codicistici sulla risoluzione del contratto per inadempimento (art. 1455 c.c.), sono l'art. 186 L.F. per quanto riguarda il Concordato Preventivo e gli articoli 137 e 138 L.F. per il Concordato Fallimentare (tra l’altro richiamati dall’art. 186 in quanto compatibili). In primo luogo la distinzione va operata tra cause che giustificano l’annullamento del Concordato, e quelle che ne giustificano la risoluzione. Il primo caso, disciplinato dall’art. 138 L.F., è rappresentato dai casi, tassativamente stabiliti, nei quali il passivo sia stato dolosamente esagerato, ovvero una parte rilevante dell’attivo sia stata sottratta o dissimulata. Il secondo, quello della risoluzione, invece è costituito dal caso in cui gli obblighi derivanti dal piano non possano essere rispettati. Le cause che comportano l’annullamento del Concordato sono relative a fatti che, seppur emergano tardivamente, dopo l’omologazione del piano, sono preesistenti al piano stesso e ne viziano la formazione. Diversamente, le cause che giustificano la risoluzione sono rappresentare da patologie della fase esecutiva del piano omologato. Entrambe le azioni in argomento si propongono secondo le regole stabilite dall’art. 15 L.F., ovvero davanti allo stesso Tribunale che ha emesso la sentenza di fallimento, il quale giudica in composizione collegiale, in contraddittorio con il debitore ed eventuali garanti. RISOLUZIONE PER INADEMPIMENTO: La risoluzione del Concordato può essere dichiarata, ad esempio, nei casi in cui gli obblighi derivanti dal piano non possano essere rispettati o vengano meno le garanzie costituite a sostegno dell’adempimento dello stesso. In particolare, come si è appena detto, anche il venir meno di un garanzia può essere valutato quale inadempimento, quale sintomo di irrealizzabilità del piano concordatario. Qualora, infatti, il successo dell’esecuzione del piano sia legato proprio al conferimento della garanzia, quest’ultima diviene elemento essenziale della proposta, il cui venir meno costituisce, già di per sé, inadempimento. La disciplina della risoluzione del Concordato preventivo è stata adeguata alla nuova concezione privatistica e contrattuale della procedura: il legislatore, infatti, ha esteso al Concordato i principi generali dell’ordinamento in materia di obbligazioni contrattuali (art. 1455 cod. civ.) prevedendo, in particolare, che non ogni inadempimento sia causa di possibile risoluzione, ma soltanto quello caratterizzato dalla sua non scarsa importanza (art. 186, 2° co.). Una parte della dottrina ritiene che l’importanza dell’inadempimento debba essere valutata alla luce dell’entità del credito fatto valere dal singolo creditore che agisce per la risoluzione del Concordato, qualificando, quindi, la controversia per la risoluzione come una normale controversia tra debitore e creditore. Altra parte della dottrina, muovendo dal presupposto che la risoluzione riguarda l’intera procedura, ritiene che la valutazione dell’inadempimento debba essere effettuata tenendo conto del complesso degli obblighi concordatari assunti, posto che il Tribunale potrà sempre valutare se la compromissione degli interessi del creditore istante possa o meno incidere sull’adempimento complessivo degli obblighi concordatari. Un problema particolare che si pone in relazione alla valutazione dell’importanza dell’inadempimento, attiene alla fattispecie di Concordato con cessione dei beni. Nel sistema previgente era esplicitamente previsto che il Concordato non potesse risolversi se dalla liquidazione dei beni si fosse ricavata una percentuale inferiore al 40%. Tale disposizione trovava la sua giustificazione nel fatto che, nel caso di cessione dei beni, l’unico adempimento richiesto al debitore era quello della messa a disposizione dei beni e, quindi, una volta operata tale prestazione, non poteva dirsi ricorrente un inadempimento rilevante ai fini della risoluzione del Concordato. La giurisprudenza aveva temperato tale principio, affermando che la risoluzione potesse comunque essere pronunciata nelle ipotesi in cui fosse accertata l’impossibilità del soddisfacimento integrale dei creditori privilegiati. A seguito della riforma e dell’accordo negoziale che interviene tra il debitore e i creditori, il Concordato preventivo per cessione dei beni può ormai essere fondato sul mero realizzo degli stessi, senza alcun vincolo per l’imprenditore di garantire una percentuale minima ai creditori; sia perché questo limite non è più previsto dalla legge, sia perché tale forma di Concordato deve essere intesa come uno strumento esclusivo di adempimento degli obblighi assunti con la proposta. Quindi, se oggi si vuole ancorare il risultato della cessione a parametri minimi di soddisfacimento dei creditori, questi devono/possono essere inseriti nella proposta concordataria. Nel nuovo sistema, quindi, stante l’abrogazione dell’art. 186 comma 2, L.F., si deve ritenere che, ai fini della valutazione dell’inadempimento, debba aversi riguardo non già alla sola messa a disposizione dei beni, bensì all’intero programma concordatario che deve prevedere anche percentuali e tempi di soddisfacimento dei creditori. Proprio l’assoluta atipicità del nuovo Concordato preventivo impone al debitore di esplicitare i risultati, in termini di soddisfacimento dei creditori, contenuti nella proposta (quantomeno con l’indicazione di una percentuale minima), con la conseguenza che il mancato raggiungimento di tale percentuale potrà determinare comunque la risoluzione del Concordato, a meno che la differenza in peius per i creditori non sia talmente bassa da poter qualificare l’inadempimento come di scarsa importanza. Il provvedimento conclusivo del procedimento di risoluzione avrà forme diverse a seconda dell’accoglimento o del rigetto della domanda. Nel primo caso, il provvedimento finale avrà la forma di sentenza provvisoriamente esecutiva; mentre, in caso di reiezione, il provvedimento conclusivo avrà forma di decreto. La disciplina in oggetto recepisce, come si è detto, alcuni principi generali della risoluzione per inadempimento del contratto laddove richiede, ad esempio la non scarsa importanza dell’inadempimento. La stessa se ne discosta invece ove, opportunamente, afferma il rilievo oggettivo dell’inadempimento, ossia il suo grado di gravità, indipendentemente da eventuali componenti soggettive quali la colpa, l’imputabilità dei fatti al debitore e l’interesse soggettivo. Un altro aspetto importante è determinare quale sia l’oggetto del procedimento di risoluzione. Lo strumento in argomento difatti non potrà sostituirsi agli altri esistenti e non potrà in ogni caso vertere sulla valutazione circa l’ammissibilità al passivo del singolo credito escluso. Ogni contestazione di tale ultima specie può essere fatta valere secondo gli strumenti propri previsti dalla Legge, ma non può costituire motivo per l’instaurazione del giudizio di risoluzione del Concordato, il cui oggetto è solo e semplicemente l’accertamento circa l’adempimento o meno, da parte del debitore, degli oneri e patti di cui alla proposta omologata. Per quanto riguarda la legittimazione attiva, la legge, come riformata, ha precisato che la risoluzione può essere domandata esclusivamente dai creditori. È esclusa, infatti, sia l’iniziativa d’ufficio che quella del Pubblico Ministero. A questo punto, mentre nel caso del Concordato Fallimentare alla risoluzione del Concordato segue la riapertura della procedura di fallimento, nell’ipotesi del Concordato Preventivo, a fronte dell’inerzia de creditori, non è ipotizzabile né una dichiarazione di fallimento d’ufficio, né su iniziativa del Pubblico Ministero. La dichiarazione d’ufficio è esclusa dalla stessa espunzione di tale ipotesi dall’ordinamento e l’iniziativa del Pubblico Ministero ha come presupposto la pronuncia di risoluzione, in assenza della quale non può esistere. La Dottrina si interroga, quindi, in assenza di iniziativa di risoluzione da parte di alcuno dei creditori, quale sorte debba avere il Concordato la cui esecuzione si sa resa irrealizzabile. La legge, chiaramente, non prevede un onere di attivazione in capo a creditori e, al pari, non prevede espressamente che questi ultimi debbano essere informati ‘del fatto dal quale possa derivare pregiudizio’. L’art. 185 L.F. stabilisce, infatti, che il Commissario Giudiziale debba sorvegliare l’adempimento del piano omologato e debba informare il Giudice (ma non i creditori..) dei fatti possibilmente pregiudizievoli per gli interessi dei creditori. Tuttavia, come da più parti rilevato, la relazione resa dal Commissario in forza dell’articolo di legge appena descritto, posto che l’azione di risoluzione e annullamento non può essere svolta d’ufficio, resterebbe del tutto priva di rilievo e di effetti se non venisse resa nota ai creditori. Si tratta, probabilmente, dell’effetto del passaggio dalla precedente normativa (la quale prevedeva, appunto, la risoluzione d’ufficio). Risulta oggi determinante che i creditori siano messi nella condizione di conoscere i fatti potenzialmente pregiudizievoli e di assumere così le proprie valutazioni, anche circa l’opportunità di promuovere azioni di risoluzione. Questo, fino ad un auspicato intervento del Legislatore sul punto, non potrà che avvenire tramite l’atteggiamento proattivo del singolo Commissario Giudiziale (o Curatore). In assenza di comunicazione ai creditori, la relazione redatta ex art. 185 L.F. dal Commissario Giudiziale, valutata la ineseguibilità del piano, verrebbe depositata presso il Tribunale, che, non potendo agire di propria iniziativa per la declaratoria di fallimento, non potrebbe che permettere il ritorno ‘in bonis’ della società, con restituzione a questa dell’attivo, seppur le passività non siano state falcidiate dall’esecuzione della soluzione concordataria. L’azione di risoluzione può essere promossa (da qualunque creditore) entro un anno dal termine fissato per l’ultimo adempimento previsto nel concordato. L’ANNULLAMENTO DEL CONCORDATO: Nella disciplina del Concordato preventivo non è previsto uno specifico procedimento per l’accertamento del passivo: è lo stesso debitore che produce, contestualmente alla domanda, un elenco nominativo dei creditori. A sua volta il Commissario Giudiziale procede alla verifica dell’elenco dei creditori e apporta le necessarie rettifiche. Ciascun creditore può sollevare contestazioni sui crediti concorrenti, alle quali il debitore ha diritto di replicare. I creditori esclusi possono opporsi, in sede di omologazione del Concordato, solo se la loro ammissione incide sulla formazione della maggioranza. Quanto esposto chiarisce che la verifica dell’elenco dei creditori e dei debitori e le eventuali rettifiche apportate dal Commissario Giudiziale, ai sensi dell’art. 171 L.F., assumono natura amministrativa e sono destinate all’individuazione dei soggetti aventi diritto di voto, ai fini del calcolo della maggioranza prevista per l’approvazione del Concordato. Ciò consente di affermare che nel Concordato Preventivo non è prevista una verifica a carattere giurisdizionale destinata all’accertamento dell’esistenza e della natura delle obbligazioni concorsuali. In questo senso, il giudizio di omologazione, pur determinando un vincolo in ordine al contenuto del piano presentato dal debitore ed approvato dai creditori, non comporta alcuna decisione sull’esistenza, entità e rango dei crediti. Il Tribunale di Piacenza ha avuto occasione di precisare che “la mancata previsione nel Concordato preventivo di una verifica del passivo di carattere giurisdizionale comporta che le contestazioni dei creditori circa l’esistenza, la misura, ed il rango dei crediti indicati dal debitore nella domanda ex art. 161 L.F.. eventualmente rettificati dal C.G. a termine dell’art. 171 L.F. o considerati dal liquidatore ai fini dei riparti, devono essere fatte valere mediante un ordinario giudizio di cognizione, non essendo prevista l’impugnazione endo-­‐concorsuale da parte dei creditori pretermessi, come avviene nel fallimento con l’opposizione allo stato passivo di cui agli art. 98 e ss L.F.”. L’azione di annullamento si differenzia dell’azione di risoluzione in particolare per quanto inerisce la legittimazione attiva: nel caso della risoluzione questa spetta ai soli creditori, anche individualmente considerati, mentre, nel caso dell’annullamento, spetta anche al Curatore o Commissario Giudiziale. L’istanza di annullamento può essere presentata esclusivamente e tassativamente nei casi normativamente previsti, ossia nel caso di dolosa esagerazione del passivo e di sottrazione o dissimulazione di una parte rilevante dell’attivo. Si tratta di comportamenti tesi a ingannare i creditori circa la convenienza della proposta e che tende ad ingannare anche il Tribunale, spingendolo ad esprimere un giudizio di legittimità e di convenienza che altrimenti avrebbe impedito. Il fatto che la condotta vizi l’adesione dei creditori alla domanda del debitore giustifica l’annullamento del Concordato, con l’effetto di eliminare, retroattivamente, gli effetti dell’omologazione. Per la dolosa esagerazione del passivo non si pongono problemi interpretativi, potendo consistere sia dall’esposizione di debiti inesistenti, sia dalla rappresentazione di debiti in misura maggiore rispetto al reale: in entrambi i casi la conseguenza è quella di un artificioso ampliamento del passivo rappresentato. Per quanto riguarda l’attivo, questo non deve essere stato sottratto o dissimulato dal debitore. Analogamente, quando artatamente si espone un attivo diverso e maggiore rispetto a quello effettivo: “il debitore che chiede di essere ammesso alla procedura di Concordato preventivo e rappresenta ai creditori un attivo diverso e significativamente superiore a quello a disposizione della procedura compie un atto fraudolento, assimilabile ad un atto di sottrazione o dissimulazione dell’attivo, in quanto vizia geneticamente l’accordo che sorregge il Concordato”. La Dottrina si è chiesta se la fattispecie si configuri anche nel caso in cui i beni siano stati sottostimati; la giurisprudenza ritiene che non vi sia dissimulazione dell’attivo, o quantomeno non automaticamente, allorché i beni risultino comunque individuati nelle loro caratteristiche essenziali. La norma riferisce l’ulteriore requisito della rilevanza soltanto all’ipotesi della sottrazione o dissimulazione dell’attivo, ma il requisito deve essere esteso, in via interpretativa, anche alla fattispecie dell’esagerazione del passivo, quale espressione del principio secondo cui soltanto le alterazioni idonee, per entità, ad incidere sulla volontà dei creditori assumono valenza ai fini del possibile annullamento del Concordato. L’azione di annullamento può essere promossa (dal Curatore -­‐ o Commissario Giudiziale -­‐ o da qualunque creditore) entro sei mesi dalla scoperta del dolo e comunque entro due anni dal termine fissato per l’ultimo adempimento previsto nel Concordato. La sentenza che annulla il Concordato può portare conseguenze differenti a seconda che si riferisca ad un Concordato Preventivo ovvero ad un Concordato Fallimentare. Se nel primo caso, infatti, l’effetto immediato è quello del ritorno ‘in bonis’ della società, nel caso del Concordato Fallimentare, la sentenza di annullamento riapre la procedura di fallimento.