30/3/2015 - Studio Ducoli

QUADERN
/ LUNEDÌ, 30 MARZO 2015
ILCASODELGIORNO
PRIMOPIANO
Anche il socio può
convocare
l’assemblea di srl
La rateazione supera il blocco
delle compensazioni con debiti
oltre 1.500 euro
/ Maurizio MEOLI
L’art. 2479-bis comma 1 c.c. si
sofferma sui modi di convocazione dell’assemblea di srl, ma nulla
dice circa i soggetti che devono
provvedere ad essa. A fronte di
tale silenzio normativo, il Comitato Triveneto dei Notai, nella massima I.B.27, ha precisato che lo
statuto della società può disciplinare con la più ampia autonomia la materia, senza dover applicare per analogia le limitazioni
imposte per la spa. Si ritiene,
quindi, possibile attribuire, mediante lo statuto, il potere di convocazione dell’assemblea ad uno
o più amministratori e/o sindaci e/o soci.
In particolare, afferma la massima 22 novembre 2005 n. 82 del
Consiglio Notarile di Milano, lo
statuto di una srl può attribuire il
potere di convocazione dell’assemblea anche a singoli soci, sia
a titolo di diritto particolare ex
art. 2468 comma 3 c.c., sia quale
potere connesso alla [...]
In presenza di cartelle di pagamento rateizzate il pagamento regolare
consente di non considerare scaduto il debito
/ Guido BERARDO
L’art. 31, comma 1 del DL 78/2010 ha introdotto, a decorrere dal 1° gennaio 2011, il divieto
della compensazione orizzontale, ex art. 17 del
DLgs. 241/97, dei crediti erariali in presenza di
debiti iscritti a ruolo per imposte erariali e relativi accessori di ammontare superiore a 1.500
euro, per i quali è scaduto il termine di versamento alla data in cui si intende effettuare la
compensazione.
Nel caso di più cartelle (o avvisi di accertamento esecutivi), per importi e per scadenze diverse,
rileva il complessivo debito scaduto ancora in
essere al momento dell’effettuazione del versamento e conseguentemente, in caso di pagamento parziale avvenuto in data anteriore a quella
in cui si intende procedere alla compensazione,
occorre fare riferimento all’ammontare del debito residuo nel giorno di presentazione del modello F24.
La norma non fa distinzioni riguardo ai ruoli ordinari o straordinari e alle iscrizioni a ruolo a
titolo definitivo o a titolo provvisorio. Qualificante ai fini della preclusione è solamente l’avvenuta scadenza del termine di pagamento del
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INEVIDENZA
FISCO
Essenziale la
motivazione che rettifica
le rendite catastali
Linee guida per i sindaci in caso di concordato
preventivo “in bianco”
Da contare i flussi successivi se il periodo di
ammortamento “supera” il piano
/ Antonio PICCOLO
Sempre valido il comunicato stampa che “sposta” il
termine per la dichiarazione
Deducibilità piena dei costi se la società svizzera paga
le imposte
Soggetti interposti al test della voluntary disclosure
ALTRENOTIZIE
debito iscritto a ruolo.
Il blocco non opera nel caso di debiti per imposte erariali superiori a 1.500 euro non ancora scaduti al momento del versamento, quindi la compensazione orizzontale è ancora possibile entro 60 giorni dalla notifica della cartella o dell’avviso di accertamento esecutivo.
Parimenti, la preclusione non opera neanche
in presenza di ruoli per i quali sia in atto una
sospensione, sia essa amministrativa o giudiziale.
L’inosservanza di tale divieto comporta l’irrogazione di una sanzione pari al 50% dell’importo dei debiti erariali scaduti. È comunque
prevista una forma di salvaguardia nel caso
di contestazione avverso l’iscrizione a ruolo,
attraverso la non applicabilità della sanzione
fino alla definizione della controversia stessa.
I tributi interessati sono le imposte dirette e le
relative addizionali, l’IRAP, l’IVA e le altre
imposte indirette, con esclusione dei tributi
locali e dei contributi di qualsiasi natura.
Sono esclusi i contributi e le agevolazioni erogati a qualsiasi titolo sotto [...]
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La sentenza n. 185/15/15, con la quale la C.T.
Prov. di Brescia ha accolto il ricorso proposto
da una società contro un avviso di accertamento catastale, merita di essere segnalata
perché dà l’opportunità di rivedere due particolarità concernenti l’attribuzione della rendita catastale mediante procedura informatica Docfa di cui al DM n. 701/1994. Si tratta di
aspetti piuttosto fondamentali, relativi al termine entro il quale l’ufficio può determinare
la rendita catastale [...]
A PAGINA 8
ancora
IL CASO DEL GIORNO
Anche il socio può convocare l’assemblea di
srl
La ricostruzione prevalente riconosce tale potere ai soci titolari di almeno un terzo del
capitale sociale, a prescindere dall’indicazione statutaria
/ Maurizio MEOLI
L’art. 2479-bis comma 1 c.c. si sofferma sui modi di convocazione dell’assemblea di srl, ma nulla dice circa i soggetti
che devono provvedere ad essa. A fronte di tale silenzio normativo, il Comitato Triveneto dei Notai, nella massima
I.B.27, ha precisato che lo statuto della società può disciplinare con la più ampia autonomia la materia, senza dover
applicare per analogia le limitazioni imposte per la spa. Si ritiene, quindi, possibile attribuire, mediante lo statuto, il potere di convocazione dell’assemblea ad uno o più amministratori e/o sindaci e/o soci.
In particolare, afferma la massima 22 novembre 2005 n. 82
del Consiglio Notarile di Milano, lo statuto di una srl può attribuire il potere di convocazione dell’assemblea anche a singoli soci, sia a titolo di diritto particolare ex art. 2468
comma 3 c.c., sia quale potere connesso alla posizione di
ogni socio.
Occorre, peraltro, chiedersi cosa accada nel caso in cui lo
statuto non contenga nessuna disposizione in proposito.
Secondo la citata massima I.B.27 del Comitato Triveneto dei
Notai, in tale ipotesi la competenza dovrà essere attribuita,
per così dire, “per derivazione”, spettando ai medesimi soggetti cui la legge attribuisce il potere di determinare gli argomenti da sottoporre all’approvazione dei soci (ex art. 2479
comma 1 c.c. ) e cioè ai singoli amministratori ed ai soci
che rappresentino almeno un terzo del capitale sociale.
Anche in giurisprudenza la soluzione decisamente prevalente (cfr. Trib. Milano 11 novembre 2013, Trib. Milano 7 maggio 2012 n. 5244, Trib. Napoli 13 luglio 2011, Trib. Milano
19 novembre 2010 e Trib. Milano 12 marzo 2007) ritiene
che nel potere dei soci che rappresentino almeno un terzo del
capitale di sottoporre gli argomenti di decisione all’assemblea rientri altresì, per via estensiva, il potere di “convocazione diretta” dell’assemblea su quegli stessi argomenti.
L’interpretazione estensiva del potere di cui all’art. 2479
comma 1 c.c. conferito ad una minoranza qualificata dei soci, infatti, è reputata compatibile con la posizione privilegiata attribuita ai soci nell’ambito delle srl, così come disegnata dalla riforma del diritto societario. Tale potere è connaturato al loro stesso status ed interpretabile come potere
concorrente e sussidiario a quello dell’organo amministrativo che eventualmente ometta di convocare l’assemblea ordinaria richiesta dalla stessa minoranza qualificata dei soci.
La norma in questione non prevede alcuna forma di mediazione o di valutazione preventiva da parte
dell’amministratore, ma fissa la centralità del potere
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decisionale dei soci attribuendo agli stessi la facoltà di
avocare a sé ogni decisione della vita sociale. È dunque
significativo il fatto che non si imponga la preventiva
sollecitazione dell’organo amministrativo ai fini della
convocazione; sicché i soci possono procedere ad essa
direttamente e immediatamente.
Diversamente, occorrerebbe interrogarsi circa il rimedio da
offrire rispetto ad un’eventuale inerzia degli amministratori a
fronte della richiesta di convocazione dei soci; dal momento
che l’applicazione analogica dell’art. 2367 c.c., con intervento sostitutivo del Tribunale, finirebbe per svalutare l’abrogazione del previgente art. 2486 comma 2 c.c., che, anteriormente alla riforma, espressamente richiamava la disciplina
della spa. Né, d’altra parte, il potere di convocazione diretta
può essere negato perché talune decisioni assembleari possono essere adottate solo previo intervento dell’organo amministrativo. Ci si riferisce al progetto di bilancio, ai progetti di fusione o scissione, nonché alle decisioni di aumento di capitale (ex art. 2475 comma 5 c.c. ); si tratta di situazioni che possono al più costituire un limite al potere generalizzato fissato dall’art. 2479 comma 1 c.c. e che non
valgono, dunque, a connotare di inammissibilità la
convocazione diretta operata dal socio.
È, poi, interessante sottolineare come talune pronunce abbiano fatto anche un passo ulteriore. È stato precisato, infatti,
che il potere dei soci qualificati di convocare l’assemblea
sussiste anche nel caso in cui lo statuto ne demandi la convocazione al solo organo gestorio. Ciò tenuto conto del fatto
che la disposizione di cui all’art. 2479 comma 1 c.c. costituisce regola di garanzia inderogabile e che il rinvio all’atto
costitutivo per la disciplina dei “modi di convocazione
dell’assemblea”, di cui all’art. 2479-bis comma 1 c.c., appare piuttosto riferibile alle sole modalità di convocazione in
senso stretto, in quanto destinate ad assicurare la tempestiva
comunicazione degli argomenti da trattare (mezzo di comunicazione, termini, ecc.), come denotato dalla disciplina contenuta nella seconda parte dello stesso primo comma, che regola appunto tali strette modalità per l’ipotesi di silenzio
dell’atto costitutivo (cfr. Trib. Milano 11 dicembre 2014,
Trib. Milano 10 novembre 2014, Trib. Milano 11 novembre
2013 e Trib. Milano 12 marzo 2013).
A fronte di tutto ciò, appaiono decisamente discutibili alcune decisioni che – in presenza di una riserva statutaria del
potere in questione in capo all’organo gestorio – hanno desunto il potere di convocazione di “ciascun socio” dall’art.
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ancora
2479-bis c.c. (Trib. Verona 20 luglio 2004) ovvero anche
(Trib. Torino 18 ottobre 2012) o solo (Trib. Macerata 27
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febbraio 2006) dall’art. 2479 c.c.
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ancora
FISCO
La rateazione supera il blocco delle
compensazioni con debiti oltre 1.500 euro
In presenza di cartelle di pagamento rateizzate il pagamento regolare consente di non
considerare scaduto il debito
/ Guido BERARDO
L’art. 31, comma 1 del DL 78/2010 ha introdotto, a decorrere dal 1° gennaio 2011, il divieto della compensazione
orizzontale, ex art. 17 del DLgs. 241/97, dei crediti erariali in presenza di debiti iscritti a ruolo per imposte erariali e
relativi accessori di ammontare superiore a 1.500 euro, per
i quali è scaduto il termine di versamento alla data in cui si
intende effettuare la compensazione.
Nel caso di più cartelle (o avvisi di accertamento esecutivi),
per importi e per scadenze diverse, rileva il complessivo debito scaduto ancora in essere al momento dell’effettuazione
del versamento e conseguentemente, in caso di pagamento
parziale avvenuto in data anteriore a quella in cui si intende procedere alla compensazione, occorre fare riferimento
all’ammontare del debito residuo nel giorno di presentazione del modello F24.
La norma non fa distinzioni riguardo ai ruoli ordinari o
straordinari e alle iscrizioni a ruolo a titolo definitivo o a
titolo provvisorio. Qualificante ai fini della preclusione è
solamente l’avvenuta scadenza del termine di pagamento
del debito iscritto a ruolo.
Il blocco non opera nel caso di debiti per imposte erariali
superiori a 1.500 euro non ancora scaduti al momento del
versamento, quindi la compensazione orizzontale è ancora
possibile entro 60 giorni dalla notifica della cartella o
dell’avviso di accertamento esecutivo.
Parimenti, la preclusione non opera neanche in presenza di
ruoli per i quali sia in atto una sospensione, sia essa
amministrativa o giudiziale.
L’inosservanza di tale divieto comporta l’irrogazione di una
sanzione pari al 50% dell’importo dei debiti erariali scaduti. È comunque prevista una forma di salvaguardia nel caso
di contestazione avverso l’iscrizione a ruolo, attraverso la
non applicabilità della sanzione fino alla definizione della
controversia stessa.
I tributi interessati sono le imposte dirette e le relative addizionali, l’IRAP, l’IVA e le altre imposte indirette, con esclusione dei tributi locali e dei contributi di qualsiasi natura.
Sono esclusi i contributi e le agevolazioni erogati a qualsiasi
titolo sotto forma di credito d’imposta, anche se vengono
indicati nella sezione “Erario” del modello F24.
La circolare n. 13/2011 ha precisato che per importi “accessori” devono intendersi, oltre che sanzioni e interessi, gli aggi, gli interessi di mora e le altre spese collegate al ruolo,
quali quelle di notifica o quelle relative alle procedure esecu-
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tive sostenute dall’Agente della riscossione e, in generale,
tutte le spese rimborsabili all’Agente. La norma è finalizzata,
infatti, alla copertura integrale dei ruoli scaduti, senza
operare differenze tra le voci che lo compongono.
La circ. n. 13/2011 ha altresì chiarito che:
- non rientrano nel divieto di compensazione i crediti diversi da quelli erariali, come ad esempio i crediti previdenziali, che dunque possono essere compensati anche in presenza di debiti erariali iscritti a ruolo e scaduti;
- l’apposizione del visto di conformità sulle relative dichiarazioni per i crediti IVA (o delle altre imposte dal 2014) non
impedisce l’applicazione della disposizione. Infatti, l’apposizione del visto non elimina l’ulteriore adempimento di verificare l’eventuale esistenza di debiti scaduti;
- la limitazione opera soltanto sulle compensazioni c.d.
“orizzontali” e non su quelle “verticali”;
- non sorgono impedimenti alla compensazione in presenza
di importi iscritti a ruolo ma non definitivi e scaduti;
- è applicabile indipendentemente dalla data di notifica della
cartella di pagamento, per cui rilevano anche quelle eventualmente ancora in essere anche se notificate antecedentemente all’entrata in vigore della norma.
Il divieto in esame è superabile attraverso il pagamento diretto all’Agente della riscossione dell’intero debito scaduto, anche avvalendosi della speciale forma di compensazione prevista dall’art. 31, comma 1 quinto periodo.
Poiché, però, soprattutto di questi tempi, raramente è possibile azzerare il debito in unica soluzione, la richiesta di rateazione costituisce una valida alternativa che permette di
non incappare nel divieto in commento.
Infatti, in presenza di cartelle di pagamento per le quali è stata concessa la rateazione da Equitalia, il pagamento regolare
consente di considerare tale debito non “scaduto”; diversamente, in caso di non regolare pagamento delle rate, si possono verificare le seguenti situazioni:
- se il mancato pagamento alla scadenza riguarda una o più
rate ma il piano di rateazione è ancora in essere, rileva, al
fine del raggiungimento del limite di 1.500 euro, esclusivamente la rata (o le rate) scaduta;
- nel caso di mancato pagamento di otto rate, anche non
consecutive, il debitore decade automaticamente dal beneficio della dilazione, per cui l’importo complessivo del
debito residuo non pagato rileva al fine della verifica del
blocco alla compensazione.
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ancora
IMPRESA
Linee guida per i sindaci in caso di
concordato preventivo “in bianco”
I controlli di legalità riguardano i presupposti, la documentazione e l’adempimento
degli obblighi informativi
/ Michele BANA
Una delle principali novità contenute nella bozza dei “Principi di comportamento del collegio sindacale delle società
non quotate” è rappresentata dalla norma CNDCEC 11.5,
che indica i doveri di vigilanza richiesti all’organo di controllo nel caso in cui la società depositi una domanda di concordato preventivo “in bianco” (art. 161, comma 6 del RD
267/1942), ovvero con successivo deposito – entro il termine che sarà fissato dal tribunale – del piano, della proposta
e della relativa documentazione.
Tale disciplina fu, infatti, inizialmente introdotta dal DL n.
83/2012 e, poi, modificata, dal DL n. 69/2013 e, quindi, successivamente all’entrata in vigore della precedente versione
delle norme di comportamento: conseguentemente, sinora, in
pendenza di una domanda di concordato preventivo “prenotativa”, l’organo di controllo, in mancanza di uno standard
di riferimento, ha svolto le proprie verifiche sulla base delle
raccomandazioni fornite dalla dottrina.
La formulazione di uno specifico principio era, pertanto,
particolarmente attesa. La norma 11.5 stabilisce, in primo
luogo, che – qualora la società opti per la proposizione di
una domanda di concordato “in bianco” – il collegio sindacale prende conoscenza della decisione della società, assunta ai sensi dell’art. 152 L. fall.
L’organo di controllo, nell’esercizio delle funzioni riconosciutegli dall’art. 2403 c.c., deve, poi, verificare che:
- la società depositi, unitamente al ricorso contenente la domanda, i bilanci relativi agli ultimi tre esercizi e, a parere di
chi scrive, l’elenco nominativo dei creditori (art. 161, comma 6 L. fall.), la deliberazione sociale di presentazione della domanda e l’ulteriore documentazione eventualmente richiesta dalla prassi del tribunale competente (certificato o
visura camerale, situazione contabile aggiornata, ecc.);
- non sussistano le cause ostative all’ammissibilità previste
dall’art. 161, comma 9 L. fall., ovvero che l’impresa, nei due
anni precedenti, non abbia presentato un’istanza analoga
alla quale non abbia fatto successivamente seguito l’ammissione alla procedura di concordato preventivo, o l’omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti.
Successivamente, nel caso in cui il tribunale non ravvisi
l’esistenza di condizioni impeditive, e decreti il termine per
il deposito del piano, della proposta e della documentazione
di cui all’art. 161 L. fall., il collegio sindacale è tenuto a vigilare che la società assolva tempestivamente tale
adempimento, nonché gli obblighi informativi periodici
contemplati dal successivo comma 8.
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Quest’ultima attività di controllo è condotta in un’ottica di
collaborazione con il tribunale e, se nominato con il predetto decreto, il commissario giudiziale, a favore del quale deve essere fornito un virtuoso flusso di informazioni: il collegio sindacale deve comunicare eventuali irregolarità riscontrate nella gestione, anche al fine di consentire al commissario giudiziale di riferirne immediatamente al tribunale,
in presenza di uno dei comportamenti previsti dall’art. 173
L. fall.
Attestazione redatta da un professionista con i requisiti
prescritti
L’organo di controllo deve altresì accertare che l’attestazione sia redatta da un professionista in possesso dei requisiti prescritti dall’art. 67, comma 3, lett. d) L. fall., e ne verifica il contenuto sotto il profilo formale, così come già raccomandato dalle norme 11.3 e 11.4, con riferimento all’adozione di un piano attestato di risanamento (si veda “Controlli
di legalità dei sindaci sul piano di risanamento” del 16 marzo 2015) o di un accordo di ristrutturazione dei debiti.
Sino al decreto di ammissione di cui all’art. 163 L. fall.,
che sancisce l’apertura della procedura di concordato preventivo, il collegio sindacale deve intensificare la vigilanza
sugli assetti organizzativi adottati, anche in funzione della
necessità di garantire il rispetto della par condicio creditorum: a questo proposito, si rammenta che, in tale orizzonte
temporale, la società può compiere liberamente gli atti di
ordinaria amministrazione, mentre quelli di natura straordinaria possono essere posti in essere soltanto se urgenti e
previa autorizzazione del tribunale (art. 161, comma 7 L.
fall.), e gli eventuali debiti che dovessero insorgere sono
qualificati come prededucibili, ai sensi dell’art. 111 L. fall.
Si segnala, infine, che – nel termine fissato dal tribunale per
il deposito del piano di concordato preventivo, della proposta e della relativa documentazione – alla società è, peraltro,
riconosciuta la facoltà di depositare un’istanza di omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti (art. 182-bis,
comma 1 L. fall.): al ricorrere di tale ipotesi, il collegio sindacale, previamente informato dall’organo amministrativo,
verifica la sussistenza dei presupposti di legge ed esercita i
controlli raccomandati dalla norma 11.4 (si veda
“Ristrutturazione dei debiti, controlli dei sindaci anche sul
pre-accordo” del 23 marzo 2015).
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ancora
CONTABILITÀ
Da contare i flussi successivi se il periodo di
ammortamento “supera” il piano
Per l’OIC 9, nella capacità di ammortamento con approccio semplificato si deve tener
conto di eventuali benefici successivi all’ultimo anno di previsione
/ Fabrizio BAVA e Alain DEVALLE
Nell’effettuare il test al fine di verificare l’eventuale presenza di perdite durevoli di valore si possono distinguere due
situazioni:
- il valore netto contabile delle immobilizzazioni materiali
e immateriali si azzera nei cinque esercizi successivi;
- il valore netto contabile delle immobilizzazioni materiali e
immateriali non si azzera nei cinque esercizi successivi.
Nel primo caso, il test è superato e non è pertanto necessario effettuare svalutazioni per perdite durevoli di valore
quando la capacità di ammortamento complessiva nei cinque esercizi del piano previsionale è superiore alla somma
degli ammortamenti relativi ai cinque esercizi.
Si pensi, ad esempio, ad un’impresa che ha un valore netto
contabile delle immobilizzazioni materiali e immateriali
complessivamente pari a 1.000, con un ammortamento annuo pari a 200. Nell’arco temporale del piano, che può al
massimo essere quinquennale (salvo casi particolari), si
completerà il processo di ammortamento delle immobilizzazioni.
Se la capacità di ammortamento, data dal risultato d’esercizio dei successivi cinque esercizi determinato senza tali
ammortamenti, l’area straordinaria e la fiscalità dell’area
straordinaria (si veda “Anche gli oneri finanziari nel calcolo
della capacità di ammortamento” del 25 marzo 2015), è pari
a 1.300, il valore netto contabile, pari a 1.000, è inferiore al
valore recuperabile, rappresentato appunto dalla capacità di
ammortamento di 1.300, e non è necessario procedere ad alcuna svalutazione.
In tali situazioni, la somma algebrica degli ammortamenti
relativi ai successivi cinque esercizi, pari a 1.000, corrisponde al valore netto contabile delle immobilizzazioni
materiali e immateriali.
Molto spesso, però, le imprese presentano in bilancio attività il cui periodo residuo di ammortamento è superiore ai
successivi cinque esercizi come nel caso di immobili, impianti e macchinari ma anche marchi, brevetti, e così via.
Riprendendo l’esempio precedente, come ci si deve comportare se il valore netto contabile delle immobilizzazioni materiali ed immateriali complessivamente ammontasse a 1.800,
sempre in presenza di un ammortamento annuo pari a 200 e
una capacità di ammortamento complessivamente pari a
1.300?
Se si confrontasse la capacità di ammortamento, pari a
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1.300, con il valore netto contabile, pari a 1.800, si potrebbe
ritenere che il test non sia stato superato. Naturalmente,
però, dovendo limitare l’arco temporale del piano a soli cinque esercizi, il piano non tiene in considerazione i possibili
benefici che le immobilizzazioni materiali e immateriali potranno produrre negli esercizi successivi a quelli di riferimento del piano.
In tali situazioni, nel determinare la capacità di ammortamento, è necessario considerare anche i flussi economici
che produrranno le immobilizzazioni negli esercizi successivi al quinto. Tale valore, precisa l’OIC 9, deve essere determinato “sulla base dei flussi di benefici netti che si ritiene
l’immobilizzazione possa produrre negli anni successivi
all’ultimo anno di previsione esplicita”.
La capacità di ammortamento complessiva è data dalla sommatoria dei flussi economici previsti a piano e dell’eventuale valore in termini di benefici economici netti legati alle attività per le quali si determina il valore derivante
dall’utilizzo per il periodo successivo rispetto a quello previsto a piano (per esemplificazioni numeriche si rimanda a “I
nuovi OIC”, Volume III, edito da Eutekne).
Se ad esempio, le immobilizzazioni sono rappresentate unicamente da beni che hanno una vita residua di nove anni
ma il piano preso a riferimento ha una durata di cinque anni, occorre tener conto anche degli (eventuali) benefici successivi al quinto anno.
Più in generale, l’impresa deve dimostrare di avere, “in linea tendenziale”, la capacità di ammortamento sufficiente a
coprire gli ammortamenti che residuano e, pertanto, la capacità di ammortamento in quanto valore derivante dall’utilizzo deve essere successivamente confrontata con il valore
netto contabile delle attività materiali e immateriali.
In alcuni casi, ad esempio nel caso degli immobili, alla capacità di ammortamento che emerge dal piano si potrà sommare l’eventuale flusso di reddito ottenibile dalla cessione
dell’immobile al termine della vita utile.
In ogni caso, per ritenere che si possa recuperare il valore
delle immobilizzazioni materiali e immateriali, e quindi non
procedere ad alcuna svalutazione, è necessario che la capacità di ammortamento nel periodo previsto a piano sia superiore agli ammortamenti iscritti, ovvero che gli
ammortamenti complessivamente siano inferiori al valore
complessivo della capacità di ammortamento.
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ancora
FISCO
Sempre valido il comunicato stampa che
“sposta” il termine per la dichiarazione
Per la Cassazione occorre considerare in ogni caso il principio del legittimo
affidamento
/ Alfio CISSELLO e Massimo NEGRO
L’art. 10 comma 2 della L. 212/2000 prevede l’esclusione
sia delle sanzioni che degli interessi moratori qualora il
contribuente si sia uniformato ad indicazioni contenute in atti dell’Amministrazione finanziaria e quando il suo comportamento risulti posto in essere a seguito di fatti direttamente
conseguenti a ritardi, omissioni o errori
dell’Amministrazione stessa.
Questo principio discende direttamente dalla Costituzione e
dai dogmi su cui si fonda il diritto comunitario, e per questa
ragione ha una portata ampia, non circoscritta alle sanzioni
e agli interessi moratori.
Come ci è stato segnalato da alcuni lettori, è necessario prestare la massima attenzione ai potenziali effetti negativi scaturenti dall’esecuzione di un adempimento tributario oltre il
termine di legge, pure quando la legittimità di ciò tragga fondamento da un comunicato stampa dell’Agenzia delle
Entrate (si veda “Non sempre c’è da fidarsi di «proroghe»
disposte da comunicati dell’Agenzia”).
Per prima cosa, è sempre opportuno che, in caso di differimento di termini “disposto” mediante comunicato stampa, il
contribuente ne conservi una copia, in quanto potrà essere
utile se, anni dopo, l’Erario manifestasse l’intenzione di
sanzionare il contribuente per la tardività nell’adempimento
stesso. Astrattamente, si può spaziare dal termine per i
versamenti a quello per la presentazione delle dichiarazioni.
La Corte di Cassazione, con l’importante sentenza n. 26867
dello scorso 18 dicembre 2014, ha affermato che ove, mediante comunicato stampa, sia stato differito, per ragioni di
“intasamento” del sistema telematico, il termine relativo ad
un adempimento tributario, è con riferimento al termine
postergato che deve essere vagliata la tempestività
dell’adempimento.
In merito al caso esaminato nella sentenza, concernente la
presentazione della domanda di rimborso IVA tramite il
“vecchio” modello VR, quindi, è dal termine postergato che
decorrono i novanta giorni entro cui, come da istruzioni alla
compilazione del modello, questo si ritiene presentato validamente.
È lampante che l’applicazione del menzionato principio ha
/ EUTEKNEINFO / LUNEDÌ, 30 MARZO 2015
rilievo pure in merito al termine entro cui va presentata la dichiarazione dei redditi, e lo stesso dicasi per le dichiarazioni IRAP e IVA.
Il termine ordinario per presentare la dichiarazione dei redditi coincide con il 30 settembre, e la dichiarazione, se presentata entro novanta giorni da tale termine, è comunque valida,
salva la necessità di corrispondere le relative sanzioni per il
ritardo.
Inconferente il richiamo all’art. 9 dello Statuto
La presentazione della dichiarazione entro i predetti novanta
giorni pone al riparo il contribuente da diverse conseguenze
assai pregiudizievoli, ulteriori a quelle relative alle sanzioni
amministrative.
Quando spira il menzionato termine, infatti, da un lato, il Fisco può procedere con l’accertamento tramite il metodo induttivo-extracontabile, dall’altro, il contribuente non può
più avvalersi del ravvedimento operoso (si vedano, in merito alle imposte sui redditi, gli artt. 39 comma 2 del DPR
600/73 e 13 comma 1 lettera c) del DLgs. 472/97).
Ipotizziamo che tramite comunicato stampa il termine, per
una qualsivoglia ragione, venga spostato al 3 ottobre: applicando quanto detto dalla Cassazione, è dal 4 ottobre che,
“agli occhi” del contribuente, la dichiarazione comincia ad
essere tardiva, per cui è da questa data che decorrono i novanta giorni per il ravvedimento operoso.
Non ha rilievo che, ai sensi dell’art. 9 della L. 212/2000, il
differimento di termini debba avvenire con decreto ministeriale, in quanto tutte le norme statutarie devono essere
interpretate con il fine di tutelare la parte debole del
rapporto, cioè il contribuente.
Precisano i giudici che “se l’Amministrazione finanziaria,
per ragioni di pubblico interesse e tra esse non ultimi i propri problemi telematici, differisca un termine per il compimento di adempimenti fiscali, possa essere adottata una forma diversa più consona alla concreta situazione di urgenza e
più aderente agli odierni media, quale il comunicato
divulgato tramite l’Ufficio Stampa”.
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FISCO
Essenziale la motivazione che rettifica le
rendite catastali
L’Ufficio non può solo comunicare il classamento ritenuto adeguato, ma deve fornire
gli elementi per i quali la proposta del contribuente non è corretta
/ Antonio PICCOLO
La sentenza n. 185/15/15, con la quale la C.T. Prov. di Brescia ha accolto il ricorso proposto da una società contro un
avviso di accertamento catastale, merita di essere segnalata perché dà l’opportunità di rivedere due particolarità concernenti l’attribuzione della rendita catastale mediante
procedura informatica Docfa di cui al DM n. 701/1994. Si
tratta di aspetti piuttosto fondamentali, relativi al termine
entro il quale l’ufficio può determinare la rendita catastale
definitiva, rettificando quindi la rendita “proposta” dal
contribuente, e alla motivazione del relativo avviso di
accertamento.
Una società bresciana, proprietaria di due fabbricati, ha impugnato un avviso di accertamento con il quale l’ufficio
tecnico locale aveva rettificato le rendite catastali proposte dalla contribuente con apposita dichiarazione Docfa. Secondo la ricorrente, l’avviso non era idoneo a rettificare le
rendite proposte perché emanato oltre il termine di 12 mesi
dalla data di presentazione della dichiarazione (art. 1, comma 3 del DM n. 701/1994). Lo stesso avviso, inoltre, era
nullo per carenza assoluta di motivazione, dato che conteneva soltanto la descrizione della consistenza delle porzioni
immobiliari e la tipologia delle unità con i relativi valori.
In particolare la ricorrente, che ha invocato la nullità
dell’avviso anche per la mancata allegazione dei documenti richiamati nel medesimo avviso (art. 7, comma 1 della L.
n. 212/2000; cfr., per tutte, Cassazione n. 1301 del 26 gennaio 2015), ha osservato che la mera indicazione di una diversa valutazione rispetto a quella proposta dalla contribuente, come è avvenuto nel caso di specie, costituisce il dispositivo dell’avviso di accertamento e non la motivazione
che invece deve enunciare in modo adeguato i criteri e gli
elementi che hanno determinato la rettifica dei valori e delle
rendite catastali.
L’ufficio ha naturalmente confermato la correttezza del proprio operato e in merito all’emanazione dell’avviso di accertamento oltre i 12 mesi dalla data di presentazione della denuncia catastale ha osservato che il termine è meramente
ordinatorio e non perentorio. Infine l’ufficio ha sostenuto,
con riferimento al vizio di motivazione, che la contribuente
per come si è difesa in giudizio ha mostrato di essere
pienamente edotta sulla materia oggetto di accertamento. I
giudici tributari bresciani hanno accolto il ricorso perché
fondato e, per l’effetto, hanno annullato l’avviso di
accertamento impugnato.
Secondo il Collegio giudicante, le giustificazioni dell’uffi/ EUTEKNEINFO / LUNEDÌ, 30 MARZO 2015
cio risultano generiche ed astratte e quindi non sono idonee a chiarire in base a quali parametri e a quali specifiche
valutazioni siano stati determinati i valori unitari, sui quali lo
stesso ufficio ha determinato le rendite catastali definitive.
In buona sostanza, nel caso di specie l’ufficio si è limitato a
comunicare il classamento che ha ritenuto adeguato alle unità immobiliari sottoposte a rettifica, senza quindi fornire alcun elemento che spiegasse perché le rendite proposte dalla
società contribuente non fossero giuste. Come si può notare,
i primi giudici hanno implicitamente respinto la doglianza
relativa al termine per la rettifica della rendita proposta.
Per una più chiara esposizione occorre ricordare che l’art. 1
del DM n. 701/1994 ha disposto fra l’altro che il dichiarante propone anche l’attribuzione della categoria, classe e relativa rendita catastale per le unità a destinazione ordinaria
(immobili appartenenti al gruppo A, B e C), oppure l’attribuzione della categoria e della rendita catastale per le unità a
destinazione speciale o particolare (immobili appartenenti
al gruppo D ed E).
Il potere di rettifica può essere esercitato anche oltre i 12
mesi
Tale rendita – così una parte del dettato del comma 3 – rimane negli atti catastali come “rendita proposta” fino a quando l’ufficio non provvede con mezzi di accertamento informatici o tradizionali, anche a campione, e comunque entro
12 mesi dalla data di presentazione delle denunce catastali,
alla determinazione della rendita catastale definitiva. Secondo il consolidato orientamento della Cassazione, il termine
di 12 mesi non ha natura perentoria, per cui il potere di
rettifica può essere esercitata anche oltre tale termine che è
meramente ordinatorio (ordinanze n. 6411 del 19 marzo
2014 e n. 26981 del 2 dicembre 2013; sentenze n. 1957 del
10 febbraio 2012 e n. 23317 del 9 novembre 2011).
Relativamente alla motivazione dell’avviso, la
considerazione dei primi giudici che hanno ritenuto
insufficiente l’operato dell’ufficio è in sintonia con il
consolidato orientamento della Cassazione (sentenza n.
23237 del 31 ottobre 2014; ordinanza n. 3394 del 13
febbraio 2014). I giudici di legittimità, infatti, hanno ribadito
che l’ufficio non può limitarsi a comunicare il classamento
che ritiene adeguato, ma deve anche fornire un qualche
elemento che spieghi perché la proposta avanzata dal
contribuente mediante la procedura Docfa sia stata disattesa.
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FISCO
Deducibilità piena dei costi se la società
svizzera paga le imposte
Secondo la C.T. Prov. Milano, il regime di indeducibilità riguarda le sole società
holding, ausiliarie e di domicilio
/ Claudia MARINOZZI
Inapplicabile la presunzione di indeducibilità dei costi
“black list” di cui all’art. 110 commi 10 e 11 del TUIR agli
acquisti di beni e servizi da fornitori residenti in Svizzera
qualora l’Autorità fiscale elvetica attesti che tali soggetti siano ivi residenti e assoggettati a integrale imposizione fiscale
e che non siano qualificabili quali società holding, ausiliarie e “di domicilio” (società che svolgono in Svizzera solo
l’attività di amministrazione e nessuna attività commerciale).
Questo è, in sintesi, quanto sancito dalla Commissione
tributaria provinciale di Milano con la sentenza n.
11619/2/2014 del 19 dicembre 2014.
Per contrastare la “distrazione” di utili dall’Italia verso Stati o territori a fiscalità privilegiata è prevista, in linea generale, una presunzione relativa di indeducibilità dei componenti negativi derivanti da operazioni intercorse con imprese residenti ovvero localizzate in Stati o territori diversi da
quelli individuati nella lista di cui al DM da emanare ai sensi dell’art. 168-bis del TUIR.
L’Agenzia delle Entrate ha chiarito, con la circolare n.
51/2010, che tale disciplina si applica anche alle operazioni
intervenute tra un soggetto residente esercente attività
d’impresa e una stabile organizzazione localizzata in un
paradiso fiscale di un’impresa residente in un Paese a fiscalità ordinaria (così come di un’impresa nazionale).
La presunzione di indeducibilità può essere superata dal contribuente dimostrando all’Amministrazione finanziaria che i
fornitori esteri svolgono prevalentemente un’attività commerciale effettiva (c.d. “prima esimente”) ovvero che le
operazioni poste in essere rispondono a un effettivo interesse economico e che le stesse hanno avuto concreta esecuzione (c.d. “seconda esimente”). Di fatto, il contribuente, per
poter dedurre i riferiti costi, dovrà quindi fornire all’Amministrazione finanziaria idonea documentazione atta a
dimostrare “la credibilità commerciale e l’effettiva
operatività del fornitore estero localizzato nel territorio a
fiscalità privilegiata” ovvero “la convenienza economica
delle operazioni poste in essere” (circ. 51/2010).
L’Agenzia delle Entrate ha, tuttavia, chiarito che “presupposto indefettibile per il riconoscimento della rilevanza fiscale dei costi black list è l’effettiva esecuzione delle operazioni da cui i medesimi costi traggono origine”. Ciò significa che l’Amministrazione finanziaria potrà disconoscere la
deducibilità dei costi black list qualora il contribuente, pur
dimostrando la sussistenza di una delle due esimenti di cui
/ EUTEKNEINFO / LUNEDÌ, 30 MARZO 2015
all’art. 110 comma 11 del TUIR, ometta di provare l’effettività delle relative operazioni.
Ai fini dell’individuazione degli Stati o territori rilevanti ai
fini dell’applicazione dell’art. 110 commi 10 e 11 del TUIR,
in attesa dell’emanazione del DM di cui all’art. 168-bis del
TUIR e di quello previsto dall’art. 1 comma 678 della legge
di stabilità 2015, occorre tuttora fare riferimento alla lista di
Stati contenuta nel DM 23 gennaio 2002. Il decreto, con riguardo alle società residenti in Svizzera, specifica che la richiamata presunzione di indeducibilità si applica solamente
“con riferimento alle società non soggette alle imposte cantonali e municipali, quali le società holding, ausiliarie e di
domicilio”.
Decisivo il certificato dell’Ufficio svizzero
Nel caso all’attenzione dei giudici milanesi, l’Agenzia delle
Entrate aveva contestato alla società contribuente l’indeducibilità dei costi sostenuti con fornitori residenti in Svizzera in
quanto questa non avrebbe adeguatamente provato la sussistenza nel caso di specie delle esimenti previste dalla legge
per il superamento della previsione di indeducibilità dei costi.
Nel ricorso introduttivo del giudizio, tuttavia, la società aveva tra l’altro eccepito l’infondatezza della pretesa dell’Ufficio stante l’inapplicabilità dell’art. 110 commi 10 e 11 del
TUIR in relazione ai costi sostenuti con i propri fornitori
svizzeri, in quanto soggetti che per loro natura non rientravano nella categoria di quelli individuati dall’art. 3 del suddetto DM. A riprova di ciò il contribuente aveva allegato agli
atti del ricorso le certificazioni rilasciate dalle Autorità fiscali elvetiche, da cui risultava che le società svizzere non
erano né società holding, né società ausiliarie, né di domicilio e che erano soggette alle imposte comunali, cantonali e
federali a un’aliquota fiscale ordinaria.
La C.T. Prov. di Milano, esaminati gli atti, ha accolto il ricorso della società affermando che con le certificazioni rilasciate dalle autorità svizzere “la ricorrente ha fornito documentazione comprovante la sottoposizione delle due società
fornitrici elvetiche alle imposte cantonali e locali svizzere” e
che pertanto “le transazioni intrattenute dalla società ricorrente con le stesse si pongono, normativamente, al di fuori
del campo di applicazione della disciplina prevista dall’art.
110, c. 10 del TUIR”.
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FISCO
Soggetti interposti al test della voluntary
disclosure
Le attività finanziarie illecitamente detenute da un italiano in Svizzera si considerano
ivi detenute anche se vi è soggetto black list interposto
/ Salvatore SANNA
Per espressa previsione normativa, può avvalersi della procedura di collaborazione volontaria anche il contribuente che
detiene attività all’estero senza esserne formalmente intestatario, avendo fatto ricorso ad un soggetto interposto o a
intestazioni fiduciarie estere.
In merito, è intervenuta la circ. Agenzia delle Entrate 13
marzo 2015 n. 10, la quale ha richiamato la circ. n. 99/2001
(§ 2.3) ed ha osservato che è impossibile dare una definizione generalizzata della nozione di “interposta persona”,
essendo essa direttamente connessa alle caratteristiche e alle
modalità organizzative del soggetto interposto.
In tale sede, a titolo esemplificativo, è stato chiarito che si
deve considerare soggetto fittiziamente interposto “una società localizzata in un Paese avente fiscalità privilegiata,
non soggetta ad alcun obbligo di tenuta delle scritture contabili, in relazione alla quale lo schermo societario appare meramente formale e ben si può sostenere che la titolarità dei
beni intestati alla società spetti in realtà al socio che effettua
il rimpatrio”.
La voluntary disclosure, pertanto, può essere utilmente attivata dal contribuente italiano che ha proceduto a “schermare” il proprio rapporto presso una banca estera, mediante la
sua intestazione ad una società localizzata in un paese black
list, o a “mascherarlo” sotto la forma di polizza assicurativa estera, riservandosi comunque la possibilità di
movimentare lo stesso direttamente in qualità di procuratore
speciale o indirettamente attraverso un proprio gestore di
fiducia.
A questi fini, l’Agenzia delle Entrate osserva che occorre determinare con esattezza il Paese nel quale questi erano illecitamente detenuti (fino al periodo d’imposta 2012 rileva la
detenzione al termine di ciascun periodo d’imposta, per il
2013 la detenzione nel corso del periodo d’imposta).
Nella circ. 10/2015 si afferma che, qualora venga utilizzato
un veicolo per garantire l’occultamento della reale disponibilità, il Paese di detenzione dell’attività è quello in cui si trova la sede di quest’ultimo. Pertanto, anche in presenza di una
detenzione effettiva dell’attività presso un paese collaborativo, quello che rileva ai fini del regime applicabile è lo stato
in cui ha sede il veicolo interposto.
Tale criterio generale non opera però in tutte le ipotesi in cui
la localizzazione dell’attività sia stata già idonea a garantire
/ EUTEKNEINFO / LUNEDÌ, 30 MARZO 2015
l’occultamento al fisco italiano della reale detenzione.
Ad esempio, un immobile ubicato in Francia o addirittura in
Italia, la cui effettiva disponibilità in capo ad un contribuente italiano è stata schermata attraverso la fittizia intestazione ad una società panamense, si considera detenuto in
Panama. Di contro, le attività finanziarie illecitamente detenute da un contribuente italiano presso un istituto di credito
con sede in Svizzera, si considerano detenute nella Confederazione elvetica a prescindere dal fatto che la relazione
bancaria sia stata fittiziamente intestata ad una società localizzata in un paese black list. Infatti, in tale caso, la semplice allocazione delle attività finanziarie in Svizzera era,
grazie al segreto bancario ivi vigente, già di per sé in grado di garantire sufficientemente l’occultamento al Fisco italiano della disponibilità delle stesse in capo al contribuente
nazionale.
Collaborazione volontaria anche per i soggetti interposti
La circolare n. 10 del 2015 ha chiarito che anche il soggetto
interposto, ricorrendone i presupposti, può aderire alla voluntary disclosure. Infatti, anche i contribuenti che hanno
avuto la disponibilità a qualunque titolo o che comunque
avevano la possibilità di movimentare attività finanziarie
all’estero pur non essendone i beneficiari effettivi sono tenuti, per consolidata giurisprudenza, ad adempiere agli obblighi dichiarativi in materia di monitoraggio fiscale. Quindi,
il gestore (persona fisica residente in Italia) di un rapporto
schermato, ma anche colui che ha la possibilità di movimentare un fondo non contabilizzato costituito all’estero da
una società di capitali, può chiedere di definire le propria
posizione fiscale con riferimento alle violazioni in materia di
monitoraggio fiscale attraverso la procedura di
collaborazione volontaria internazionale.
Con riferimento a questo chiarimenti fornito dall’Agenzia, si
ritiene che, in realtà, laddove l’interponente intenda aderire
alla procedura, il soggetto interposto residente non avrebbe
altra possibilità che aderire anche egli stesso alla voluntary
disclosure. Infatti, l’interponente darebbe notizia della sua
esistenza in sede di collaborazione volontaria, esponendolo al rischio che gli venga notificato un atto di irrogazione
delle sanzioni per omessa compilazione del modulo RW.
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LAVORO & PREVIDENZA
Dettate le regole sul finanziamento
agevolato per il TFR in busta paga
L’accordo quadro tra Ministeri e ABI definisce le procedure per i datori di lavoro con
meno di 50 dipendenti che intendono rivolgersi a una banca
/ Luca MAMONE
Con l’accordo quadro stipulato lo scorso 20 marzo 2015 tra
i Ministeri del Lavoro e delle Finanze e l’ABI, si completa
l’iter di attuazione delle disposizioni ex art. 1, comma 26 e
segg. della L. 190/2014 (legge di stabilità 2015) in materia di
erogazione in busta paga delle quote maturande di TFR,
nota come corresponsione della Qu.I.R. Infatti, con tale accordo – comprensivo di linee guida in allegato – vengono
stabiliti i termini, le condizioni e le modalità per consentire
ai datori di lavoro con meno di 50 dipendenti che non intendano provvedere con risorse proprie alla liquidazione della
Qu.I.R., di poter accedere ad un finanziamento erogato a
tasso agevolato da una banca, assistito dalla garanzia del
Fondo costituito presso l’INPS e, a sua volta, controgarantito dallo Stato.
Con riferimento agli aspetti prettamente operativi, l’accordo stabilisce in primis le condizioni necessarie per il perfezionamento dell’operazione di finanziamento, indicando gli
adempimenti cui sono tenuti in via preliminare i datori di
lavoro interessati.
Innanzitutto, sarà loro cura richiedere all’INPS, per via telematica, l’apposita certificazione rilasciata ai sensi dell’art.
6 del DPCM 29/2015, che indica i requisiti aziendali, riferiti alla specifica posizione contributiva.
Inoltre, dovrà essere inoltrata alla banca sia una visura camerale, mediante la quale si possano escludere specifiche situazioni di difficoltà dell’azienda (CIGS, procedure concorsuali, ristrutturazioni, eccetera), sia una serie di altre informazioni necessarie per il finanziamento, come ad esempio la
data di pagamento degli stipendi. Una volta ricevuta la documentazione, la banca comunicherà immediatamente
all’INPS, mediante un’apposita funzionalità on line, l’intenzione di erogare il finanziamento. Tale comunicazione riveste una certa importanza, in quanto è finalizzata ad evitare
che il datore di lavoro, con la medesima documentazione
prodotta, presenti domanda di finanziamento presso un’altra banca.
Il momento successivo, disciplinato all’art. 3 dell’accordo in
argomento, riguarda le modalità di erogazione del finanziamento, che avverrà su base mensile. In pratica, una volta ricevuta la richiesta dal datore di lavoro, la banca stipulerà il
contratto di finanziamento entro il mese precedente l’avvio
della liquidazione della Qu.I.R. La disponibilità creditizia,
determinata coerentemente con le esigenze del datore di li-
quidare mensilmente la Qu.I.R., potrà essere utilizzata a partire dal mese successivo alla data di perfezionamento
dell’operazione di finanziamento, e comunque non prima del
1° giugno 2015. Più precisamente, la somma verrà erogata
dalla banca al datore di lavoro tra il quinto e il terzo giorno
precedente il pagamento degli stipendi, previa acquisizione
telematica – entro il giorno 5 di ogni mese – delle certificazioni inviate dall’INPS.
Un aspetto particolare dell’operazione di finanziamento riguarda il tasso d’interesse applicato, il quale non può essere superiore al tasso di rivalutazione della quota di TFR ex
art. 2120 c.c. In relazione a ciò, nelle linee guida si precisa
che il tasso d’interesse potrà essere anche fisso, purché non
sia superiore all’1,5%, corrispondente alla componente fissa del tasso di rivalutazione del TFR prevista dalla predetta
disposizione civilistica.
Inoltre, si precisa che non concorrono alla determinazione
del tasso applicato le spese notarili e gli oneri fiscali relativi all’intero svolgimento del rapporto di finanziamento, nonché le spese sostenute dal datore di lavoro per l’acquisizione
delle visure camerali.
Il rimborso del finanziamento dovrà essere effettuato dal
datore di lavoro in un’unica soluzione entro il termine del
periodo sperimentale della misura in argomento, ossia il 30
ottobre 2018.
Fanno naturalmente eccezione la possibile estinzione anticipata o l’interruzione del finanziamento. Nel primo caso, è
prevista la restituzione immediata della disponibilità creditizia già fruita, qualora si accerti che il finanziamento è stato
utilizzato per finalità diverse dalla liquidazione della
Qu.I.R. Invece, in presenza di un’eventuale cessazione del
rapporto di lavoro con un dipendente interessato dal programma di liquidazione del TFR in busta paga, il datore di
lavoro dovrà effettuare un rimborso parziale alla banca, limitato alla quota riferita al dipendente cessato. Naturalmente, resta ferma la possibilità che l’estinzione anticipata possa
essere richiesta volontariamente dal datore di lavoro.
Infine, ai sensi dell’art. 7 dell’accordo, l’interruzione del finanziamento può avvenire al verificarsi di una delle condizioni espressamente indicate all’art. 3 del DPCM 29/2015,
ovvero, a titolo esemplificativo, qualora l’impresa sia sottoposta a procedure concorsuali o sia destinataria di interventi di integrazione salariale straordinaria o in deroga.
Direttore Responsabile: Michela DAMASCO
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